Rivista Studium Iuris n. 6/2018

La nuova legge sul consenso informato e sul c.d. biotestamento

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Abstract

Il saggio ha per oggetto le novità introdotte dalla legge n. 219 del 2017. Esso si divide in due parti sistematicamente orientate: la prima riguarda la disciplina in tema di consenso informato, mentre la seconda si focalizza sul c.d. biotestamento. Con particolare riguardo alle «disposizioni anticipate di trattamento» (DAT), viene posta in evidenza la linea di continuità con i precedenti giudiziali della Corte di cassazione che in questa delicata materia, ricca di implicazioni e sfumature etiche, hanno offerto al legislatore una sorta di bussola assiologica.

1. Profili assiologici

La l. 22 dicembre 2017, n. 219, sotto il profilo del suo programma d’azione, può essere scissa in due parti: la prima concerne lo statuto sul consenso informato in materia sanitaria, la seconda è invece dedicata al c.d. biotestamento (o, più correttamente, alle «disposizioni anticipate di trattamento»).

L’autodeterminazione della persona si eleva a motivo conduttore dell’intero provvedimento normativo. Nel cennato quadro illustrativo si assiste – sull’abbrivio del ius vivens – alla rimodulazione dei rapporti tra regole e valori scolpiti nella nostra legge fondamentale, come si desume dall’art. 1, comma 1, legge n. 219 del 2017, tenuto conto della finalità ispiratrice del provvedimento oggetto di queste pagine.

La precitata disposizione non a caso richiama in apicibus – alla stregua di una bussola orientatrice nel mare magnum dei precetti costituzionali su cui si radicano le basi etiche del nostro sistema giuridico – gli artt. 2, 13 e 32 Cost. L’additato richiamo riveste un significato particolare, perché introduce de iure condito un criterio di bilanciamento tra valori e beni della vita (congeniti all’individualità) il quale si basa sull’idea – foriera d’implicazioni etiche – a mente della quale il diritto alla salute (art. 32 Cost.) viene a perdere la sua intangibile assolutezza o primazia, stante la prevalenza dell’interesse riconosciuto ad ogni persona di scegliere cognita causa non solo il trattamento sanitario volontario, ma anche di troncare la cure; com’è facile presagire, il tema acquista un significato particolare nell’eventualità di malattie allo stato terminale.

In sintesi: il prolungamento artificiale della vita non può essere imposto contro la volontà della persona capace d’agire.

In quest’ordine d’idee, la Corte di legittimità (già) nel 2007 riconobbe il potere dell’autorità giudiziaria di autorizzare l’interruzione del trattamento sanitario quando: a) la condizione di stato vegetativo del paziente sia irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità – secondo standard scientifici ampiamente accreditati – di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; b) sia univocamente accertato, facendo perno su elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi – se cosciente – non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento[1].

Non spetta dunque al medico il diritto insindacabile di curare dinanzi al quale sarebbe irrilevante la contraria volontà dell’ammalato, che verrebbe così a trovarsi in una posizione di semplice soggezione[2]. La relazione tra medico e paziente non può basarsi su una relazione gerarchica, dovendo infatti il primo illustrare compiutamente al secondo, con un linguaggio comprensibile, l’utilità delle cure e i rischi connessi. Ne discende che il consenso informato sottenda anche il diritto di rifiutare la terapia e, ove in corso, d’interromperla deliberatamente[3].

2. Consenso informato e onere della prova

«Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» (art. 32, comma 2, Cost.). Dalla disposizione che precede trae fondamento – come si diceva – la garanzia individuale alla completa autodeterminazione nella scelta sul «se» e sul «come» del trattamento sanitario, al di fuori delle ipotesi coperte dalla riserva di legge[4], e dalla scriminante ex artt. 2045 c.c. e 54 c.p.[5].

La libertà di cui gode il paziente compos sui è assoluta: il rifiuto delle cure non è sindacabile e dunque vale a prescindere dalle motivazioni etico-religiose che lo innervano. Torna utile ripetere che in questo scenario la scelta fatta con piena coscienza diventa un’espressione concreta del diritto alla libertà individuale, giacché ogni persona è titolare del diritto indisponibile a decidere di sottoporsi o non sottoporsi agli interventi medici sul corpo umano e alle molteplici tipologie di terapie[6].

Al fine di assicurare effettività alla libertà in parola occorre che il paziente sia stato specificamente informato in merito alla natura dell’intervento o del trattamento suggerito o imposto dalle circostanze, sì da permettergli di maturare la propria volontà in maniera compiuta. Costui è «sovrano» – si rinnovi alla memoria – della potestà di praticare o no il trattamento sanitario, o di seguire una cura piuttosto che un’altra. Per assicurare l’evocata meditazione (in guisa da non svuotare di contenuto la scelta, riducendola a mero esercizio formale) l’interessato deve disporre ex ante di tutti i ragguagli necessari in vista della scelta meditata[7].

La descritta attività cognitiva non deve tuttavia tramutarsi in un’occasione di panico a scapito dell’individuo, il quale già si trova in una condizione di debolezza: ragion per cui il medico può legittimamente omettere di rappresentare i rischi anomali, che fuoriescono dall’id quod plerumque accidit, la cui illustrazione spingerebbe il malato a lasciare le cose come stanno[8].

Ci troviamo al cospetto di una prestazione accessoria a paragone di quella principale contrattualmente dovuta dalla struttura sanitaria (datrice di lavoro dell’ausiliario); tale prestazione – prima dell’entrata in vigore della legge n. 24 del 2017 – rilevava (con riguardo – ben s’intende – al medico-dipendente) sotto il profilo dell’obbligazione protettiva (a favore del paziente-terzo) ancorata alla sua qualifica professionale (c.d. contatto sociale).

È appena il caso di osservare che in ipotesi d’intervento in équipe, ogni specialista dovrà soddisfare il c.d. debito informativo per quel che attiene alle rispettive competenze professionali.

La violazione del dovere esplicativo su cui ci stiamo soffermando legittimerà il paziente a promuovere l’azione di danni a titolo d’inadempimento contro la struttura sanitaria (e, altresì, contro il medico ove questi sia stato scelto dal paziente stesso)[9], sebbene l’intervento sia stato eseguito a regola d’arte (lege artis), qualora la corretta informazione fosse in grado d’influire sulla sua decisione di sottoporsi alla cura o all’intervento[10].

Per di più, si ritiene che in caso di esito negativo dell’intervento, il risarcimento fondato sull’errore nel corso dell’operazione non assorba la pretesa risarcitoria correlata all’inadempimento dell’obbligazione informativa, perché diversi sono i beni della vita protetti: da un lato la salute umana, dall’altro il diritto all’autodeterminazione[11].

L’art. 1, comma 3, legge n. 219 del 2017, riconosce all’interessato il diritto di rinunciare all’informazione, oppure di designare la persona legittimata a riceverle e ad esprimere il consenso in luogo del paziente-incaricante. Viene qui in essere il conferimento al predetto interposto della procura a ricevere le informazioni utili all’elaborazione del consenso ponderato e a esprimere la volizione al trattamento sanitario in sostituzione del rappresentato.

Il consenso de quo, raccolto nei modi e con gli strumenti più adatti tenuto conto delle reali condizioni del paziente, è documento in forma scritta oppure tramite videoregistrazioni o, se la persona è disabile, attraverso «dispositivi» che le consentano di comunicare. Siffatto consenso, a prescindere dai modi con cui è stato perfezionato, deve essere inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico (art. 1, comma 4, legge n. 219 del 2017)[12]. In caso d’incapacità legale il consenso al trattamento sanitario volontario è espresso dal legale rappresentante; questi deve però prendere in considerazione la volontà dell’incapace tenuto conto della sua maturità e capacità di comprensione (art. 3, commi 1, 2 e 3, legge n. 219 del 2017).

L’inabilitato conserva il potere decisionale nella materia ora indagata; tuttavia, se vi è un amministratore di sostegno «la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in àmbito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere» (art. 3, comma 4, legge n. 219 del 2017).

Qui giunti, sorge la domanda su quale parte incomba l’onere di provare l’inadempimento (fatto negativo) o, all’opposto, l’adempimento (fatto positivo) dell’obbligazione in oggetto. Ove si parta dal presupposto secondo cui, a prescindere dalla pretesa fatta valere in giudizio, spetta sempre al debitore dimostrare di aver adempiuto[13], deve senz’altro concludersi che competa alla struttura sanitaria – la quale risponde contrattualmente verso il paziente – l’onere di dimostrare che l’obbligo informativo sia stato soddisfatto[14].

3. Eutanasia passiva e obiezione di coscienza

Si torni a considerare che la persona capace d’agire ha diritto di rifiutare il trattamento sanitario o di interromperlo (revocando il consenso già dato) qualora esso sia già in atto. Come chiarisce l’art. 1, comma 5, legge n. 219 del 2017, sono reputati «trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici».

È stata in tal modo legittimata l’eutanasia passiva, implicante l’accelerazione dell’evento morte quando la patologia ammorbante il paziente sia irreversibile. La morte procurata tramite omissione, secondo la consapevole determinazione del paziente, è quindi stata valutata dall’autorità normativa come moralmente accettabile, a differenza dell’eutanasia attiva nella quale la medesima morte è all’inverso procurata del medico per porre fine alle sofferenze imputabili a una specie di accanimento terapeutico, denudante la dignità dell’uomo allorché venga a trovarsi in uno stato vegetativo permanente[15].

L’art. 2, legge n. 219 del 2017, riconosce al paziente che abbia rifiutato le cure il diritto alla terapia del dolore. L’art. 1, comma 6, secondo periodo, legge n. 219 del 2017, si occupa invece dell’ipotesi inversa rispetto a quella costituente uno dei leitmotiv del testo normativo, rappresentata dall’ostinazione del paziente, nel vano tentativo di aggrapparsi con tutte le sue flebili forze alla vita che si sta inevitabilmente spegnendo, di ottenere trattamenti sanitari inattendibili (ossia rinnegati dalla letteratura scientifica) o sproporzionati e quindi contri alle cc.dd. buone pratiche professionali[16]. Tali richieste non sono meritevoli di essere assecondate.

Poste queste basi, il medico non può violare la volontà del paziente di ricorrere all’eutanasia passiva adducendo le ragioni imposte dalla propria coscienza o credo religioso, postulanti la convinzione secondo cui ogni forma d’interruzione della vita tramite azione o omissione sarebbe moralmente sbagliata.

Vero è che nell’area del «fine vita» non c’è spazio per l’obiezione di coscienza viceversa riconosciuta, in tema di aborto, dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978[17]. L’art. 1, comma 6, legge n. 219 del 2017, a tale riguardo stabilisce expressis verbis che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali». Sicché il medico non può opporsi, adducendo la sacralità della vita umana, al rifiuto di cure invocato scientemente dal malato, il quale ultimo non può essere costretto a seguire le terapie suggerite dalla scienza dominante. La filosofia ispirata al «noli me tangere» – informante di sé la ratio legis – non può essere devitalizzata dalla coscienza del medico, qualora egli orienti il proprio operato all’unico obiettivo rappresentato dalla sopravvivenza dell’essere umano ad astrarre dalla volizione di quest’ultimo.

In definitiva, il paziente compos sui è libero – come si è più volte notato – di decidere il proprio destino essendogli riconosciuti il diritto di autodeterminarsi circa la scelta se sottoporsi o no al trattamento sanitario. Sennonché il medico, in caso di ricovero d’urgenza di una persona che non è cosciente (e che non abbia già validamente espresso le proprie determinazioni in tema di trattamento sanitario)[18], deve comunque prestarle tutta l’assistenza necessaria al fine della guarigione senza doversi preoccupare del suo consenso che non può appunto essere dato o ottenuto[19].

Focalizziamo ora il discorso sulle confessioni religiose che, secondo (dibattute) interpretazioni delle sacre scritture, limitano il ricorso alle terapie mediche; il caso più noto è offerto dalla confessione dei Testimoni di Geova, che rifiuta l’emotrasfusione. Su questo sfondo affiorano due interessi antinomici: da un lato l’interesse al rispetto della fede individuale, dall’altro il dovere etico del medico d’impiegare la propria scienza per salvare la vita donata da Dio. Allo scopo di sormontare la prospettata antitesi occorre distinguere: se il paziente è padrone di sé, ossia è in grado di autodeterminarsi in modo pieno e consapevole, vale allora il primato della scelta individuale non censurabile dal medico. Altrimenti prevale il principio secondo cui il medico stesso non può sentirsi vincolato da un consenso presunto, come potrebbe accadere ove l’appartenenza alla suddetta confessione fosse tratta dal documento personale recante la dicitura «niente sangue». Ciò è tanto più vero là dove si consideri che l’adepto potrebbe improvvisamente mutare le proprie convinzioni qualora fosse compos sui[20].

4. Le disposizioni anticipate di trattamento (c.d. biotestamento)

Veniamo al c.d. biotestamento (ossia, per meglio dire, alle disposizioni anticipate di trattamento o DAT), che costituisce il secondo pilastro – affiancante quello finora indagato – il quale sorregge la nuova disciplina.

Orbene, l’art. 4, comma 1, legge n. 219 del 2017, sul punto così dispone: «ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte[21], può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata “fiduciario”, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie».

Siamo di fronte a dichiarazioni di volontà (anziché a vere e proprie «disposizioni») con le quali la persona maggiorenne e naturalmente capace d’intendere e volere esprime ora per allora le proprie determinazioni, che varranno nel caso in cui si dovesse trovare in una situazione patologica che non le permette di maturare una volizione consapevole.

Le suddette dichiarazioni devono essere documentate per atto pubblico o per scrittura privata autenticata oppure per scrittura privata (esente da oneri fiscali) consegnata personalmente dalla parte presso l’ufficio dello stato civile del Comune di residenza di tale persona (il quale provvede all’annotazione in un registro, ove istituito)[22], oppure presso le strutture sanitarie (qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7, della legge n. 219 del 2017)[23]. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona disabile di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili ad libitum. Là dove ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT tramite le forme su descritte, esse sono suscettibili di caducazione in forza di dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico con l’assistenza di due testimoni (art. 4, comma 6, legge n. 219 del 2017).

Il fiduciario è un mandatario (legato di solito al preponente da vincoli di affetto o amicizia) cui l’autore delle DAT assegna l’incarico di assicurare che tali dichiarazioni siano rispettate ove questi non sia più in grado d’autodeterminarsi a causa della patologia che lo affliggerà[24]. Il suddetto mandato è revocabile ad nutum osservando le medesime forme stabilite per il suo conferimento (art. 4, comma 3, legge n. 219 del 2017). La sopravvenuta rinuncia, morte o incapacità del fiduciario non si ripercuote sull’efficacia delle DAT, giacché la stessa nomina dell’interposto non partecipa della natura di elemento «strutturale» della fattispecie che ci sta occupando; in ogni caso il giudice tutelare può nominare un amministratore di sostegno allorché le circostanze fattuali lo suggeriscano (art. 4, comma 4, legge n. 219 del 2017).

Le DAT debbono tuttavia essere disapplicate quando: a) si rivelino manifestamente incongrue o non rispondenti alla condizione clinica attuale del paziente; b) sussistano terapie non prevedibili all’epoca del loro perfezionamento «capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita».

Ad esempio, se il paziente ha dichiarato di rifiutare le cure in caso di «malattia gravissima», le stesse dovranno essergli somministrate quando la patologia sia suscettibile (dal punto di vista della prognosi) di essere efficacemente debellata, ancorché al fine di raggiungere tale risultato sia necessario applicare protocolli complessi. In situazioni del genere sembra infatti corretto interpretare la volizione del dichiarante delimitandola alle vicende patologiche inarrestabili. Similmente, se il rifiuto formalizzato per iscritto concerne determinate pratiche terapeutiche, il medico dovrà senz’altro intervenire quando per curare la patologia concreta si debbano eseguire cure diverse[25]. L’incongruenza delle DAT può essere scorta quando il preventivo rifiuto del dichiarante sia stato motivato da falsi presupposti o da errori cognitivi[26], ancorché la prevista attività informativa del medico – che non è elemento essenziale delle DAT – dovrebbe evitare l’evocata stortura.

Per giunta, con riguardo alle terapie sopravvenute, il legislatore ha introdotto una specie di causa di estinzione automatica delle DAT, la quali sono quindi soggette di diritto alla clausola «rebus sic stantibus». Tanto più le DAT sono risalenti nel tempo, tanto maggiore è il rischio della loro inattualità, essendo state maturate dal dichiarante in un momento storico ove la scienza era incapace di offrire una cura efficace contro la malattia poi sconfitta dal sopravvenuto progresso. Da qui è possibile ravvisare un’immanente precarietà delle dichiarazioni anticipate di trattamento, dovendo queste essere interpretate tenendo sempre bene a mente le sopravvenienze di cui si diceva, che consentono ai malati di fruire d’innovativi ritrovati farmacologici, elettrofisiologici o biomeccanici atti a contrastare il processo del morire[27].

Per la disapplicazione cui facemmo cenno poco fa occorre l’accordo tra medico e fiduciario: in caso di contrasto deciderà il giudice tutelare ai sensi dell’art. 3, comma 5, legge n. 219 del 2017.

5. Considerazioni dinsieme

Nel complesso la legge in esame merita un giudizio positivo. Consapevoli – secondo l’aforisma volteriano – che «il meglio è nemico del bene» (ossia, chi cerca il meglio rischia di smarrire il buono e l’utile), si fa preferire un provvedimento normativo perfettibile anziché un altro perfetto ma riposto nel mondo delle ipotesi o delle astrazioni effimere.

La legge n. 219 del 2017, che – come notammo – in parte consolida il diritto giudiziale, ha dischiuso le porte del nostro sistema all’eutanasia passiva, introducendo regole generali e astratte, le quali permettono ai consociati di ricorrere alle DAT senza dover necessariamente avvalersi dell’assistenza di avvocati o di altri consulenti.

Invero, il rischio – da contrastare – è che possa prevalere in chiave applicativa una sorta di burocratizzazione, la quale potrebbe minare l’efficienza del nuovo statuto, specie per quanto riguarda il profilo del formalismo documentale.

L’esperienza pratica potrà verosimilmente suggerire talune modifiche alla disciplina ora vigente. Il miglioramento è senz’altro possibile e auspicabile. L’importante è che la sensibilità degli operatori del settore sanitario sia orientata a evitare chicane attuative allo scopo di favorire la determinazione del paziente e la tutela del valore esistenziale rappresentato dalla dignità della persona.

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Note

[1] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, in Pluris.

[2] Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572, in Pluris. Il tema è, tra gli altri, ampiamente indagato da G. Cricenti, Il diritto di morire, in Nuova g. civ. comm. 2007, II, p. 131 ss., e da R. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano 2010, passim, cui rinviamo per tutti i riferimenti casistici e bibliografici.

[3] Cass. pen., sez. IV, 27 novembre 2013, n. 2347, in Pluris.

[4] Cfr. gli artt. 34 e 35, legge n. 833 del 1978.

[5] G. Cattaneo, Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, in R. trim. d. proc. civ. 1957, p. 968.

[6] G. Cattaneo, Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, cit., p. 950.

[7] V., ad esempio, Cass. 29 settembre 2015, n. 19212, in Nuova g. civ. comm. 2016, I, p. 429 ss., con nota di I. Pizzimenti, Responsabilità medica: il consenso dev’essere scritto e completo, ivi, p. 432 ss.

[8] G. Cattaneo, Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, cit., p. 952 e p. 963. Sul fronte del diritto giudiziale si veda, segnatamente, Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, in Giust. civ. 1997, I, p. 1586.

[9] Cfr. l’art. 7, comma 1, legge n. 24 del 2017. Sul tema sia consentito rinviare a R. Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria, in Nuove l. civ. comm. 2017, p. 453 ss.

[10] A. Perulli, Il lavoro autonomo, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 1996, p. 475 s.; contra G. Cattaneo, Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, cit., p. 975. È stato precisato che il paziente deve in ogni caso dimostrare che, se fosse stato adeguatamente informato circa i rischi «prevedibili» dell’intervento, avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvisi: Cass. 2 febbraio 2010, n. 2847, in G. it. 2011, p. 816.

[11] Cass. 13 febbraio 2015, n. 2854, in Pluris; Cass. 16 maggio 2013, n. 11950, ibidem.

[12] Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale designazione di un rappresentante sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

[13] Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in F. it. 2002, I, c. 770.

[14] Cass. 23 maggio 2001, n. 7027, in Danno e resp. 2001, p. 1165 ss., con nota di M. Rossetti, I doveri di informazione del chirurgo estetico, ivi, p. 1168 ss.

[15] Il medesimo comma 5 stabilisce che «qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico».

[16] Cfr., segnatamente, D. Carusi, La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur. 2018, p. 295; P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova g. civ. comm. 2018, p. 250.

[17] Si veda, in particolare, P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., p. 250 s.

[18] In ogni caso, stante l’assenza di una banca data nazionale, è alquanto difficile che il medico, al momento del ricovero in pronto soccorso, sia a conoscenza delle DAT o che le stesse siano state comunicate dal fiduciario al medico medesimo. Cfr. D. Carusi, La leggesul biotestamento”: una luce e molte ombre, cit., p. 295 ss.

[19] L’art. 1, comma 7, legge n. 219 del 2017, stabilisce che in tali situazioni «il medico e i componenti dell’équipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla». Cfr. D. Carusi, La leggesul biotestamento”: una luce e molte ombre, cit., p. 295. Si ricordi che ai sensi dell’art. 1, comma 8, legge n. 219 del 2017, il tempo necessario per la comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura.

[20] Cfr. Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, in Nuova g. civ. comm. 2009, I, p. 170, con nota di G. Cricenti, Il cosiddetto dissenso informato: «nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata. Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto “ideologica”, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una “precomprensione”: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute. E ciò perché, a fronte di un sibillino sintagma «niente sangue» vergato su un cartellino, sul medico curante graverebbe in definitiva il compito (invero insostenibile) di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico ex ante, e di presumere induttivamente la reale “resistenza” delle sue convinzioni religiose a fronte dell’improvviso, repentino, non altrimenti evitabile insorgere di un reale pericolo di vita, scongiurabile soltanto con una trasfusione di sangue». V. anche Cass. 23 febbraio 2007, n. 4211, in F. it. 2007, I, c. 1711.

[21] Si veda il successivo art. 5 che così recita: «nella relazione tra paziente e medico di cui all’art. 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità» (comma 1). «Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia sono adeguatamente informati, ai sensi dell’art. 1, comma 3, in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative» (comma 2). Sul punto si veda P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., p. 248 ss.

[22] Tale «deposito» non è un requisito richiesto sotto pena di nullità.

[23] Esso così stabilisce: «le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili».

[24] Ai sensi dell’art. 4, comma 2, legge n. 219 del 2017, «il fiduciario deve essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere. L’accettazione della nomina da parte del fiduciario avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo, che è allegato alle DAT. Al fiduciario è rilasciata una copia delle DAT. Il fiduciario può rinunciare alla nomina con atto scritto, che è comunicato al disponente».

[25] D. Carusi, La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, cit., p. 297.

[26] D. Carusi, La leggesul biotestamento”: una luce e molte ombre, cit., loc. cit.

[27] Cfr., amplius, V. Verdicchio, Testamento biologico e consenso informato (aspetti delle decisioni di fine vita nel diritto italiano tra jus conditum e jus condendum), in Dir. succ. e fam. 2017, p. 640.