Le sorti del contratto concluso dal falsus procurator
Il negozio concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa a formazione successiva la quale si perfeziona con la ratifica del dominus e, come negozio in itinere o in stato di pendenza, non è nullo e neppure annullabile, bensì inefficace nei confronti del dominus sino alla ratifica di questi. É quanto si legge nella sentenza del Tribunale di Napoli del 10 giugno 2022, n. 5827.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI | |
Conformi | |
Difformi | Non si rinvengono precedenti in termini |
Il fatto
Il Tribunale di Napoli, adito in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, affronta nella sua decisione qui in esame (tra gli altri) il tema della natura giuridica del contratto concluso dal cd. “falsus procurator”.
La decisione del Tribunale di Napoli
È bene muovere dai seguenti punti fermi cui è pervenuta, nel tempo, la giurisprudenza:
- l'art. 1398 c.c. contempla la figura del falsus procurator, cioè di colui che contratta come rappresentante senza averne i poteri o eccedendone i limiti; - in tal caso il contratto è inefficace ed il falso rappresentante è responsabile del danno; - ove, tuttavia, vi sia un comportamento colpevole del falso rappresentato che abbia ingenerato un affidamento incolpevole nel terzo contraente il contratto concluso dal falso rappresentante esplica i suoi effetti nei confronti dei terzi; - i presupposti del dispiegamento di effetti dell'apparenza, con conseguente piena tutela dell'affidamento del terzo e mantenimento dell'efficacia del contratto sono dunque la buona fede del terzo e il comportamento colposo del rappresentato (Cass. civ. sez. III, 12 gennaio 2006, n. 408; Cass. civ. sez. III, 28 agosto 2007, n. 18191; Trib. Milano sez. XIII, 4 luglio 2014, n. 8937). |
La disciplina del cd. falsus procurator si informa al principio di diritto per il quale il contratto concluso dal falso rappresentante con un terzo può essere ratificato dal falso rappresentato «con l’osservanza delle forme prescritte per la conclusione di esso» (art. 1399 c.c.) e con efficacia ex tunc.
Condizione necessaria affinché possa intervenire la ratifica è che il suddetto contratto sia perfettamente valido, ossia non manchi di alcuno degli elementi essenziali previsti dalla legge.
La giurisprudenza maggioritaria afferma che lo pseudo-rappresentato che abbia beneficiato del contratto concluso in suo nome e per suo conto dal falso rappresentante implicitamente ratifichi tale contratto.
La Cassazione, in particolare, ha statuito che «nell’ipotesi della rappresentanza senza potere la ratifica dell’attività svolta dal “falsus procurator” non si realizza con la semplice conoscenza che di essa abbia avuto il “dominus”, ma esige che tale soggetto ponga in essere una manifestazione di volontà, che deve essere portata a conoscenza dell’altro contraente, diretta ad approvare il contratto concluso senza potere rappresentativo e a farne propri, con efficacia retroattiva, gli effetti» (Cass. civ. sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2153; Cass. civ. sez. II, 11 ottobre 1991, n. 10709).
Con la precisazione che la ratifica, per essere idonea al suo scopo, non deve essere necessariamente contenuta in una dichiarazione rivolta, in via immediata e diretta, al terzo contraente, «essendo sufficiente, a tal fine, che essa venga portata a conoscenza di quel terzo» (Cass. civ., sez. II, 17 dicembre 2021, n. 40575).
Sotto altro profilo, l'insegnamento della giurisprudenza è consolidato nel senso di poter configurare la ratifica della P.A. in relazione ad atti compiuti nel difetto delle autorizzazioni prescritte dall'ordinamento.
E cioè a dire, la disciplina del negozio concluso da un rappresentante senza poteri si applica anche alla rappresentanza organica degli enti pubblici, poichè l'organo competente ad esprimere la volontà dell'ente può procedere alla ratifica del contratto sottoscritto dal falsus procurator, per la quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di un contratto della P.A. (Cass. civ. sez. II, 15 febbraio 2022, n. 4937).
A questo punto è opportuno ritornare sul cennato principio di “apparenza” che si inserisce in quello più generale della tutela del legittimo affidamento.
Il problema della tutela dell’affidamento può porsi, in primo luogo, in relazione alla legittimazione apparente ad alienare, a ricevere il pagamento e a vincolare altre persone.
L’apparenza tutela gli scambi commerciali ed il traffico giuridico, liberando gli operatori dalla necessità di effettuare di volta in volta lunghi e costosi accertamenti circa la legittimazione, riducendo altresì i costi transattivi.
L’apparenza è caratterizzata da un elemento di carattere oggettivo, consistente in una significativa divergenza tra la situazione di fatto e quella di diritto, e da uno di natura soggettiva, ossia la colpa del soggetto che ha determinato l’apparenza (Cass. civ. sez. II, 12 maggio 2016, n. 9765).
Tuttavia, su quest’ultimo punto la dottrina ha sollevato delle riserve: oramai da tempo si è venuto delineando un sistema di responsabilità cd. oggettiva, collegata soprattutto all’esercizio dell’attività di impresa.
Lo stesso Legislatore, infatti, nel disciplinare le due principali figure di apparenza previste dal codice civile (erede apparente e creditore apparente) non fa alcun cenno al requisito della colpa.
La Suprema Corte, da parte sua, ha chiarito che se è pur vero che l’art. 1393 c.c. prevede che il terzo chieda al rappresentante di giustificare i suoi poteri, è altrettanto vero che dal tenore letterale della disposizione si evince pacificamente che si tratta di una facoltà e non di un onere.
La norma sancisce una regola di carattere generale ed esclude che il terzo sia tenuto a controllare i poteri di rappresentanza di colui che tale si qualifichi, senza che il mancato esercizio di tale facoltà possa, di per sé solo, risolversi in suo pregiudizio (Cass. civ. sez. II, 5 aprile 2017, n. 8850; Cass. civ. sez. II, 13 agosto 2004, n. 15743).
Al contempo altra giurisprudenza ha più volte ribadito che in presenza di un sistema di pubblicità legale l’apparenza non può trovare spazio.
Tuttavia - ancora altra giurisprudenza e parte della dottrina - hanno evidenziato che nell’ambito delle società commerciali entra in gioco un’esigenza la quale esclude che la previsione di un sistema di pubblicità implichi necessariamente un’incompatibilità con il principio di apparenza.
Il Legislatore, in particolare, agli artt. 2384, comma 2, e 2475 bis, comma 2, c.c. ha sancito che «le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società».
Sul tema si è pronunciata, appunto, la Corte di Cassazione che nella sentenza n. 15743/2004 ha ribadito che l’art. 1393 c.c. pone in capo al terzo una facoltà e non un onere e che l’ordinaria diligenza esige che il terzo chieda al falso rappresentante di giustificare i propri poteri soltanto laddove abbia un dubbio o un sospetto.
Spetta al giudice di merito accertare se, in relazione ad obiettive circostanze del caso concreto, il comportamento tenuto dal falso rappresentante sia stato tale da ingenerare nel terzo il ragionevole convincimento sulla corrispondenza della situazione reale a quella apparente: il terzo – che non abbia motivo di dubitare secondo l’ordinaria diligenza, dell’effettivo conferimento al rappresentante dei relativi poteri – non può comunque essere ritenuto in colpa soltanto perché non ha controllato l’esistenza dei poteri di rappresentanza mediante l’esame dei pubblici registri.
Non è tutto. Nell’ambito del principio di apparenza, rileva altresì la tolleranza. Invero, sia in dottrina che in giurisprudenza, si accosta alla figura della “rappresentanza apparente” quella della cd. “rappresentanza tollerata” (Cass. civ. sez. II, 9 giugno 2000, n. 7886; Cass. civ. 17 ottobre 1978, n. 4645), riscontrabile quando il rappresentato, pur essendo a conoscenza che il falso rappresentante agisce in nome di esso rappresentato, non interviene per far cessare tale ingerenza.
Questa fattispecie può sembrare prima facie simile alla ratifica, ma ne differisce, in quanto quest’ultima si esplica attraverso una manifestazione di volontà, mentre la prima può definirsi come un comportamento passivo, una forma di pati (Trib. Torino sez. I, 4 luglio 2018, n. 3426).
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