L’art. 2052 c.c. è applicabile ai danni causati dalla fauna selvatica

La responsabilità civile per i danni causati dalla fauna selvatica deve ricadere sull'ente cui è attribuito dalla legge il dovere di tutelare gli animali e, al contempo, prevenire il pericolo per l'incolumità della popolazione. Se fino ad oggi questa materia è stata sempre regolamentata dall’art. 2043 c.c., questa sentenza della Cassazione (20 aprile 2020, n. 7969) segna un completo revirement.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:

Conformi:

Non si rilevano precedenti i termini

Difformi:

Ex multis:

Cass. 16 novembre 2010, n. 23095

Cass. 13 gennaio 2009, n. 467

Cass. 21 febbraio 2011, n. 4202

Corte Cost. 4 gennaio 2001, n. 4

La sentenza in commento è rivoluzionaria. Al di là della questione contingente (accoglimento della domanda risarcitoria a seguito di sinistro causato da un cinghiale) e del rigetto del ricorso proposto dalla Regione, la Cassazione emette una sentenza nomofilattica, che ripercorre tutto l’itergiurisprudenziale in questa materia e decide di dare un netto taglio con il passato, ponendosi in netto e consapevole contrasto con la giurisprudenza dominante ed aprendo, probabilmente, la strada ad un intervento delle Sezioni Unite.

Va premesso che il problema degli incidenti causati dagli animali è più rilevante di quanto si possa credere e le soluzioni cambiano notevolmente, a seconda che si tratti di animale che ha un padrone o di un animale selvatico.

Se si tratta di un animale domestico, con un padrone, il suo proprietario, ai sensi dell'art. 2052 c.c., risponde dei danni da esso causati. Tale norma pone una presunzione di responsabilità in capo al proprietario dell'animale, che è tenuto a fornire la prova liberatoria del caso fortuito.

La questione cambia se si tratta di animali che non hanno padrone. Anzitutto, vengono in rilievo i cani randagi. Il randagismo è un problema molto grave, soprattutto in alcune aree geografiche; in tal caso, la legge-quadro n. 281/91 demanda alle regioni l’adozione di adeguate misure per il controllo del territorio e la tutela degli animali e dei cittadini.

Ma, venendo al tema specifico di questa pronuncia, sono gli animali selvatici che ci interessano.

Storicamente, la fauna selvatica è sempre stata considerata una res nullius, che poteva essere liberamente cacciata da chiunque. Nel nostro ordinameno, questo suo “status” venne formalizzato dal R.D. n. 1016/1939, art. 2, comma 1. In tale situazione, nessuno poteva essere chiamato a rispondere per i danni da essa provocata. Le cose cambiarono con la L. 27 dicembre 1977 n. 968, la quale stabilì (art. 1) che “la fauna selvatica italiana costituisce patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale”. La successiva “legge sulla caccia” n. 157/1992, nel sancire che i danni causati dalla fauna di proprietà dello stato devono essere risarciti dal medesimo, ha precisamente individuato l’Amministrazione responsabile per il risarcimento: le Regioni. La novità non è di poco momento, poichè l'attribuzione di funzioni di controllo, gestione e tutela degli animali selvatici comporta un obbligo positivo di vigilanza degli animali, atto ad evitare che con il loro comportamento arrechino danni a terzi.

Quanto alla natura della responsabilità della PA e del criterio di imputazione utilizzabile nella fattispecie, la giurisprudenza costante della Suprema Corte e la Corte Costituzionale hanno finora statuito che si tratterebbe di responsabilità aquiliana “pura”, da valutare secondo i principi generali dell’art. 2043 c.c. La Cassazione, in numerose sentenze, ha rilevato che l’art. 2052 c.c. è utilizzabile solo per danni provocati da animali domestici o in cattività. Questo sulla base di numerose ragioni; fondamentalmente, per l’assenza in capo al soggetto caricato di tale responsabilità di specifici poteri giuridici e fattuali di uso, governo e controllo dell’animale, capaci di limitare la potenzialità dannosa, e nella stessa ratio dell’art. 2052 c.c., che lo renderebbe inapplicabile al caso in esame. Il 2052 c.c., secondo l'opinione dominante, è stato creato per i casi in cui un animale sfugge al controllo del proprietario e causa danni alle persone, mentre i parchi naturali ed in generale le amministrazioni competenti hanno piuttosto il compito di evitare che siano le persone a causare danni agli animali.

La Corte Costituzionale (sentenza 4 gennaio 2001, n. 4, in Foro it. 2001, I, 377), a sua volta, ha stabilito che l’art. 2052 “è applicabile solo in presenza di danni provocati da animali domestici, mentre per quelli cagionati da animali selvatici si applica invece l'art. 2043 c.c.: infatti, nel caso in cui il danno è arrecato da un animale domestico (o in cattività), è naturale conseguenza che il soggetto nella cui sfera giuridica rientra la disponibilità e la custodia di questo si faccia carico dei pregiudizi subiti da terzi secondo il criterio di imputazione exart. 2052 c.c., laddove i danni prodotti dalla fauna selvatica, e quindi da animali che soddisfano il godimento dell'intera collettività, costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi carico secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della responsabilità civile exart. 2043 c.c.”. : secondo la Consulta, insomma, il danno da fauna selvatica rappresenta un’eclatante eccezione al principio ubi commoda, ibi incommoda, giustificata dal fatto che lo Stato non diventerebbe proprietario degli animali selvatici per utilizzarli o usufruirne in un qualunque modo (e quindi per trarne i commoda), ma unicamente per proteggerli e tutelarli, nell’interesse comune ed a spese della collettività.

Si deve, però, dare atto che la maggior parte della dottrina e della giurisprudenza di merito sono propense ad accettare l'applicazione dell’art. 2052 c.c., perché lo Stato, in quanto proprietario della fauna, deve rispondere dei danni da essa provocati, in base al già esaminato principio ubi commoda, ibi incommoda ed anche all'interpretazione letterale dell’art. 2052, che non stabilisce alcuna distinzione e la cui mancata applicazione, anzi, viene da tempo considerata una sorta di ingiustificato privilegio per la pubblica amministrazione.

Veniamo a questo punto alla sentenza in commento, che ripercorre tutto il percorso sopra indicato, ma arriva a conclusioni decisamente innovative, quanto meno a livello di legittimità.

La Corte parte dalla “questione di fondo”: la scelta iniziale del criterio di imputazione della responsabilità, operata sul presupposto della impossibilità di estendere alla fauna selvatica il regime previsto dall'art. 2052 c.c., fondata sull'assunto secondo cui la norma riguarderebbe esclusivamente agli animali domestici e non quelli selvatici.

Tuttavia, il Collegio constata che tale assunto non ha alcun fondamento. Anzitutto, l’art. 2052 c.c. non contiene alcuna espressa limitazione agli animali domestici. In secondo luogo, perché la norma, contrariamente all’art. 2051 c.c., non presuppone la sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell'animale da parte dell'uomo, sicché, diversamente dal 2051, il criterio di imputazione della responsabilità è fondato non sulla "custodia", ma) sulla stessa proprietà dell'animale. Ne consegue che il diritto di proprietà sancito, in relazione ad alcune specie di animali selvatici dalla L. n. 157 del 1992, in capo allo Stato (quale suo patrimonio indisponibile) è idoneo a determinare l'applicabilità del regime oggettivo di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., a pena di un ingiustificato privilegio riservato alla pubblica amministrazione. Sembrano affermazioni addirittura ovvie, ma sovvertono quarant’anni di giurisprudenza. Basterebbe questa affermazione per rendere a suo modo “storica” questa sentenza, che, non a caso, richiama un altro famoso “privilegio”, l’applicazione dell’art. 2051 c.c. ai beni demaniali, “fattispecie astratta quest'ultima che presenta innegabili profili di analogia con quella di cui all'art. 2052 c.c.”, ricordando come anche in quel caso ad un “iniziale orientamento” (durato qualche decennio) che negava l'applicabilità alla pubblica amministrazione della disciplina generale civilistica, nei medesimi termini normativi previsti per i soggetti privati, in guisa di una sorta di privilegio soggettivo, ha fatto seguito il superamento del privilegio e l'applicazione alla pubblica amministrazione del regime legislativo "comune", salvi gli adattamenti del caso.

La Corte ritiene che lo stesso percorso vada fatto anche per la responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici rientranti nelle specie protette, di proprietà pubblica. Poiché tale proprietà è, obiettivamente, peculiare, in quanto funzionale alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, mediante l'attribuzione alle Regioni di specifiche competenze normative e amministrative, nonchè di indirizzo, coordinamento e controllo sugli enti minori titolari di più circoscritte funzioni amministrative, si determinerebbe, secondo la Cassazione, una situazione che è equiparabile (nell'ambito del diritto pubblico) a quella della "utilizzazione" degli animali, ai fini dell'art. 2052 c.c.: "utilizzazione" in senso pubblicistico, finalizzata al trarne una utilità collettiva pubblica per l'ambiente e l'ecosistema.

Posto che, in base alla legge sulla caccia, sono le Regioni gli enti che "utilizzano" il patrimonio faunistico protetto, saranno costoro il soggetto a cui indiirizzare le richieste risarcitorie.

Quanto all’onere probatorio, spiega la Cassazione, il danneggiato deve allegare e dimostrare che il danno è stato causato dall'animale selvatico, e quindi, dimostrare la dinamica del sinistro nonchè il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito, oltre che l'appartenenza dell'animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992 e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato. Qui viene richiamata l’ampia giurisprudenza sul punto, che non viene in alcun modo “rinnegata”. La novità, non da poco, è che l’onere probatorio del danneggiato si conclude qui: non dovendosi applicare l’art. 2043, non vi è bisogno di allegare e dimostrare alcun elemento soggettivo.

Per quanto riguarda la prova liberatoria a carico della Regione, l'art. 2052 c.c. prevede la prova del "caso fortuito", che si sostanzia nel dimostrare “che la condotta dell'animale si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno, e come tale sia stata dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell'evento lesivo, cioè che si sia trattato di una condotta che non era ragionevolmente prevedibile e/o che comunque non era evitabile, anche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna (e di connessa protezione e tutela dell'incolumità dei privati), concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto, purchè, peraltro, sempre compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema cui la stessa tutela della fauna è diretta” .

L’argomento è scivoloso e delicato; prudentemente la Corte richiama i precedenti in materia, ma, oggettivamente, su questo punto di certezze non ve ne sono, posto che ragionare in termini di “prevedibilità” riguardo alla condotta di animali selvatici pare non solo difficoltoso e più prossimo all’etologia che al diritto, ma anche errato, posto che si adombra una prova liberatoria che pare più vicina alla mancanza di colpa, ossia di un elemento che la norma non prevede, che non alla mancanza di nesso causale.

Probabilmente il lavoro da fare in questa materia riguarderà, piuttosto, la concreta “esigibilità” da parte delle Regioni, nel caso concreto, dell’approntamento di misure contenitive adeguate, per far fronte ai possibili problemi causati dalle bestie selvatiche, e l’adeguatezza delle medesime.

L’ultimo problema che affronta la Corte è il rapporto tra le Regioni e gli enti titolari di funzioni (proprie o delegate) di gestione e tutela della fauna selvatica. Last but not least, potremmo dire, perché l’analisi critica del modello di responsabilità eseguito da questa sentenza prende spunto proprio dalle incertezze nell’individuazione del legittimato passivo.

Il problema che spesso si pone in questa materia, infatti, è che la regione delega le sue funzioni ad altri enti (province, enti parco ecc.), cui è demandata l'adozione concreta delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna e di cautela per i terzi. Tuttavia, secondo la Cassazione, ciò non modifica il criterio di individuazione del cd. legittimato passivo, che resta in ogni caso la Regione, quale ente cui spettano, in base alla Costituzione ed alle leggi statali, le competenze normative, le principali competenze e funzioni.

Anche questa è un’affermazione “pesante”, che spazza via molti anni di giurisprudenza di legittimità e dà un grande vantaggio al danneggiato, che sa fin dal principio che sia il suo interlocutore. Rimane ferma la possibilità per la Regione di rivalersi nei confronti dell’ente delegato che si sia reso inadempiente ai propri compiti; ma questo senza alcun detrimento per il danneggiato, che potrà indirizzare le proprie richieste, “a colpo sicuro”, verso la Regione.

Questa breve analisi fa capire che ci troviamo di fronte ad una sentenza molto importante, che, come fecero le sentenze del 2003 in relazione alla responsabilità della PA proprietaria della strada, consapevolmente “rompe” con il passato e sancisce almeno due novità epocali: l’applicazione del 2052 alla fauna selvatica e l’individuazione della Regione quale unico legittimato passivo. Bisognerà ora vedere se la Corte seguirà questo nuovo indirizzo o se resterà fedele alla giurisprudenza consolidata.

Esito del ricorso:

Rigetto del ricorso

Riferimenti normativi:

Art. 2052 c.c.

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