Lavoro e previdenza sociale

Licenziamento: sì agli investigatori privati se necessari per accertare illeciti penali

Il Tribunale di Padova, con la pronuncia in commento, ritiene legittimo il licenziamento intimato nei confronti di un lavoratore che, in diversioni occasioni, ha attestato falsamente la sua presenza in servizio. Il ricorso a un’agenzia investigativa per accertare gli illeciti penali non costituisce una condotta violativa degli artt. 3 e 4 St. Lav. né della normativa in materia di privacy. (Trib. Padova, Sez. Lavoro, 4 ottobre 2019).

La pronuncia riguarda il licenziamento disciplinare intimato da una società ad un proprio dipendente, in quanto quest’ultimo, in svariate occasioni, durante l’orario di lavoro, si è occupato di questioni personali, attestando falsamente di essere regolarmente in servizio. In dettaglio, nel corso di quattordici giorni di lavoro, pari a 112 ore, il lavoratore si sarebbe occupato di questioni personali per ben 20 ore, pari al 17,86% del tempo complessivo.

Con ordinanza emessa in data 4 ottobre 2019, all’esito della fase sommaria del cd. rito Fornero, il Tribunale di Padova ha rigettato il ricorso con cui il dipendente aveva domandato che il licenziamento intimatogli venisse dichiarato illegittimo.

In particolare, il ricorrente ha contestato il fatto che il datore di lavoro, per accertare la sussistenza di fatti disciplinarmente rilevanti, avesse utilizzato il personale di un’agenzia investigativa privata.

Il Tribunale, preliminarmente, ha evidenziato, come il ricorso agli investigatori privati non integri una condotta vietata dall’art. 4 Stat. Lav. La norma, infatti, fa riferimento agli “impianti audiovisivi” o, comunque, ad altri strumenti di cui è, in ogni caso, necessaria l’installazione.

La norma sulla cui violazione è necessario interrogarsi è, invece, l’art. 3 St. Lav che stabilisce che "i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati". Nominativi che, nel caso di specie, non sono stati comunicati al dipendente per evitare che l’attività investigativa perdesse di utilità pratica. Il Tribunale ha condiviso gli orientamenti giurisprudenziali in materia (Cass. Civ. 2 maggio 2017 n. 10636, Cass. Civ. 27 maggio 2015 n. 10955), evidenziando come, al fine di comprendere se la norma in questione sia stata violata, sia necessario valutare lo scopo per cui è stato esercitato il controllo. In particolare, ove il datore di lavoro avesse assunto investigatori privati per verificare la sussistenza di comportamenti illeciti (es. violazione del patto di non concorrenza) o, a fortiori, illeciti penali – cd. controlli difensivi - non sarebbe stato necessario comunicare ai lavoratori i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa. In questi casi, stante la gravità delle condotte che potrebbero essere accertate, l’interesse del datore di lavoro all’accertamento dei fatti prevale sugli interessi dei lavoratori. Diversamente, nel caso in cui il controllo fosse stato diretto alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e, nello specifico, ad assicurarsi che il lavoratore adempiesse correttamente agli obblighi contrattuali, il datore di lavoro avrebbe dovuto soddisfare l’onere di cui all’art. 3 St. Lav. Dunque, il giudice, applicando i principi indicati al caso in esame, ha evidenziato, nonostante l’autonomia tra le giurisdizioni, come la falsa attestazione in servizio, contestata al dipendente potrebbe integrare un illecito penale e, in particolare, il reato di truffa. Il ricorrente, infatti, attestando falsamente la propria presenza in servizio ha determinato per sé un ingiusto profitto, cagionando al datore di lavoro un danno. Quest’ultimo, invero, ha corrisposto al dipendente la retribuzione nonostante lo stesso non abbia posto in essere la prestazione lavorativa. Pertanto, secondo il giudice padovano, nel caso in esame, in capo al datore di lavoro non vi era un onere di informare il lavoratore sui nominativi del personale investigativo ingaggiato per controllarlo. Parimenti, non costituisce, secondo il giudice padovano, violazione dello Statuto dei Lavoratori neanche l’utilizzo dello strumento fotografico da parte degli investigatori privati. Invero, come accennato, la norma fa riferimento a strumenti di controllo che siano stati “installati” dal datore di lavoro e tale non è lo strumento fotografico. Con l’uso della macchina fotografica, infatti, a differenza, ad esempio, di una microcamera installata in azienda non è possibile effettuare un monitoraggio costante e continuativo sulla prestazione lavorativa.

Accertato che non vi siano state violazioni dello Statuto dei Lavoratori, il giudice padovano si è chiesto, infine, se la condotta del datore di lavoro sia stata conforme alla normativa in materia di privacy e, in particolare, all’art. 8 CEDU. Nello specifico, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 2, CEDU è possibile limitare il diritto alla privacy dei cittadini, tra l’altro, nel caso in cui la restrizione sia “prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la […] protezione dei diritti e delle libertà altrui.” Preliminarmente, il giudice ha rilevato come, il termine “legge” nelle norme CEDU non deve essere letto in modo restrittivo: considerando l’applicabilità della CEDU anche agli stati di common law, si ritiene che si possa parlare di “legge” non solo in presenza di una norma giuridica in senso stretto, ma anche nel caso di orientamenti giurisprudenziali consolidati. Ha rilevato il giudice che è poi necessario indagare sulla sussistenza di un diritto altrui che giustifichi la limitazione del diritto alla privacy. Orbene, nel caso di specie, deve essere data importanza all’esigenza del datore di lavoro di accertare la commissione di condotte fraudolente: invero, il ricorrente utilizzando l’orario di lavoro per svolgere attività personali, ha cagionato un danno economico al datore di lavoro e un pregiudizio al regolare svolgimento dell’attività aziendale. Questi interessi della parte datoriale devono essere tutelati e, in presenza, come nel caso in esame, di un grave inadempimento del lavoratore giustificano la restrizione al suo diritto alla privacy. A giustificazione di tale assunto, va, altresì, rilevato come il datore di lavoro non si è rivolto agli investigatori privati per controllare in modo indiscriminato le condotte dei dipendenti, ma lo ha fatto per verificare la sussistenza di illeciti penali e a fronte di svariati indizi che facevano propendere per la commissione di un reato da parte del lavoratore. Risulta, peraltro, rispettato anche il principio di proporzione: il datore di lavoro ha utilizzato il mezzo meno invasivo possibile per l’accertamento dei fatti. Il lavoratore, infatti, operava presso un ufficio distaccato rispetto alla sede aziendale, ove non era presente alcun superiore gerarchico che potesse verificare le sue condotte: il datore di lavoro, non aveva, quindi, alternative. Sul punto, a parere di chi scrive, si potrebbe sostenere che l’azienda, anziché rivolgersi a un’agenzia investigativa, avrebbe potuto verificare la presenza del dipendente in servizio esercitando il potere di controllo a mezzo di un superiore gerarchico. Tuttavia, trasferendo un altro dipendente nell’ufficio del ricorrente, per le opportune verifiche, il datore di lavoro avrebbe patito un ulteriore pregiudizio al regolare svolgimento dell’attività aziendale. Peraltro, è ragionevole ritenere che il ricorso al controllo da parte di un superiore non sarebbe stato nemmeno uno strumento idoneo allo scopo: il dipendente, in presenza di un superiore, verosimilmente non avrebbe tenuto le condotte illecite. Inoltre, il giudice padovano si è chiesto, per completezza, se il datore di lavoro avrebbe dovuto informare il lavoratore del compimento di indagini per mezzo di agenzia investigativa, in conformità alla normativa sulla privacy, come indicato dall’art. 4, comma 3, l. 300/1970. Come evidenziato, però, per le ragioni anzidette, il caso di specie non è riconducibile a quelli per i quali è applicabile l’art. 4 St. Lav. e il comma 3 della norma in questione non è applicabile analogicamente ad altri casi. Dunque, considerando che le condotte disciplinarmente rilevanti sono state adeguatamente provate e, comunque, non sono state contestate, che i mezzi utilizzati per accertarli sono stati proporzionati al fine da perseguire e che la sanzione risulta parimenti proporzionata rispetto alla gravità dei fatti, il giudice padovano ha ritenuto legittimo il licenziamento impugnato. La decisione, in linea con gli orientamenti giurisprudenziali in materia, è da ritenersi condivisibile.

Riferimenti normativi:

artt. 3 e 4 St. Lav.

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