Penale

Oltre ogni ragionevole dubbio: il principio si applica diversamente in sede di merito e di legittimità

Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado all’imputato per il reato di rapina aggravata dall'uso delle armi, la Corte di Cassazione (sentenza 16 giugno 2020, n. 18313) – nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui era stata violata la regola di valutazione dell’”oltre ogni ragionevole dubbio" dato che non emergeva il confronto con le prove contrarie e segnatamente, con i passaggi incerti della testimonianza dell'offeso, con l'esito dell'esame "stub" e con le testimonianze dei vicini di casa – ha diversamente ribadito il principio che la "regola b.a.r.d." (acronimo anglosassone: "beyond any reasonable doubt") in sede di legittimità rileva solo se la sua violazione "precipita" in una illogicità manifesta e decisiva del tessuto motivazionale, l'unico ad essere sottoposto al vaglio di un organo giurisdizionale che non ha alcun potere di valutazione autonoma delle fonti di prova, laddove, invece, la nuova o diversa valutazione delle prove può essere invocata nei gradi di merito, quando il rispetto del criterio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" non incontra il limite funzionale che caratterizza il giudizio di cassazione.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. pen. sez. II, n. 28957 del 9/06/2017

Difformi

Non si rinvengono precedenti

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che l’art. 533, c.p.p., sotto la rubrica «Condanna dell'imputato», prevede al co. 1 che il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza.

L'art. 5, L. 20/2/2006 n. 46 ha modificato il comma 1 dell'articolo, introducendo il principio della colpevolezza dell'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio". Si tratta di un vero e proprio parametro giustificativo della sentenza cui il giudice deve attenersi ogniqualvolta ritenga di condannare l'imputato. In realtà tale criterio epistemologico della sentenza era già stato elaborato, in nuce, dalla giurisprudenza: basti citare, tra le tante pronunce di legittimità ma anche di merito, la notissima sentenza Franzese (Cass. pen. sez. S.U., 10/7/2002, n. 30328, in CP, 2002, 3643) per cui il ragionevole dubbio è l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale (primaria fenomenologia del dubbio ragionevole) in base all'evidenza disponibile, che comporta la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio. In particolare, il dubbio ragionevole poteva essere concepito come una rappresentazione mentale del giudice fondata non su supposizioni meramente soggettive, bensì su obbiettivi o logici fattori processuali, ai quali si addiveniva attraverso la sussistenza di elementi di prova od indizi storicamente certi, versati nel processo che consentissero plurime o comunque non univoche interpretazioni, oppure allorquando ci fossero elementi di prova a favore o contro l'imputato, in modo che nessuno dei due tipi riuscisse a sopravanzare, né ad elidere quello avverso (Cass. pen. sez. I, 12/5/2004, G., in ANPP, 2005, 406). Oltre alle pronunce giurisprudenziali ante 2006, è necessario precisare che il ragionevole dubbio, in via embrionale, in effetti trovava già degli indiretti riferimenti normativi, quali ad esempio l'art. 27 Cost. e l'art. 6 CEDU che sanciscono la presunzione di non colpevolezza: la permanenza di un dubbio ragionevole in ordine alla responsabilità dell'imputato non consentirebbe, infatti, di superare la presunzione di innocenza, concepito dunque, come equipollente del tradizionale principio in dubio pro reo. La giurisprudenza successiva alla novella legislativa del 2006 ha chiarito l'ambito di applicabilità del nuovo principio ma, soprattutto, la sua valenza determinante nel momento decisionale nella misura in cui nel procedimento penale inevitabilmente si rappresentano, ed anzi, si devono rappresentare prospettazioni di alternative ricostruzioni di fatti. In tali casi devono essere individuati gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Cass. pen. sez. III, 22/1/2014, Bastianini, in Gdir, 2014, 24, 80; Cass. pen. sez. IV, 17/6/2011, n. 30862, in Mass. Uff., 250903; Cass. pen. sez. IV, 12/11/2009, n. 48320, in Mass. Uff., 245879). È chiaro che il giudice deve orientarsi verso la condanna solo quando l'istruttoria abbia prodotto un corpo probatorio che si posiziona al di sopra del b.a.r.d. lasciando fuori solo delle eventualità remote pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (in tal senso Cass. pen. sez. I, 21/4/2010, n. 19933 in DPP, 2011, 203; Cass. pen. sez. I, 3/3/2010, n. 17921 in Mass. Uff., 247449; Cass. pen. sez. I, 8/5/2009, n. 23813 in Mass. Uff., 243801). La regola di giudizio secondo cui per la condanna è necessario che la colpevolezza risulti "al di là di ogni ragionevole dubbio" non impedisce però che la condanna sia pronunciata in appello con riforma di una sentenza di assoluzione di primo grado (Cass. pen. sez. III, 12/2/2009, n. 15911, in Mass. Uff., 243258; Cass. pen. sez. II, 2/4/2008, n. 16357 in Mass. Uff., 239795; Cass. pen. sez. I, 28/6/2006, n. 30402, in Mass. Uff., 234374; Cass. pen. sez. I, 11/5/2006, n. 20371 in Mass. Uff., 234111). La Suprema Corte ha, peraltro, insistito sul carattere meramente descrittivo e non sostanziale del principio del ragionevole dubbio (Cass. pen. sez. IV, 8/7/2010, n. 36343, in DPP, 2010, 1427) in considerazione della pregressa esistenza dello speculare art. 530, 2° co.: l'art. 533, 1° co. infatti, stabilisce lo standard probatorio "al di sopra" del quale si configura una condanna; l'art. 530, 2° co., invece, stabilisce lo standard probatorio "al di sotto" del quale si configura un'assoluzione (Iacoviello, Lo standard probatorio al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in Cassazione, in CP, 2006, 3857).

Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello aveva confermato la condanna dell’imputato per il reato di rapina aggravata dall'uso delle armi. Si contestava al medesimo di avere aggredito la vittima sparandogli alcuni colpi di arma da fuoco nelle gambe, di avergli legato mani e gambe per immobilizzarlo e di essersi impossessato della somma di euro 100 e di un portamonete di proprietà della vittima. Ricorrendo in Cassazione, l’imputato sosteneva, per quanto qui di interesse, che era stata violata la regola di valutazione de "l'aldilà di ogni ragionevole dubbio" dato che non emergeva il confronto con le prove contrarie e segnatamente, con i passaggi incerti della testimonianza dell'offeso, con l'esito dell'esame "stub" e con le testimonianze dei vicini di casa.

La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha riaffermato il principio di cui sopra, in particolare rilevando che dopo l'importazione della formula del b.a.r.d. nel tessuto codicistico italiano la dottrina prevalente ha collegato il criterio alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell'art. 27, co.2, Cost., trovando autorevole conferma nella giurisprudenza delle Sezioni unite (Cass. pen. sez. U, n. 18620 del 14/04/2017, Patalano, CED Cass. 269786; Cass. pen. sez. U, n. 14800 del 3/04/2018, P.G. in proc. Troise, CED Cass. 272430). La dottrina ha ritenuto altresì che il criterio valutativo in questione segni il superamento del principio del principio del "libero convincimento del giudice" e, quindi, della necessità che la condanna sia fondata sulla valorizzazione delle prove assunte in contraddittorio le quali, per rispettare il canone valutativo, devono avere un capacità dimostrativa sufficiente a neutralizzare la valenza antagonista delle tesi alternative. Condividendo tale apprezzabile tentativo di positivizzazione della formula b.a.r.d., la S.C. ha ritenuto che il criterio in questione non possa tradursi nella valorizzazione di uno "stato psicologico" del giudicante, invero soggettivo ed imperscrutabile, ma sia indicativo della necessità che il giudice effettui un serrato confronto con gli elementi emersi nel corso della progressione processuale e, nei casi in cui decida su un'impugnazione a struttura devolutiva, anche con gli argomenti di critica proposti dall'appellante oltre che con le ragioni poste a sostegno della prima decisione. Tanto chiarito, la Cassazione rileva che il mancato rispetto di tale regola di valutazione (come anche di quella indicata nell'art. 192, c.p.p.) non può essere tradotto nella invocazione di una diversa valutazione delle fonti di prova, ovvero di un'attività di valutazione del merito della responsabilità esclusa dal perimetro della giurisdizione di legittimità. La violazione di tale regola può invece essere invocata solo ove precipiti in una illogicità manifesta e decisiva del tessuto motivazionale, dato che oggetto del giudizio di cassazione non è la valutazione (di merito) delle prove, ma la tenuta logica della sentenza di condanna. Non ogni "dubbio" sulla ricostruzione probatoria fatta propria dalla Corte di merito si traduce infatti in una "illogicità manifesta", essendo necessario che sia rilevato un vizio che incrini, in modo severo, la tenuta della motivazione, evidenziando una frattura logica non solo "manifesta", ma anche "decisiva", in quanto essenziale per la tenuta del ragionamento giustificativo della condanna. Si ritiene cioè che il parametro di valutazione indicato nell'art. 533, c.p.p., che richiede che la condanna sia pronunciata se è fugato ogni "dubbio ragionevole" opera in modo diverso nella fase di merito e in quella di legittimità: solo innanzi alla giurisdizione di merito tale parametro può essere invocato per ottenere una valutazione alternativa delle prove sulla base delle allegazioni difensive; diversamente in sede di legittimità tale regola rileva solo nella misura in cui la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità del tessuto motivazionale. Infatti, può essere sottoposta al giudizio di cassazione solo la tenuta logica della motivazione, ma non la capacità dimostrativa delle prove, ove le stesse siano state legittimamente assunte. L'apprezzamento della capacità dimostrativa delle singole prove, come anche dei complessi indiziari è attività tipica ed esclusiva della giurisdizione di merito e non può essere in alcun modo devoluta alla giurisdizione di legittimità se non nei limitati casi in cui si deduca, e si alleghi, un travisamento. Diversamente, in sede di legittimità la violazione delle regole di valutazione delle prove e, segnatamente, del criterio indicato dall'art. 533, c.p.p., è invocabile solo quando precipiti in una illogicità manifesta del percorso argomentativo. Nel caso in esame la violazione della regola di valutazione si risolveva, per la Cassazione, in una generica contestazione della omessa valutazione delle tesi antagoniste proposte dalla difesa che, invero non trovava riscontro nel corpo motivazionale offerto dalle due sentenze conformi di merito che, contrariamente a quanto dedotto prendevano in esame gli argomenti difensivi, superandoli con motivazione esente da vizi logici.

Da qui, dunque, il rigetto del ricorso sul punto.

Riferimenti normativi:

Art. 533 c.p.p.

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