Testamento biologico: è un diritto disporre sulla propria sorte?

Dopo anni di discussione e attraverso un susseguirsi di progetti di legge, la nuova disciplina del biotestamento approda in Parlamento. In questi giorni, infatti, è all’esame dell’Assemblea della Camera dei Deputati il disegno di legge C. 1142-A e abb. che contiene norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. In seguito anche agli eventi mediatici degli ultimi anni (si vedano il caso Englaro e, più recentemente, il caso del DJ Fabo), il dibattito sul tema è quanto mai vivo e non solo in Parlamento, affrontando il ddl questioni di carattere etico da sempre oggetto di accese dispute. Pubblichiamo, quindi, le autorevoli opinioni dell’Avv. Facchini, favorevole alla disciplina dei c.d. D.A.T., e del Prof. Ronco, profondamente critico nei confronti del progetto di legge.

Pro
77%
Pro

Facchini Giulia

Avvocato in Torino, membro del direttivo nazionale di CamMiNo – Camera nazionale avvocati per la famiglia e per i minorenni

Contro
23%
Contro

Ronco Mauro

Avvocato e professore ordinario di diritto penale nell'Università di Padova

Pro

Facchini Giulia

Premessa

Per poter approcciare correttamente il tema delle disposizioni anticipate di trattamento – DAT- o testamento biologico, o testamento di fine vita -dall’inglese Living Will– occorre, necessariamente, partire dal tema del consenso informato ai trattamenti sanitari.

Il consenso informato fondamenti normativi

Costituzione

Esaminando i fondamenti normativi del consenso informato occorre innanzitutto richiamare prima di tutto l’art. 2 della Costituzione, che dispone che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’Uomo” tra i quali quello alla integrità fisica.

La necessità del consenso del paziente si ricava, in generale, dall’art. 13 Cost., il quale afferma l’inviolabilità della libertà personale –nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica– escludendone ogni restrizione, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge e dall’art. 32, co. 2, Cost., in cui è espressamente previsto che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".

Fonti sovranazionali

a) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (carta di Nizza), sancisce all’articolo 3 -Diritto all’integrità della persona- che: “Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato”.

A seguito della promulgazione della Carta diNizza, quindi, il consenso libero e informato del paziente all’atto medico non è più soltanto un requisito di liceità del trattamento, ma è, prima di tutto, un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all’integrità della persona.

b) La Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, firmata a Oviedo il 4 aprile 1997 ribadendo la centralità della tutela della dignità e identità della persona, prevede che: “Le Parti di cui alla presente Convenzione proteggono l’essere umano nella sua dignità e nella sua identità e garantiscono ad ogni persona, senza discriminazione, il rispetto della sua integrità e dei suoi altri diritti fondamentali riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina”. In particolare all’articolo Articolo 3 -Diritto all’integrità della persona- è previsto che: “Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone, il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro, il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani”.All’articolo 9 -Desideri precedentemente espressi- è poi sancito che: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.

Alla luce della Convenzione, come afferma il Comitato Nazionale di Bioetica già nel parere del 18 dicembre 2003: “Lo sfondo culturale che rende non più rinviabile una approfondita riflessione, non solo bioetica, ma anche bio-giuridica, sulle dichiarazioni anticipate è, quindi, rappresentato dall’esigenza di dare piena e coerente attuazione allo spirito della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, garantendo la massima tutela possibile alla dignità e integrità della persona intutte quelle situazioni in cui le accresciute possibilità aperte dall’evoluzione della medicina potrebbero ingenerare dubbi, non solo scientifici, ma soprattutto etici, sul tipo di trattamento sanitario da porre in essere in presenza di affidabili dichiarazioni di volontà formulate dal paziente prima di perdere la capacità naturale”

Con queste brevi premesse è evidente che il diritto di accettare o rifiutare i trattamenti sanitari è una estrinsecazione della tutela della dignità umana con una modifica radicale delle prospettive. Occorre infatti ricordare che la giurisprudenza più risalente, sull’assunto che “il medico aveva seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea”, lo riteneva l’unico dominus della strategia terapeutica e il paziente, pertanto, veniva concepito come semplice destinatario di scelte di stretta competenza del sanitario, anche quando riguardavano la qualità della sua vita. Oggi invece il requisito del consenso libero e consapevole del paziente, è il presupposto di legittimità dell’operato del medico, altrimenti illecito, e costituisce l’aspetto più importante dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale degli ultimi anni, in tema di responsabilità medica.

Non a caso infatti il codice deontologico medico del approvato il 18 maggio 2014, prescrive:

- all’articolo 35 che: “L’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile. Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato…..”

-e all’articolo 38: “Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da parte di persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta traccia documentale. La dichiarazione anticipata di trattamento comprova la libertà e la consapevolezza della scelta sulle procedure diagnostiche e/o sugli interventi terapeutici che si desidera o non si desidera vengano attuati in condizioni di totale o grave compromissione delle facoltà cognitive o valutative che impediscono l’espressione di volontà attuali. Il medico, nel tenere conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto e ispira la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente, dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria”. Il medico coopera con il rappresentante legale perseguendo il migliore interesse del paziente e in caso di contrasto si avvale del dirimente giudizio previsto dall’ordinamento e, in relazione alle condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili”.

Il consenso informato nella giurisprudenza

La giurisprudenza della Corte Europea diritti dell’Uomo

L’avvocato Maria Giovanna Ruo, (Presidente CamMiNo, Camera Nazionale degli avvocati per la famiglia e i minorenni) al convegno di Milano 14 settembre 2016 sul tema del fine vitaha osservato che: “E’ in atto da parte della stessa giurisprudenza CEDU un percorso di approfondimento, nel quale è già possibile leggere alcune linee di tendenza:

1) Il principio di autodeterminazione della persona è rilevante ma la stessa deve essere protetta da possibili abusi di terzi e da se stessa, se vulnerabile.

2) In assenza di elementi per stabilire quale sia o fosse –prima dell’inabilità- l’opinione della persona, si deve presumere che sia per la continuazione dei trattamenti e la tutela della sua vita.

3) Non sussistendo un common ground sul tema, gli Stati hanno ampio margine di discrezionalità, ma la normativa di uno Stato deve essere chiara sul fine vita, non lasciare le persone nell’incertezza e le Autorità nazionali debbono pronunciarsi sui ricorsi delle stesse, nei quali vengano invocate lesioni dirette dei loro diritti fondamentali,

4) Si tratta di diritti personalissimi, nell’esercizio dei quali la surroga, se non prevista dalla legge, non può esercitarsi.

Per quanto riguarda le fattispecie sottoposte al vaglio della Corte EDU, giova qui ricordare il caso V. Lambert contro Francia.

Vincent Lambert, a seguito di un incidente tetraplegico e in uno stato di completa dipendenza, e con una soglia di minima coscienza che si è ridotta progressivamente nel tempo, fino allo stato vegetativo, riceve idratazione e nutrizione attraverso un sondino gastrico. Il paziente da segni di resistenza alle procedure mediche e nel 2013 viene iniziato il procedimento disciplinato dalla legge Leonetti (2005) per il fine vita. La moglie, Rachel Lambert, ottiene in base alla legge Leonetti l’interruzione della nutrizione e la riduzione della idratazione del paziente. Altri familiari ottengono però un provvedimento di urgenza che sospende le pratiche di fine vita. Tale provvedimento di sospensione viene reclamato davanti al Consiglio di Stato francese afferma che le procedure di fine vita erano state correttamente rispettate e che pertanto la decisione medica di interrompere nutrizione e idratazione artificiale era legittima, ritenendo che il trattamento di idratazione e nutrizione artificiale possa rientrare nei casi di «accanimento terapeutico».

La giurisprudenza interna di legittimità

La Cassazione con la sentenza 21748 del 2007 sul caso Englaro afferma che: “Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente, la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”.

Ed aggiunge. “Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutti profili della libertà personale, proclamata inviolabile dall’art. 3 della Costituzione. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale “diritto di curare” a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire con il solo limite della propria coscienza … il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia, di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi“… Deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene vita”.

E ancora la Corte: “…. ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo coattiva … Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio –nel quadro di una alleanza terapeutica che tiene uniti il malato e il medico nella ricerca -insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno- per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto e la massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza e c’è, prima ancora il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”.

Dichiarazione anticipata di trattamento con rifiuto del consenso alla prosecuzione delle cure, eutanasia, suicidio assistito, sedazione terminale: differenze in pillole

A proposito della distinzione dalla ipotesi di eutanasia la Cass. Civ., sentenza n. 21748 del 2007 (caso Englaro) aggiunge: “il rifiuto delle terapie medico chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprime piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”.

Riassumendo: con il testamento biologico la persona compie una scelta, proiettata nel futuro, e fondata sul diritto di ricevere o rifiutare determinati trattamenti sanitari, anche qualora questi trattamenti si rivelassero indispensabili per la sopravvivenza.

Con l’eutanasia invece, senza qui entrare nel merito delle ulteriori distinzioni tra eutanasia attiva e passiva, si richiede ad un soggetto, normalmente un medico, la somministrazione o la prescrizione di una sostanza letale che se somministrata al richiedente ne provoca la morte e che quindi non può essere in alcun modo paragonata ad un trattamento sanitario.

Il suicidio assistito è l'aiuto medico e amministrativo portato a un soggetto che ha deciso di morire tramite suicidio. Differisce dall'eutanasia per il fatto che l'atto finale di togliersi la vita, somministrandosi le sostanze necessarie in modo autonomo e volontario, è compiuto interamente dal soggetto stesso e non da soggetti terzi, che si occupano di assistere la persona per gli altri aspetti: ricovero, preparazione delle sostanze e gestione tecnica/legale post mortem

La sedazione terminale/sedazione palliativa, è una metodica che attiene alle cosiddette cure palliative il cui obbiettivo è : “… il controllo dei sintomi refrattari e non la induzione della morte nel malato” (Raccomandazioni della SICP società italiana delle cure palliative ottobre 2007),in quanto i farmaci, dosaggi e via di somministrazione, utilizzati nella sedazione palliativa sono finalizzati al miglior controllo dei sintomi attuabile (con una riduzione della coscienza variabile e possibilmente condivisa dal malato e della famiglia) e non alla rapida induzione della morte del malato, come invece accade nell’eutanasia, tanto che alcune statistiche affermano che con la sedazione palliativa la vita del malato terminale, seppur di poco si allunga.

Stabilito che senza il consenso informato nessun atto medico/sanitario può essere validamente effettuato veniamo alla seconda grande questione

Chi presta il consenso informato quando il soggetto è incapace

Sempre la sentenza Englaro, Eluana era “non in grado di manifestare la propria volontà a causa di una totale incapacità” e non aveva “prima di cadere in tale condizione, allorché era in pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza”ammette che, in caso di dichiarazioni di volontà anticipate, a tali volontà i sanitari debbano pacificamente attenersi.

Alla domanda di come si mantenga il dualismo medico paziente quanto il paziente è incosciente la Cassazione, risponde: attraverso il rappresentante. La citata sentenza afferma infatti che la disposizione centrale è l’articolo 357 c.c., il quale letto in connessione con l’articolo 424 c.c. “prevede che il tutore ha la cura della persona dell’interdetto così investendo il tutore della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell’incapace”. Ma, aggiunge la Cassazione: “poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno, dovendo il decreto di nomina contenere l’indicazione degli atti che questi è legittimato a compire a tutela degli interessi anche di natura personale del beneficiario”, ricordando “le prime applicazioni dei giudici di merito con riguardo all’istituto dell’amministrazione di sostegno, talora utilizzato, in campo medico sanitario, per assecondare l’esercizio dell’autonomia e consentire la manifestazione di una volontà autentica là dove lo stato di decadimento cognitivo impedisca di esprimere un consenso realmente consapevole”.

È quindi pacifico che l’amministratore di sostegno possa esprimere per conto dell’amministrato quel consenso informato secondo le indicazioni che il beneficiario ha lasciato, oppure, dice la Cassazione: “… deve agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e nella ricerca del “best interest”, deve decidere non “al posto” dell’incapace, né “per l’incapace ma “con” l’incapace. Quindi ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”.

In conclusione dice la Cassazione: “All’individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita, e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie alle terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l’ordinamento dà la possibilità di fare sentire la sua voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il suo rappresentante legale”.

Tuttavia aggiunge la Cassazione: “La ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza … assicura che la scelta non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta esclusivamente a, dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente ed al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

Su queste basi chi scrive sostiene da tempo l’inutilità di una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento proprio alla luce della citata giurisprudenza di legittimità ripresa tra l’altro da numerose sentenze di merito.

Tuttavia se il Parlamento ritiene necessario riaffermare, con una legge ad hoc i principi legislativi e giurisprudenziali qui riassunti occorre che resti nel solco dei principi dalla legge nazionale e sovranazionale e dalla giurisprudenza di legittimità già acclarati.

I progetti di legge pendenti nella XVII legislatura, iniziata il 15 marzo 2013

I progetti pendenti nella XVII legislatura, iniziata il 15 marzo 2013, sono molti. I temi e i problemi evidenziati possono così riassumersi:

CONSENSO INFORMATO: Evidentemente nella prassi medica il vero consenso informato non è affatto praticato dato che moltissimi progetti di legge si dilungano nella dettagliata previsione del consenso informato e nella modalità di raccolta

MODALITA DELLA DICHIARAZIONE ANTICIPATA DI TRATTAMENTO è un tema anche torna in modo più o meno dettagliato in tutti i progetti, con la previsione che la dichiarazione anticipata di trattamento vada effettuata o in via estremamente ufficiale o in via orale e confermata da testimoni.

AMPIEZZA DELLE DAT: la questione è se con la direttiva anticipata di trattamento ci si possa o meno spingere sino a chiedere l’eutanasia attiva o passiva e si possa rifiutare l’alimentazione e l’ idratazione forzata

CONSERVAZIONE DELLE DAT altro problema sul quale i progetti di legge pendenti nei due rami del parlamento si dilungano è la conservazione della direttiva anticipata di trattamento con soluzioni varie che vanno dalla conservazione informale all’allegazione alla cartella clinica, alla conservazione in un registro nazionale informatico.

DURATA DELLA DAT altro tema è la efficacia nel tempo della direttiva anticipata di trattamento, e quindi la attualità del consenso informato prestato allora per oggi.

EFFICACIA DELLA DAT c’è poi la questione della vincolatività della direttiva anticipata di trattamento per i medici e il personale sanitario e le connesse responsabilità in caso di mancato rispetto della volontà espressa dal paziente nella DAT.

E ancora nei vari progetti si rinviene il tema della

NOMINA DEL FIDUCIARIO che è il soggetto a cui il paziente conferisce il compito di esprimere il proprio consenso informato; sul punto occorre sottolineare che nessun progetto di legge si preoccupa di regolamentare il rapporto tra il fiduciario e l’amministratore di sostegno o il tutore

Molti progetti pendenti si occupano del tema delle

CONTROVERSIE TRA IL PAZIENTE E/O IL FIDUCIARIO E IL MEDICO SUI TRATTAMETI DA PRATICARE O DA NON PRATICARE prevedendo le soluzioni più varie, dalla istituzione di un comitato etico per ogni struttura di ricovero al ricorso al Giudice tutelare con o senza preventiva segnalazione al Pubblico Ministero

Un elemento che anche nei progetti di legge crea evidenti problemi è la REGOLAMENTAZIONE DELL’EMERGENZA: quando il paziente è in fase acuta e non in grado di esprimere il proprio consenso informato, cosa fa il medico?

Infine ci sono molti progetti che si dilungano sul tema della RESPONSABILITA MEDICA soprattutto in caso di eutanasia.

Esaminando tutti progetti di legge a chi scrive pare che le aporie che evidenziano siano almeno tre:

- la prima riguarda una evidente difficoltà di dialogo in Parlamento -e forse anche fuori del parlamento- tra medici e giuristi; I vari progetti di legge sembrano scritti o dagli uni o dagli altri senza una sintesi soddisfacente tra i saperi e le ottiche.

- La seconda riguarda i contenuti delle direttive anticipate di trattamento dove più si norma e più si rischia di non coprire tutte le possibili evenienze. Si evidenzia anche un tentativo, di alcuni progetti, di permettere al paziente di richiedere, in determinate, situazioni l’eutanasia.

- C’è poi un ultimo problema che per me, avvocato familiarista che seguo da trent’anni separazioni e divorzi, è evidente ed è il tema dei rapporti familiari del malato. In vari progetti di legge infatti si invocano condivisioni delle decisioni sanitarie con familiari di vario tipo, senza tenere conto che a volte le famiglie sono un groviglio di conflitti e/o sovrapposizioni, con relative invidie e rancori tra famiglie legittime successive nel tempo o famiglie nate da convivenze (che oggi a seguito della legge 76 del 2016 hanno un rilievo giuridico pregnante) o che altrettanto spesso, al contrario, le persone sono completamente sole o in balia di personale prezzolato e lontanissimi parenti.

Il testo unificato licenziato dalla Commissione Affari Sociali in data 16 febbraio 2017

Nel variegato quadro che emergeva dai progetti di legge pendenti, il testo licenziato dalla commissione affari sociali il 16 febbraio scorso, è meglio di quanto si potesse ipotizzare. Nell’impostazione la proposta si limita infatti a ricalcare la normativa nazionale e internazionale sulla necessità di un valido consenso informato come indefettibile presupposto di qualsiasi intervento medico/sanitario.

La novità è che all’articolo 1 comma 5, tra i trattamenti per i quali il malato può in ogni momento revocare il consenso informato, è indicata, anche, l’idratazione e la nutrizione artificiale sulle quali nei precedenti tentativi di legiferare ci si era arenati.

Altre peculiarità da segnalare:

- Art. 1 comma 6 il richiamo espresso al fatto che, anche in caso di rifiuto delle cure, siano sempre comunque assicurate al malato le cure palliative di cui alla legge 38 del 2010 (la cui erogazione però non è ad oggi garantita con la stessa qualità su tutto il territorio nazionale).

- Art. 1 comma 9: la previsione che il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura, il che è particolarmente importante nella pianificazione della erogazione delle prestazioni sanitarie oggi sempre più improntati ad un marcato efficientismo spesso a scapito della qualità della prestazione e della relazione medico paziente.

- Art. 3 comma 1 la previsione che i maggiorenni capaci possano esprimere anticipatamente attraverso la dichiarazione anticipata di trattamento il consenso informato e che tale consenso possa includere il rifiuto della nutrizione e idratazione artificiale nominando un fiduciario “che ne faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le strutture sanitarie. Una critica necessaria a tale previsione è il mancato coordinamento delle funzioni del fiduciario con quelle degli altri rappresentanti dell’incapace (amministratore di sostegno e tutore menzionati all’articolo 2) e che la norma non si coordini con poteri conferito al convivente in materia di fine vita dal comma 40 della legge sulle Unioni civili.

- Art. 3 Comma 4: prevede che le dichiarazioni anticipate di trattamento possano essere disattese: “qualora sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” stabilendo che: “Nel caso di conflitto tra fiduciario e medico, si procede ai sensi di quanto previsto dal comma 3” con ricorso quindi al giudice tutelare.

- Art. 3 Comma 5: per quanto riguarda le modalità di espressione delle DAT la legge prevede che: “…. devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata, con sottoscrizione autenticata dal notaio” come la designazione preventiva di amministratore di sostegno d cui all’articolo 408 c.c., “o da altro pubblico ufficiale o da un medico dipendente del Servizio sanitario nazionale o convenzionato”; in medico a questa ultima previsione si ipotizza che il medico non sia il professionista più adatto al compito di autenticare una firma come si ipotizza le associazioni d categoria faranno rilevare. Quanto all’attualità ed alla possibilità di revoca del consenso informato anticipato precedentemente espresso sempre il comma 5 prevede che: “Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, (le DAT) possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento; in caso di emergenza o di urgenza, la revoca può avvenire anche oralmente davanti ad almeno due testimoni”. E’ evidente che tali evenienze possono creare problemi di prova dato che il tutto si suppone avvenga in un contesto ospedaliero o di hospice certo non attrezzato.

- Articolo 4: la norma, del tutto condivisibile, titola “Pianificazione delle cure” e prevede che: “Nella relazione tra medico e paziente di cui all’articolo 1, rispetto all'evolversi delleconseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico è tenuto ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità. Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia, sono adeguatamente informati, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, in particolare a proposito del possibile evolversi della patologia in atto, di quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, delle possibilità cliniche di intervenire, delle cure palliative. Il paziente esprime il proprio consenso rispetto a quanto proposto dal medico, ai sensi del comma precedente, e i propri intendimenti per il futuro, compresa l'eventuale indicazione

di un fiduciario. Il documento scritto, o video registrato, è sottoscritto o validato dal paziente e dal medico curante e inserito nella cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico e ne viene data copia al paziente. Il documento di pianificazione delle cure può essere sempre modificatodal paziente. Per quanto riguarda tutti gli aspetti non espressamente disciplinati dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui all’articolo 3”.

- Art. 5: è una norma transitoria che tenta di salvare: “ …i documenti atti ad esprimere le volontà del disponente in merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di residenza o davanti a un notaio prima della data di entrata in vigore della presente legge” ma se un consiglio l’operatore del diritto può dare è quello di riformulare le proprie DAT con le forme previste dalla legge quando sarà approvata.

Contro

Ronco Mauro

Premessa

Il commento del testo di proposta di legge attualmente in discussione alla Camera dei Deputati intitolato: “Norme in materia di concorso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” merita una premessa di carattere generale in ordine ai criteri ispiratori dell’intero corpo normativo. Come noto, l’interpretazione di ciascuna disposizione normativa si svolge all’interno di un processo ermeneutico che raffronta il testo con il contesto che riguarda la situazione di vita oggetto di considerazione alla luce del fine che la legge intende perseguire. Il punto di partenza concerne la focalizzazione esatta del fine della legge, cui segue l’esame del testo per verificare se esso consente di risolvere la situazione di vita (id est: il contesto) conformemente al fine.

Il fine della proposta di legge

Ciò considerato, non può esservi dubbio che il fine della proposta è di affermare il principio, per la prima volta nel nostro ordinamento, della disponibilità della vita umana contro quello della sua indisponibilità, che è inscritto nella Costituzione e nel complesso delle leggi ordinarie all’interno di una tradizione ininterrotta che vive nella civiltà giuridica italiana da epoca immemorabile.

Questo scopo risulta inequivocabilmente in forza di una serie di indizi gravi, precisi e concordanti. Li si enumerano brevemente: i) l’assenza del riconoscimento del diritto inviolabile della vita umana; ii) la scomparsa del divieto dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente; iii) l’implicita abolizione di tali divieti nel co. 7 dell’art. 1, ove è detto che: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”; iv) l’eliminazione del principio di beneficialità come fondamento dello statuto dell’attività medica (artt. 1, co. 1 e 2); v) la denominazione come “disposizioni” delle dichiarazioni anticipate di trattamento (cfr. l’intitolazione della legge; la rubrica dell’art. 3; art. 3, co. 5); vi) la previsione come “trattamento” sanitario della nutrizione e dell’idratazione c.d. artificiali (art. 1, co. 5 e art. 3, co. 2), che sono, invece, forme di sostegno vitale; vii) la vincolatività delle disposizioni anticipate di trattamento per il medico, tranne che per il caso di sussistenza di terapie non prevedibili all’atto della loro sottoscrizione.

L’introduzione nell’ordinamento del principio della disponibilità della vita

Da un punto di vista rigorosamente giuridico è corretto sostenere che una legge nuova sul tema del consenso del paziente alle cure e dei trattamenti da prestarsi in fine vita non è necessaria, in quanto i princìpi costituzionali e del diritto internazionale (cfr. in particolare la Convenzione di Oviedo del 1997 sui diritti dell’uomo e la biomedicina, il cui art. 9, nell’ottica di una vera alleanza terapeutica tra il medico e il malato, si limita a dire che i desideri del malato precedentemente espressi a proposito di un intervento medico “saranno tenuti in considerazione”) consentono già oggi di risolvere secondo scienza e prudenza i casi più problematici di conflitto tra l’abbandono terapeutico e l’eccesso futile delle cure.

In realtà, la legge è fortemente voluta, da una parte consistente dei suoi fautori, perché è funzionale allo scopo di introdurre nell’ordinamento il principio rivoluzionario che la vita è un bene disponibile. L’affermazione franca e diretta di tale principio sarebbe ancora oggi difficile, onde se ne preferisce l’introduzione surrettizia, destinata a svilupparsi e approfondirsi nell’interpretazione giudiziaria, che si potrà facilmente giustificare in base alla metodologia ermeneutica cui si è accennato in precedenza.

La nuova disciplina del consenso informato

Passando ai singoli punti della normativa, è opportuno iniziare dall’art. 1, che stabilisce nuove norme in tema di “consenso informato”. Ciò è a prima vista sorprendente, atteso che la normativa oggi esistente al riguardo è completa e non contiene smagliature di sorta. In realtà, è possibile constatare che, tramite la porta del “consenso”, si intende dare ingresso ad alcune novità che destano serie perplessità.

La prima sta nell’art. 1, ove si dice che: “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. La disposizione, apparentemente neutrale, rivoluziona le basi della bioetica consolidata, che contempla come essenziali per il trattamento medico della persona, accanto al principio del consenso, altresì e soprattutto i princìpi di beneficialità e di giustizia.

Centrale è il principio di beneficialità: l’attività medica in tanto è legittima e doverosa per il medico in quanto sia diretta al bene integrale della persona, cioè alla salvaguardia della sua vita e della sua integrità psico-fisica, nonché alla cura e all’alleviamento della sua sofferenza.

Naturalmente il fine beneficiale, che caratterizza l’attività medica e che ne costituisce l’intrinseca natura, non deve essere calato autoritariamente dall’alto sul soggetto ammalato e sofferente, ma deve essere perseguito attraverso l’alleanza terapeutica tra il medico e il malato. Il “consenso” al trattamento non è qualcosa che si contrapponga alla beneficialità, bensì è la partecipazione consapevole del malato alla realizzazione del proprio bene. Egli può valutare tale bene in modo difforme rispetto a quanto proposto dal medico nell’alleanza; per esempio, egli può scegliere una cura farmacologica meno invasiva a un’altra più invasiva, magari indicata dal medico come più efficace. Può rifiutare un intervento chirurgico per i rischi che comporta o per i dolori che ne conseguono o per le minorazioni che ne derivano. Può affidarsi esclusivamente alle cure c.d. palliative ovvero limitarsi a insistere per l’accompagnamento verso la morte tramite analgesici.

Il ruolo e il significato del consenso o del dissenso alla cura è molto rilevante; non deve però essere visto come il fondamento dell’attività medica, bensì come il suo limite. Ciò importa che, in casi tutt’altro che infrequenti, quando il paziente non sia in grado di esprimere un consenso informato, vuoi perché, pur cosciente, non è in grado di comprendere il significato dell’informazione, anche se espressa in termini semplici, vuoi perché si trova in stato di incoscienza, l’attività medica deve esplicarsi in tutta la sua intrinseca portata di beneficialità, secondo i parametri ragionevolmente oggettivi mediati dalla scienza e dalla prudenza del medico. Né va dimenticato il rispetto per il principio bioetico della giustizia, che implica la non discriminazione tra i malati e la giusta allocazione delle risorse, non inesauribili, della medicina.

Ciò considerato, è evidente che l’art. 1 comprime, fin quasi ad annullarlo, il principio di beneficialità, che è il fondamento intrinseco dell’attività medica, poiché sostiene in modo aberrante che il trattamento potrebbe essere iniziato o perseguito, senza il consenso, esclusivamente “nei casi espressamente previsti dalla legge”. L’avverbio “espressamente” fa della medicina e della chirurgia qualcosa di eccezionale, come se il medico non potesse salvare un morente a causa di un’infermità rimuovibile se non ci fosse un’espressa previsione di legge che lo consentisse.

L’offuscamento del principio di beneficialità dell’attività medica

Con ciò l’essenza beneficiale dell’arte medica è travolta in forza del principio astratto, spesso non concretizzabile per ragioni oggettive, dell’imprescindibile consenso del paziente.

Non è chi non veda l’enorme regresso civile che siffatta regola compressiva dell’attività medica è destinata a provocare. Chi ha commesso un gesto anticonservativo in condizioni di disperazione psichica non potrebbe essere salvato, a meno che non prestasse un consenso, peraltro impossibile, al trattamento. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. L’esperienza dei medici e degli infermieri è in grado di testimoniare in ordine all’innumerevole serie di gesti di cura e di assistenza praticati ai malati, nelle circostanze più diverse e drammatiche, senza un previo consenso.

In realtà, la proposizione dell’art. 1 è il frutto avvelenato dell’ideologia secondo cui, essendo la vita disponibile, nulla deve essere fatto a suo favore che non possa essere ricondotto al potere di autodeterminazione del soggetto. Ciò senza tener conto neppure del fatto che l’avanzare degli anni e l’aggravarsi delle patologie, soprattutto psichiche, fa diminuire via via nell’uomo la stessa possibilità psichica e fisica di esprimere un consenso realmente informato. E, dunque, l’impossibilità del formarsi di veri consensi, accompagnato dalla cancellazione del principio di beneficialità, offusca l’essenza beneficiale della medicina e cancella l’alleanza terapeutica, enfatizzando impropriamente l’astratto e impraticabile principio dell’autodeterminazione assoluta dell’individuo.

La sospensione o la revoca della nutrizione o dell’idratazione c.d. artificiali

Il co. 5 dell’art. 1 contempla il diritto alla revoca del consenso prestato, “anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali”.

A questa disposizione vanno opposte gravi obiezioni.

Anzitutto va contestato che la nutrizione e l’idratazione, anche se praticate per via di dispositivi artificiali, siano forme di “trattamento”. Non bisogna confondere l’essenza e il fine di una cosa o di una funzione con i mezzi tramite cui la si attua. La nutrizione e l’idratazione costituiscono sostegni indispensabili alla vita, tanto della persona sana quanto dell’ammalato. Non perdono la loro essenza quando il mezzo della loro attuazione non è quello ordinario. In secondo luogo, è noto che l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione conduce alla morte della persona tra atroci sofferenze. La sospensione o l’interruzione, dunque, costituiscono una modalità atroce di eutanasia passiva. Allo scopo di evitare le atroci sofferenze procurate da tali condotte, si ricorre abitualmente alla c.d. sedazione profonda, consistente nella somministrazione anticipata di analgesici in dosi letali. E’ evidente, allora, che la sospensione o l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione postulano necessariamente per il medico l’obbligo di contribuire attivamente alla morte del paziente con un atto eutanasico attivo.

La sedazione profonda, infatti, ha per scopo diretto, e non soltanto indiretto, quello di uccidere, e non soltanto quello di alleviare la sofferenza: e ciò in forza della concatenazione, previamente deliberata, tra l’interruzione di un atto di sostegno vitale e la susseguente sedazione.

Dunque, l’art. 1, co. 5 della proposta di legge introduce l’eutanasia, a prescindere da qualsiasi condizione di gravità e di incurabilità della malattia, atteso che il rifiuto o la revoca del consenso alla nutrizione o all’idratazione costituiscono oggetto del diritto di “ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere”. Nella legge si parla infatti solo della nutrizione o dell’idratazione “artificiali”. Evidente, perciò, è l’estensibilità della norma a qualsiasi tipo di rifiuto. Se il soggetto vuole uccidersi attraverso lo «sciopero» della sete, è evidente che l’unico modo di superare la sua resistenza è idratarlo artificialmente. Ma ciò, secondo la proposta sottoposta al Parlamento, è vietato, integrarlo la condotta contraria il reato di violenza da parte del medico e degli infermieri che collaborano con lui.

La previsione espressa dell’esenzione da responsabilità civile e penale

Si comprende allora la ragione per cui il co. 7 del medesimo art. 1, statuendo l’obbligo del medico di rispettare la volontà del paziente di rifiutare o di rinunciare, tra l’altro, alla nutrizione e all’idratazione artificiale, prevede espressamente che il medico sia “esente da responsabilità civile o penale”. L’implicito presupposto della disposizione è che la condotta del medico, costretto a praticare la c.d. sedazione profonda, è un gesto intrinsecamente eutanasico. Stabilendone l’esenzione da responsabilità, sia civile che penale, la legge abolisce in modo surrettizio il divieto dell’omicidio del consenziente, oltre che, a fortiori, dell’aiuto al suicidio. Sostenere che la legge non giustifichi l’eutanasia è contrario al vero. La conferma dell’intrinseca natura eutanasica delle disposizioni di cui ai co. 5 e 7 dell’art. 1 proviene dal mancato riconoscimento espresso dell’inviolabilità del diritto alla vita.

La disciplina del consenso nei confronti degli incapaci e delle persone vulnerabili

L’art. 2, riguardante i minori e gli incapaci, ripete la disciplina prevista per le persone maggiorenni e capaci di intendere e di volere.

Per queste ipotesi le gravi criticità riscontrate nell’art. 1 sono ancora più stridenti, se possibile, con il diritto alla vita. Infatti, il rifiuto del trattamento (non è qui detto espressamente che tale termine comprenda il rifiuto della nutrizione o dell’idratazione, ma ciò si ricava per via interpretativa) non proviene direttamente dal minore o dall’incapace (della cui volontà si dovrebbe tener conto in relazione alla sua età e al suo grado di maturità), bensì dall’esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore.

Si introduce per questa via, pertanto, l’eutanasia passiva e attiva anche della persona non in grado di esprimere una volontà a riguardo della propria vita e della propria morte. Che le cose stiano in questi termini è confermato dalla disposizione del co. 4 dell’art. 2, il quale contempla la possibilità del ricorso al giudice tutelare nel caso in cui insorga un conflitto tra il rappresentante dell’incapace, che rifiuta le cure proposte, e il medico, che ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie. Il ricorso, proponibile tanto dal rappresentante che rifiuta le cure quanto dal medico o dal rappresentante legale della struttura sanitaria, è deciso dal giudice tutelare. Quanto sia ragionevole che la decisione di un soggetto medicalmente non competente possa prevalere su quella del soggetto specificamente competente costituisce un’aporia ricollegabile alla incongrua tendenza a dilatare il potere dispositivo dei giudici nelle questioni della vita e della morte delle persone.

Il vulnus specifico alla libertà delle persone affidate a un amministratore di sostegno

Un grave vulnus della legge alla libertà delle persone minorate è previsto nel co. 3 dell’art. 2.

Accanto ai soggetti minorenni e alle persone interdette, che sono affidate alla potestà genitoriale o tutoriale, la legge contempla le persone inabilitate o accompagnate da un amministratore c.d. di “sostegno”. Queste categorie ricomprendono una platea molto vasta di persone capaci, ma fragili e vulnerabili. Esse sono in grado di prestare un consenso, ma la loro volontà non è stabile e, spesso, non identificabile con certezza.

Ora, è grave che, mentre nel caso dell’inabilitato il consenso debba essere espresso congiuntamente dalla persona inabilitata e dal curatore, nel caso del soggetto sostenuto dall’amministratore di sostegno il consenso possa essere espresso anche “solo da quest’ultimo”, quando la sua nomina preveda l’assistenza necessaria o la sua rappresentanza esclusiva in ambito sanitario. Tenendo conto dell’estensione abnorme subìta dall’istituto dell’amministratore di sostegno, non si può non intravedere in questa norma il rischio concreto dell’espropriazione del diritto alla libertà e alla vita nei riguardi di un sempre maggior numero di persone. Tramite un provvedimento del giudice, apparentemente di sostegno, costoro si vedono espropriati della libertà di richiedere la protrazione delle cure o la loro non interruzione per volontà di un soggetto che li rappresenta in via esclusiva sul terreno più prezioso che le riguarda, quello della vita.

Le aporie dell’istituto delle “Disposizioni anticipate di trattamento”

L’art. 3 introduce l’istituto detto “Disposizioni anticipate di trattamento”. Una prima grave riserva riguarda il loro carattere vincolante, risultante non soltanto dalla terminologia adottata, ma soprattutto dal co. 5, ove è detto che il medico “è tenuto al loro rispetto”, tranne “qualora sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.

Dichiarazione indica un orientamento; disposizione equivale a un ordine. Questa dicotomia è cruciale per individuare il fine di una qualsiasi normativa che conferisca valore a un atto anticipato del soggetto. Se tale atto è inteso come manifestazione di un desiderio, di una aspirazione, di una preferenza, esso si concilia con il principio di beneficialità all’interno dell’alleanza terapeutica tra il medico e il malato. Io esprimo una preferenza, la cui ragionevolezza dovrà essere vagliata dal medico, alla luce del principio di beneficialità, nel momento in cui sarà per essere assunta una decisione a riguardo della cura e del trattamento. Il medico, allora, si conformerà ai desideri espressi dal dichiarante a meno che essi non contrastino con la concreta possibilità di fornire al paziente, senza un aggravio inutile di sofferenze, un beneficio effettivo per la sua salute. Se, invece, l’atto va inteso (e così vuole la legge) come una disposizione, esso è vincolante per il medico, anche se palesemente assurdo, quando, per esempio, esso rivela una profonda ignoranza in ordine alle occorrenze in cui si può presentare l’esigenza di un trattamento, ovvero un fraitendimento del soggetto circa effetti ricollegabili all’esercizio della medicina e della chirurgia. Inteso in questo modo l’atto va inteso come espressione pura dell’autodeterminazione soggettiva, completamente sganciata da una qualsiasi attenzione giuridicamente rilevante per il bene della persona.

La proposta di legge, purtroppo, contro la legislazione internazionale (Convenzione di Oviedo), che non attribuisce alle dichiarazioni anticipate un carattere vincolante, si schiera per la posizione radicale, in cui è insito il pericolo che il medico sia obbligato a tenere condotte eutanasiche anche in situazioni in cui il trattamento sarebbe perfettamente idoneo ad assicurare un miglioramento delle condizioni di salute.

La contraddittorietà insanabile inerente al principio della vincolatività delle disposizioni anticipate, anche di quelle che contemplano il rifiuto della nutrizione o idratazione c.d. artificiali

L’art. 3, relativo alle disposizioni anticipate, ripete il principio circa l’ammissibilità del rifiuto delle pratiche di nutrizione e idratazione artificiale.

Ciò è particolarmente grave in relazione alla natura dell’atto compiuto dal soggetto, che è anticipato rispetto alla situazione in cui la disposizione sarà per essere efficace. Potrà presentarsi il caso che un soggetto abbia espresso in un determinato momento della sua vita una determinata manifestazione di volontà contra vitam. Ma, come spesso accade nelle cose umane, i suoi orientamenti spesso evolvono, i suoi desideri assumono nuove direzioni, a volte radicalmente diverse da quelle precedenti. Nuove relazioni affettive possono aver reso più forte il suo attaccamento alla vita ed aver accresciuto la sua disponibilità a sopportare la sofferenza della malattia. Egli – è vero – può modificare le disposizioni precedenti. Ma può averle dimenticate nel loro tenore effettivo; può averne equivocato il significato; onde, venendosi a trovare improvvisamente in una situazione in cui gli è difficile, o addirittura impossibile, ritornare in modo lucido a esprimere una volontà contraria a quella espressa in precedenza, resta intrappolato in una dichiarazione di volontà che non corrisponde più alla sua volontà attuale. Ecco che, in tutte queste situazioni, e in numerose altre, che soltanto l’esperienza sarà in grado compiutamente di rivelare, il soggetto si troverà, nel momento in cui il trattamento dovrà essere somministrato, legato a disposizioni date, magari avventatamente o senza adeguata riflessione, in un momento nel quale non si presentava concretamente la situazione nella quale il consenso, o il dissenso debbono avere effetto.

La legge si rivela così intrinsecamente contraria al principio, sbandierato nell’art. 1, del consenso informato. Un consenso, infatti, può essere informato e libero soltanto quando, trovandosi il soggetto in una determinata occorrenza di malattia, gli vengano spiegate le proprie condizioni di salute e gli siano rese comprensibili le diagnosi, le prognosi, i benefici e i rischi dei trattamenti sanitari, le possibili alternative e conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento e della rinuncia al medesimo (cfr. art. 1, co. 3). Una disposizione effettuata anticipatamente, magari anni prima rispetto al momento in cui si pone la necessità del trattamento, non corrisponde a un consenso informato, bensì esclusivamente a un desiderio.

Perciò la legge va contestata anche per la sua intrinseca contraddittorietà, giacché, tramite la vincolatività della disposizione anticipata, travolge non soltanto il principio di beneficialità, ma anche quello del consenso informato, che soltanto fallacemente appare posto a fondamento dell’intera legge.

Il grave difetto consistente nella mancata previsione del diritto all’obiezione di coscienza

Siccome la legge sottoposta all’approvazione del Parlamento è intrinsecamente eutanasica e, in alcuni passaggi essenziali, che si sono specificamente indicati, costringe il medico a tenere condotte dirette a uccidere, è grave che non sia contemplato il diritto del medico e del personale di sostegno infermieristico all’obiezione di coscienza. Si tratta di un diritto fondamentale della persona umana, tutelato dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali sui diritti umani. E’ imprescindibile dovere del legislatore inserire espressamente tale diritto nel corpo della legge, ove essa dovesse permanere invariata all’esito del processo di approvazione legislativa. La coscienza, insieme alla ragione, contraddistingue l’essenza dell’essere umano, come recita il Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”). La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 467 del 1991, ha chiarito in modo incontestabile che “[...] la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico”.

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