Rivista Giurisprudenza Italiana n. 6/2022

Desistenza volontaria e recesso attivo

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Abstract

Sebbene la Cassazione sembri ormai assestata su orientamenti consolidati, non per questo può dirsi che i vari nodi interpretativi posti dall’art. 56, commi 3° e 4°, c.p. siano stati risolti sempre in maniera univoca. In ordine alla c.d. “delimitazione interna”, ad esempio, si assiste ad un proliferare di soluzioni che diviene ancor più marcato laddove si discuta della configurazione e degli effetti della desistenza volontaria in caso di concorso di persone. La volontarietà, invece, risulta il requisito su cui più spesso si è pronunciata la giurisprudenza, talvolta con esiti non pienamente condivisibili. Ancora ampiamente da sviluppare, infine, risulta l’indagine giurisprudenziale del fondamento e della qualificazione dogmatica degli istituti oggetto della presente rassegna.

Fondamento e natura giuridica

L’individuazione del fondamento e della natura giuridica degli istituti oggetto della presente rassegna rappresenta forse l’aspetto meno approfondito dalla giurisprudenza di legittimità in materia di desistenza volontaria e recesso attivo. A differenza della dottrina, infatti, la cui produzione sul punto è ricchissima oltreché varia, si registra in giurisprudenza soltanto uno sparuto numero di pronunce che trattano, peraltro in maniera poco approfondita, l’argomento.

Fondamento

Per quanto riguarda il fondamento, la Cassazione non si discosta dalle principali teorie formulate in dottrina, ritenendole complementari. Secondo Cass. pen., Sez. V, 1° marzo 2018, n. 33100 , infatti, “la desistenza volontaria – disciplinata dall’art. 56, 3° comma, c.p, – è una esimente di carattere speciale che trova fondamento nella considerazione utilitaristica di politica criminale secondo cui è opportuno mandare impunito il colpevole di un reato tentato per incentivare l’abbandono di iniziative criminose, ovvero, nell’ambito della prevenzione speciale, nella considerazione che l’agente, il quale volontariamente desiste, dimostra di possedere una ridotta volontà criminale”. Cass. pen., Sez. VI, 21 aprile 2006, n. 24711 , aggiunge a quanto appena detto che “la causa di non punibilità rappresenta il “premio” all’autore del reato per non aver portato a compimento la sua azione”.

Natura giuridica

Ancor meno sviluppata risulta l’indagine circa la qualificazione giuridica dei due istituti. Pacifica la natura di circostanza attenuante del recesso attivo, la Cassazione sembra qualificare la desistenza volontaria come una causa di giustificazione che esclude “ab extrinseco ed ex post l’antigiuridicità del fatto” ( Cass. pen., Sez. VI, 24 settembre 2008, n. 42688 ).

Presupposti

Presupposto indefettibile tanto della desistenza volontaria quanto del recesso attivo è che il soggetto che volontariamente abbandona il progetto criminoso abbia realizzato un tentativo di delitto punibile. Se così non fosse, se, cioè, si prescindesse dalla realizzazione di un fatto penalmente rilevante, gli istituti di cui si discute sarebbero inutili in quanto mai applicabili ( Cass. pen., Sez. VI, 21.04.2006, n. 24711 ). La desistenza volontaria e il recesso attivo intervengono, dunque, in uno stadio intermedio dell’iter criminis e cioè fra la realizzazione di un tentativo di delitto incompiuto (punibile) e la sua consumazione. Ciò spiega perché rispetto ai delitti cc.dd. a “consumazione anticipata” la desistenza e il recesso non sono configurabili.

Reati a consumazione anticipata

Sul punto si è espressa a chiare lettere Cass. pen., Sez. II, n. 7835/2018 che ha escluso la desistenza volontaria nel caso di un soggetto che, con l’intenzione di uccidere i propri familiari, aveva rischiato di causare una esplosione nel proprio appartamento attraverso la fuoriuscita di gas da lui stesso prodotta, mettendo altresì in pericolo la pubblica incolumità. Il soggetto si era successivamente attivato per evitare il tragico evento ma la Cassazione, come anticipato, ha escluso la rilevanza ex artt. 56, 3° comma c.p. di tale condotta sul presupposto dell’incompatibilità della desistenza volontaria con i delitti a consumazione anticipata fra cui rientra anche quello di strage che veniva contestato. Si afferma, infatti, che “il reato di strage ha la natura di reato a consumazione anticipata che determina l’inapplicabilità della disciplina del tentativo [...] In tale contesto normativo, pertanto, la desistenza ed il recesso attivo non appaiono in astratto applicabili al delitto di strage: quando la condotta ha già posto in pericolo l’incolumità pubblica il reato si è perfezionato, prima che ciò accada gli atti non possono essere considerati idonei e pertanto non è configurabile il tentativo, presupposto logico e giuridico sia della desistenza volontaria che del recesso attivo”.

Delimitazione esterna

Primo nodo da sciogliere in materia di desistenza volontaria e di recesso attivo è individuare il confine fra questi due istituti, da un lato, e le ipotesi di tentativo punibile, dall’altro. Secondo la giurisprudenza (e la dottrina) il criterio discretivo è rappresentato dalla “persistente possibilità di consumazione del delitto”. Perché la mancata consumazione del reato sia rilevante ai sensi dell’art. 56, 3° comma o 4° comma, c.p. occorre, dunque, che il soggetto attivo abbia effettivamente la possibilità di realizzarlo. Per negare l’applicazione di questi istituti, la giurisprudenza attribuisce rilevanza tanto ad ipotesi di impossibilità oggettiva quanto soggettiva.

Impossibilità oggettiva

Si parla di impossibilità oggettiva laddove ostacoli fisico-materiali insormontabili si frappongono fra l’autore e la consumazione del reato. In questi casi, l’autore inizia a realizzare la condotta ma circostanze non previste rendono impossibile dal punto di vista materiale la sua prosecuzione (cfr. Cass. pen., Sez. V, 1° marzo 2016, n. 22548 che ha negato la desistenza volontaria nel caso di un soggetto che, intenzionato ad aggredire con una lametta da barba il magistrato davanti al quale avrebbe dovuto sottoporsi per l’interrogatorio di garanzia, aveva abbandonato il proposito criminoso perché accortosi della presenza di un dispositivo di sicurezza allestito dalla polizia penitenziaria proprio in vista di detto interrogatorio; analogamente, Cass. pen., Sez. II, 29 settembre 2009, n. 41484).

Impossibilità soggettiva

Si parla, invece, di impossibilità soggettiva, parimenti rilevante al fine di escludere la configurabilità della desistenza e del recesso, laddove il soggetto abbandoni l’azione nella convinzione di non essere più in grado di portarla a termine. A differenza delle ipotesi viste sopra, l’ostacolo fisico-materiale insormontabile non esiste nella realtà ma solo nell’immaginario del soggetto attivo. Di conseguenza, ciò che viene a mancare in questi casi, più che la possibilità di consumazione del delitto, è la volontarietà dell’abbandono dell’azione ( Cass. pen., Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 9015 ) su cui ci si soffermerà ampiamente più avanti.

Le ipotesi di “mancata reiterazione del tentativo”

Distinguere la desistenza volontaria dalle condotte punibili a titolo di delitto tentato diviene particolarmente arduo nei casi che potrebbero definirsi di “mancata reiterazione del tentativo”. Si tratta di situazioni, per la verità venute assai raramente all’attenzione della Corte Suprema, in cui il soggetto, dopo aver tentato di realizzare un delitto con una prima condotta, abbandona il progetto criminoso nonostante avesse la effettiva possibilità di realizzarlo attraverso atti dello stesso tipo. Detto altrimenti, l’agente realizza una prima condotta che però “va a vuoto”, nel senso che non riesce a raggiungere l’obiettivo (criminoso) prefissato. Dopodiché, egli avrebbe immediatamente la possibilità di “riprovarci” attraverso una nuova azione che, però, decide di non realizzare. La giurisprudenza, sulla base di diversi impianti argomentativi, tende in questi casi a punire l’agente a titolo di delitto tentato.

Secondo una prima pronuncia ( Cass. pen., Sez. I, n. 30336/2013 ), infatti, la mancata prosecuzione dell’azione è irrilevante perché con la prima condotta l’agente ha già realizzato un tentativo di delitto compiuto, incompatibile di per sé, come si vedrà, con l’istituto della desistenza volontaria. Si afferma, infatti, che “l’aver indirizzato anche un solo colpo con l’intento di uccidere l’avversario e non riuscendo nell’intento per imperizia balistica, integra compiuta condotta nella quale riconoscere tutti i requisiti del reato di tentato omicidio e tanto anche se, dopo quell’unico colpo, lo sparatore si dilegui senza scaricare il caricatore ancora pieno di colpi”. Altra pronuncia ( Cass. pen., Sez. II, 5 dicembre 2013, n. 51514 ), sembra, invece, affermare la rilevanza della mancata prosecuzione dell’azione a condizione, però, che gli ulteriori atti (non realizzati dal soggetto attivo) siano oggetto dell’originario programma criminoso. Tale pronuncia, infatti, ha punito a titolo di tentata rapina un soggetto che, dopo essere entrato in un esercizio commerciale armato di un grosso coltello, aveva intimato ai gestori di consegnargli l’incasso ma si era poi allontanato avendo verificato personalmente l’assenza del denaro nel registratore di cassa, sul presupposto che “il tentativo della difesa di postulare la possibilità della protrazione della rapina inserisce, nella intenzione criminosa del prevenuto, una finalità disomogenea alla situazione di fatto deponente per una volontà di rapinare i soldi della cassa, e non altro, non certo i prodotti ortofrutticoli in vendita nel negozio né i soldi custoditi nella persona o in altro luogo del negozio. Di un tale succedaneo, eventuale obiettivo non vi è traccia di prova”.

Integra, altresì, un tentativo di delitto punibile e non la desistenza volontaria la mancata prosecuzione dell’azione allorquando gli ulteriori atti (non realizzati) integrerebbero un delitto più grave di quello inizialmente programmato ( Cass. pen., Sez. V, 30 gennaio 2017, n. 18322 ).

Delimitazione interna

Caratteristiche generali

La Cassazione è univoca nel concepire la desistenza volontaria come un non facere e il recesso attivo come un facere. A tal proposito, si afferma che la prima consiste in un abbandono dell’azione, ossia nell’omissione degli ulteriori atti necessari per realizzare compiutamente il fatto delittuoso. Il secondo, invece, consiste in una serie di atti di segno eziologicamente contrario a quelli precedentemente realizzati attraverso i quali l’autore riesce ad impedire l’evento.

Reati omissivi impropri

Quanto detto non vale, però, rispetto ai reati omissivi impropri. Per quest’ultimi, infatti, perché la desistenza volontaria e il recesso attivo possano configurarsi è necessario sempre un comportamento di segno positivo ( Cass. pen., Sez. II, 22 dicembre 2009, n. 2772 ).

Sebbene non si registrino pronunce applicative degli istituti di cui si discute rispetto a tale categoria di delitti, la sentenza appena citata affronta direttamente l’argomento, affermando che “il discorso deve scindersi in due tronconi, a seconda che si versi in tema di reati omissivi impropri o di reati commissivi d’evento (come nel caso di specie). Nella prima evenienza, per arrestare il processo causale ed aversi desistenza basta che l’agente intraprenda l’azione dovuta, che fino a quel momento aveva omesso [...] Nei reati commissivi [...] [invece] la desistenza ha sempre carattere omissivo (degli ulteriori atti esecutivi): diversamente, se – cioè – vengono posti in essere ulteriori atti, o questi avranno conforme direzione causale rispetto alla condotta tipica già esauritasi (ad allora saranno causalmente ininfluenti), oppure saranno di segno eziologicamente contrario a quelli già posti in essere e allora si verserà nell’ipotesi del recesso attivo (o ravvedimento operoso, secondo altra nota – seppur meno propria – terminologia) [...] Dunque, in sintesi, mentre nei reati omissivi impropri la condotta commissiva integra desistenza, in quelli commissivi costituisce – invece – recesso attivo”.

Nonostante quanto premesso, più discussa, anche se non con la ricchezza di soluzioni prospettate in dottrina, è l’individuazione del momento entro il quale può configurarsi la desistenza volontaria.

Esaurimento dell’azione tipica

L’orientamento assolutamente prevalente è quello che fa leva sulla differenza tra tentativo incompiuto e tentativo compiuto. Com’è noto, il primo si ha quando l’agente abbandona l’azione prima di averla realizzata compiutamente, cioè quando non ha ancora posto in essere la condotta tipica (in questo caso dovranno sussistere, però, almeno gli atti pre tipici) oppure ne ha realizzato soltanto una parte. Il tentativo compiuto si ha, invece, quando la condotta è stata interamente realizzata ma da questa non è derivato l’evento. Alla luce di questa fondamentale differenziazione, la giurisprudenza ritiene che la desistenza volontaria possa configurarsi soltanto in caso di tentativo incompiuto mentre il recesso attivo solo in caso di tentativo compiuto. Costante è, infatti, l’affermazione secondo cui “Sotto il profilo oggettivo, la desistenza (art. 56, 3° comma, c.p) si ha quando l’agente si arresta prima di avere posto in essere la condotta tipica, mentre l’ipotesi del recesso attivo, disciplinato dall’art. 56, 4° comma, c.p, – detto anche, più impropriamente pentimento operoso – ricorre quando il soggetto, avendo esaurito la condotta tipica, agisce per impedire l’evento e riesce, effettivamente, ad impedirlo [...]. La desistenza può aversi solo nella fase del “tentativo incompiuto” e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento rispetto ai quali può, semmai, operare, se il soggetto tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo [...]. Essa postula, pertanto, nel caso di esecuzione monosoggettiva, che l’agente abbandoni l’azione criminosa prima che questa sia portata a compimento e, cioè, prima che egli realizzi compiutamente l’azione tipica della fattispecie incriminatrice, se trattasi di reati a forma vincolata, o che egli impedisca, avendone ancora il dominio, che l’azione sia completamente realizzata quando il delitto è causalmente orientato o a forma libera” (ex plurimis, Cass. pen., Sez. I, 23 settembre 2009, n. 39293). Avendo riguardo specificatamente al recesso attivo, si afferma, altresì, che “ai fini della configurabilità della invocata ipotesi [...] è necessario che l’agente, dopo avere compiutamente posto in essere una condotta tale da innescare il processo che nell’ordinario determinismo causale avrebbe comportato la verificazione dell’evento, di tal che la fattispecie è individuabile solo nelle ipotesi di tentativo compiuto [...], si sia successivamente fattivamente adoperato in modo che tale evento non si sia avverato; onde realizzare la figura – che diversamente dalla desistenza non comporta la irrilevanza penale del tentativo [...], ma costituisce solo un fattore di ulteriore diminuzione della irroganda sanzione – non è pertanto sufficiente che il soggetto interrompa la sua azione, posto che, stante l’intervenuta attivazione del predetto processo causale, una tale condotta non potrebbe cagionare di per sé alcun effetto sulla verificazione dell’evento, ma è necessario che egli volontariamente ponga in essere una controazione tale da impedire che l’evento si realizzi” ( Cass. pen., Sez. III, 28 novembre 2018, n. 17518 ).

Il recesso attivo si configura sia quando è l’autore del reato a impedire la verificazione dell’evento attraverso una propria condotta, sia quando egli si avvale della collaborazione di terzi. Coerentemente, Cass. pen., Sez. I, 28 marzo 2014, n. 16274 ha annullato la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Genova che aveva condannato l’imputato per tentato omicidio senza tenere conto, però, della condotta dell’agente che, immediatamente dopo aver colpito la vittima cagionandone lesioni gravissime, si era adoperato per soccorrerla, per un verso frenando l’emorragia dalle ferite con un asciugamano bagnato d’acqua avvolto attorno al capo e, per altro verso, altrettanto immediatamente adoperandosi per consentire il pronto intervento dei sanitari e di una ambulanza.

Continuità temporale e c.d. “dominio diretto”

Un secondo orientamento, nettamente minoritario in giurisprudenza ma con ampio seguito in dottrina, utilizza, invece, i criteri cc.dd. della “continuità temporale” e del “dominio diretto” per stabilire quando si versi nelle ipotesi di desistenza volontaria e di recesso attivo. Dirimente, ai fini della configurabilità dell’uno o dell’altro istituto, non è, secondo questa parte della giurisprudenza, che il soggetto abbia o non abbia interamente esaurito la condotta tipica ma “che – in termini di sostanziale continuità temporale – l’autore inverta con modalità inequivoche la situazione, di cui ha ancora la piena disponibilità, il pieno dominio, sicché quella situazione già concretizzatasi e penalmente rilevante non sia, per sé, inevitabilmente suscettibile di muovere autonomamente verso la piena consumazione del delitto” (Cass. pen., Sez. II, 12 febbraio 2015, n. 9388). In base a questo orientamento, la desistenza volontaria è configurabile anche in caso di tentativo compiuto. Cass. pen., Sez. VI, 21 aprile 2006, n. 24711 , infatti, ha ritenuto qualificabile ex artt. 56, 3° comma c.p. la condotta di un soggetto che, abusando della sua qualifica di funzionario dell’Ufficio IVA, aveva prospettato alla persona offesa l’irrogazione di una elevata sanzione, facendole credere di poter evitare detta sanzione “chiudendo gli occhi”, al fine di costringerla a formare con lui una società. L’uomo, qualche giorno dopo, aveva però abbandonato il proposito concussorio, comunicando la sua decisione direttamente alla persona offesa.

Dominio diretto e persistente possibilità di consumazione

In alcune pronunce si registra una sovrapposizione tra il criterio anzidetto, utilizzabile per distinguere le ipotesi di desistenza volontaria da quelle di recesso attivo, con il concetto di “persistente possibilità di consumazione del delitto” il cui venire meno determina, come visto sopra, la configurazione di un tentativo (fallito) punibile. In particolare, ciò accade nelle ipotesi, analoghe a quella vista poc’anzi, in cui la vittima, anziché cedere alle pressioni dell’autore del reato, si rivolge alle forze dell’ordine per denunciare il tentativo di estorsione subito. In argomento, Cass. pen., Sez. II, 13 febbraio 2015, n. 9388, ha affermato, infatti, che l’“evento non si è realizzato perché l’imprenditore, anziché mettersi in contatto con [...] ha sporto denuncia alla polizia giudiziaria, facendo fallire il tentativo di estorsione. Ciò ha comportato la perdita del dominio diretto dell’azione da parte dei soggetti che avevano realizzato l’originaria intimidazione, rendendo irrilevante da un punto di vista causale l’eventuale desistenza, in quanto il tentativo non si è compiuto per l’intervento di altre cause indipendenti dalla volontà dell’agente”. In maniera analoga, Cass. pen., Sez. VI, 11 ottobre 2011, n. 40678.

Criterio causale

Infine, in materia di reati a forma libera come l’omicidio, la giurisprudenza sembra valorizzare l’ulteriore criterio del nesso causale, la cui attivazione da parte del soggetto attivo segnerebbe il momento oltre quale non sarebbe più configurabile la desistenza volontaria ma soltanto il recesso attivo (Cass. pen., Sez. I, 12 febbraio 2004, n. 25917).

Truffa

Particolare campo di applicazione dei criteri sopra indicati è costituito dai delitti, come l’estorsione e la truffa, in cui è sollecitata con condotte artificiose o minacciose la consegna di un bene da parte della vittima. In questi casi la Cassazione distingue a seconda che la mancata consegna sia dovuta ad un atteggiamento di rinuncia del soggetto attivo ovvero ad un suo adoperarsi affinché la vittima non cada in errore. In particolare, nel primo caso si ritiene configurabile la desistenza volontaria mentre nel secondo la circostanza attenuante del recesso attivo. Cass. pen., Sez. VI, 23 settembre 2014 n. 11294 , ha riconosciuto, infatti, la causa di non punibilità prevista all’art. 56, 3° comma, c.p. nel caso di un soggetto che aveva tentato di indurre la persona offesa a consegnargli una somma di denaro, facendole credere di poter condizionare l’esito della valutazione medica concernente una domanda per indennità di accompagnamento, salvo poi non presentarsi all’appuntamento concordato per la consegna di detta somma di denaro. Di contro, Cass. pen., Sez. II, 22 dicembre 2009, n. 2772 , ha riconosciuto il recesso attivo nel caso di un soggetto che aveva attestato falsamente il proprio orario di lavoro sul foglio presenze, condotta a cui aveva poi fatto seguito l’inoltro all’ufficio competente di una rettifica indicante l’orario corretto.

Volontarietà

Perché l’abbandono dell’azione e l’impedimento dell’evento siano rilevanti ai fini del recesso attivo ovvero della desistenza occorre che si tratti di condotte poste in essere volontariamente.

L’orientamento superato: pentimento e spontaneità

In passato la Cassazione concepiva la volontarietà in termini di pentimento e di spontaneità, spesso considerandoli come sinonimi. Si affermava, infatti, che la desistenza e il recesso presuppongono l’autentico pentimento del soggetto (Cass. pen., Sez. I, 6 novembre 1967, n. 743) la cui decisione di interrompere il progetto criminoso non deve essere influenzata da fattori esterni (Cass. pen., Sez. I, 29 marzo 1971, n. 306).

Tale orientamento è da considerare ormai completamente superato in quanto incompatibile con un diritto penale incentrato sul fatto e con il tenore letterale dello stesso art. 56, commi 3 e 4 c.p.

L’orientamento dominante: volontarietà come libertà di scelta

Attualmente, la giurisprudenza è univoca nel concepire la volontarietà in termini di libertà di scelta. Perché l’abbandono dell’azione e l’impedimento dell’evento siano rilevanti ai sensi dell’art. 56, commi 3° e 4°, c.p. non occorre, dunque, che il soggetto agisca in assenza di condizionamenti esterni (situazione, peraltro, che difficilmente si verifica nella realtà). Necessario e sufficiente è che, invece, la decisione di non portare a termine il programma criminoso non appaia all’agente obbligata ma, al contrario, ragionevole.

La giurisprudenza definisce la volontarietà con una pluralità di formule, fra loro simili e in linea con quanto appena espresso. Si afferma, relativamente alla desistenza (ma ciò vale anche per il recesso attivo) che “la “volontarietà” [...] non deve essere confusa con la “spontaneità” della medesima, nel senso che la desistenza è volontaria anche quando non è spontanea, perché indotta da ragioni utilitaristiche o da considerazioni dirette ad evitare un male ipotizzabile o dalla presa di coscienza degli svantaggi che potrebbero derivare dal proseguimento dell’azione criminosa; la legge non prende in considerazione le intime ragioni che inducono l’agente a desistere dall’azione criminosa, ma richiede invece, con la previsione del requisito della volontarietà, che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile, o gravemente rischiosa, la prosecuzione dell’azione. Insomma, seppur non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell’azione medesima; la scelta deve quindi essere operata in una situazione di libertà interiore, indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell’agente” (ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 24 novembre 2014, n. 6759 ). Molto diffusa è anche l’affermazione secondo cui la volontarietà dell’interruzione del programma criminoso “manca non solo quando l’azione criminosa è divenuta impossibile, ma anche quando la prosecuzione presenta svantaggi o rischi tali da non potersela attendere da persona di comune ragionevolezza” ( Cass. pen., Sez. II, 2 marzo 2016, n. 24290 ).

Alla luce di quanto appena detto, diviene fondamentale distinguere tra fattori esterni che possono influenzare la volontà dell’agente e quelli, invece, in grado di coartarla significativamente, così da rendere non volontaria la mancata consumazione del delitto. Sebbene sia praticamente impossibile fornirne un elenco completo, stante la infinita varietà delle situazioni concrete, l’analisi giurisprudenziale consente di cogliere l’esistenza di alcune “situazioni tipiche” che si ripresentano con frequenza all’attenzione dei giudici ( Cass. pen., Sez. IV, 21 gennaio 2021, n. 9966 ).

Casi “tipici”

Fra queste vi è senza dubbio la resistenza opposta dalla vittima in caso di reati a base violenta come la rapina ( Cass. pen., Sez. II, 4 marzo 2020, n. 14469 ) e l’estorsione ( Cass. pen., Sez. II, 23 ottobre 2019, n. 671 ); l’abbandono dell’azione di chi, intenzionato a realizzare il delitto di cui all’art. 624-bis c.p., si accorga della presenza di persone in casa ( Cass. pen. Sez. IV, 24 novembre 2021, n. 46160 ) o di essere avvistato mentre tenta di introdursi nell’abitazione altrui ( Cass. pen., Sez. IV, 21 gennaio 2021, n. 9966 ); l’interruzione del programma criminoso a causa della inaspettata presenza o arrivo delle forze dell’ordine sul luogo del delitto ( Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2021, n. 44647 ); l’interruzione delle trattative per l’acquisto di stupefacenti non per un’autonoma deliberazione ma per il mancato accordo sul prezzo della vendita ( Cass. pen., Sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 4881 ); l’assenza di beni di interesse nel luogo designato per commettere il furto o la rapina (cfr. Cass. pen., Sez. V, 11 luglio 2008, n. 36919 che ha escluso la desistenza volontaria nel caso di un soggetto che, salito su un furgone parcheggiato sulla pubblica via, aveva rovistato all’interno di esso e ne era poi ridisceso senza asportare nulla perché non aveva trovato beni di suo interesse; analogamente, Cass. pen., Sez. VII, 16 febbraio 2021, n. 13719; contra, Cass. pen., Sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 203 ).

Ostacoli fisico materiali

Oltre agli esempi appena visti, la giurisprudenza considera ostativi al riconoscimento della desistenza volontaria e del recesso attivo numerosi ulteriori fattori esterni, che possono essere suddivisi in due grandi categorie: gli ostacoli fisico materiali le situazioni di rischio per l’impunità.

Nella prima categoria rientrano tutti quei fattori che si frappongono fra l’agente e la consumazione del reato, rendendo quest’ultima più difficoltosa da un punto di vista, giusto appunto, fisico materiale. Per esempio, Cass. pen., Sez. II, 22 giugno 2021, n. 31939 , ha escluso potesse riconoscersi il carattere della volontarietà nella condotta di alcuni soggetti che, con l’intenzione di realizzare una rapina a danno di un furgone adibito alla consegna di tabacchi lavorati, avevano rinunciato a portare a termine il programma criminoso dopo un lungo pedinamento perché accortisi della permanenza della vigilanza armata a scorta dello stesso. (cfr., inoltre, Cass. pen., Sez. II, 21 novembre 2019, n. 2457 , che ha escluso la desistenza volontaria a causa di fattori non ancora esistenti ma che sicuramente avrebbero ostacolato la consumazione del delitto in caso di prosecuzione della condotta).

Situazioni di rischio per l’impunità

Nella seconda categoria rientrano, invece, i fattori che rendono troppo rischiosa la realizzazione del delitto dal punto di vista dell’impunità dell’agente. Così, Cass. pen., Sez. IV, 24 giugno 2010, n. 32145 ha escluso la volontarietà della desistenza perché l’uso di telecamere, installate in prossimità dell’esercizio commerciale in danno del cui titolare doveva essere esercitata un’attività estorsiva, rendeva estremamente rischioso il proseguimento dell’attività. Similmente, Cass. pen., Sez. III, 27 aprile 2012, n. 39452 ha escluso la desistenza nel caso di un soggetto che, nella consapevolezza di essere intercettato, aveva comunicato telefonicamente ad una prostituta alla quale precedentemente aveva chiesto di procuragli una ragazza minore per intrattenere rapporti sessuali di non essere più interessato.

Spontaneità

In alcuni casi la Cassazione, sebbene formalmente non si discosti dall’orientamento dominante sopra esposto, sembra richiedere un abbandono dell’azione spontaneo anziché meramente non necessitato ai fini della desistenza. Ad esempio, Cass. pen., Sez. V, 16 dicembre 2020, n. 12045 , ha condannato per tentato omicidio alcuni soggetti che, dopo aver predisposto un agguato con armi da sparo, avevano rinunciato alla esecuzione per il rischio, non preventivato, di colpire i familiari della vittima designata. Oppure Cass. pen., Sez. III, 28 novembre 2018, n. 17518 , ha condannato per tentata violenza sessuale un soggetto che, dopo aver avvicinato la vittima all’interno dell’androne della abitazione ed averle tappato la bocca, aveva interrotto improvvisamente la sua azione intimorito dalla circostanza che la stessa, sino a quel momento, aveva conversato telefonicamente con altra persona. Inoltre, Cass. pen., Sez. VII, 16 febbraio 2021, n. 13719 e Cass. pen., Sez. V, 11 luglio 2008, n. 36919 , già menzionate nell’ambito dei cc.dd. “casi tipici”, hanno punito a titolo di tentativo di furto alcuni soggetti che, in varie occasioni, si erano recati sul luogo del delitto per poi allontanarsene senza essersi impossessati di alcunché a causa dell’assenza di beni di loro interesse. In tutti e tre i casi sembra davvero non si possa parlare né di ostacoli fisico materiali né di situazioni di rischio per l’impunità tali da coartare in maniera significativa la volontà dell’agente. Nel caso del tentato omicidio, infatti, si è in presenza di un semplice fattore imprevisto che introduce il rischio che le conseguenze della condotta criminosa possano essere più gravi di quelle volute e preventivate dagli agenti, senza, però, incidere in alcun modo sulla possibilità di attuare il programma criminoso. Nel caso del tentativo di violenza sessuale, invece, un rischio per l’impunità è ravvisabile soltanto in astratto in quanto non si dà conto del contenuto della conversazione telefonica intercorsa tra la persona offesa e un terzo soggetto. Nei casi di furto tentato, infine, si prescinde da qualsiasi tipo di ostacolo o di situazione di rischio, attribuendosi invece rilevanza, al fine di escludere la desistenza, alla motivazione soggettiva alla base dell’abbandono dell’azione.

Abbandono momentaneo dell’azione

La giurisprudenza, ritiene non qualificabile ex artt. 56, 3° comma, c.p. un abbandono meramente momentaneo del proposito criminoso (cfr. Cass. pen., Sez. V, 28 febbraio 2017, n. 30842 che ritenuto qualificabile ex artt. 56, 624- bis c.p. la condotta di due soggetti che, dopo essersi allontanati dall’abitazione presa di mira, avevano nascosto gli attrezzi da scasso in attesa di riutilizzarli al momento opportuno).

Autore “recede” per allontanare i sospetti su di sé

Infine, la giurisprudenza esclude il recesso attivo laddove la condotta dell’agente non sia finalisticamente orientata ad impedire l’evento. È il caso di chi, dopo aver colpito la persona offesa, segnali a terzi la presenza di un soggetto in pericolo di vita al solo fine di allontanare da sé ogni sospetto sulla paternità dell’aggressione perpetrata, anche qualora il soccorso prestato da terzi abbia impedito il verificarsi dell’evento morte (Cass. pen., Sez. VII, 16 gennaio 2013, n. 22817; in termini simili, Cass. pen., Sez. I, 3 luglio 2012, n. 29708 ; contra Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2014, n. 12934 secondo cui “il dato obiettivo del risultato conseguito deve prevalere su letture intimistiche (che non godono mai di solidi ancoraggi), o sulla presunzione di scelte indirizzate a miglior difesa, espressa a fronte della particolare contingenza, che non può comunque avere un valore assoluto”. Si precisa, tuttavia, che in quest’ultimo caso l’agente aveva personalmente prestato soccorso alla vittima dopo averla colpita mentre nei primi due si era limitato a segnalare a terzi la presenza di corpi apparentemente senza vita o comunque in pericolo).

Onere della prova

In giurisprudenza è costante l’affermazione per cui grava su chi deduce la desistenza l’onere di provare che l’interruzione dell’azione criminosa dipende dalla determinazione volitiva dell’agente e non da fattori esterni che impediscono la prosecuzione dell’azione (Cass. pen., Sez. I, 8 marzo 2017, n. 48148; Cass. pen., Sez. I, 2 febbraio 2010, n. 21955; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 1995, n. 7937). Pertanto, l’imputato non può limitarsi ad invocare la desistenza ma deve indicare le circostanze dalle quali si desume la volontarietà della mancata consumazione del delitto.

Differenza tra recesso attivo e circostanza attenuante ex artt. 62, 1° comma, n. 6 c.p.

Il recesso attivo si differenzia dalla circostanza attenuante generica del c.d. “attivo ravvedimento” (art. 62, n. 6, ultima parte, c.p.) perché la prima interviene prima della consumazione dell’azione, attraverso una condotta finalizzata a interrompere il processo causale già attivato; la seconda, invece, si realizza dopo la consumazione del reato, attraverso una condotta posta in essere spontaneamente (e non, semplicemente, volontariamente) che elide o comunque attenua le conseguenze dannose o pericolose del reato (Cass. pen., Sez. I, 8 ottobre 2009, n. 40936). Ne consegue che l’attenuante comune non è applicabile alla fattispecie del delitto tentato né alle ipotesi che abbiano cagionato conseguenze dannose irreversibili (Cass. pen., Sez. I, 14 marzo 2014, n. 15745).

Desistenza volontaria e concorso di persone

In materia di desistenza volontaria e concorso di persone nel reato le considerazioni da svolgere devono seguire due percorsi diversi a seconda che si discuta della fisionomia che deve avere la desistenza per giovare ad uno dei compartecipi o degli effetti giuridici che questa può produrre rispetto agli altri soggetti. Una ulteriore differenziazione è poi necessaria in relazione al soggetto la cui condotta viene presa in considerazione. Se si tratti, cioè, dell’esecutore materiale o del concorrente atipico.

L’esecutore materiale

Per quanto riguarda la prima ipotesi, (l’esecutore materiale) non sembra in realtà che la desistenza si atteggi diversamente da quanto visto in materia di reato ad esecuzione monosoggettiva.

Il concorrente atipico

Più complessa, invece, è la soluzione delle questioni allorquando si tratti del concorrente atipico, al quale è richiesto uno sforzo maggiore del mero abbandono dell’azione criminosa. Si afferma, infatti, in maniera univoca che “l’interruzione dell’azione criminosa da parte del partecipe non basta perché si abbia desistenza, occorrendo un quid pluris che consiste nell’annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva, in modo che non possa essere più efficace per la prosecuzione del reato, e nella eliminazione delle conseguenze dell’azione che fino a quel momento si sono prodotte” (ex plurimis, Cass. pen., Sez. II, 3 settembre 2021, n. 35574). Ove ciò non sia possibile perché, per esempio, gli effetti della condotta siano irreversibili o perché il ruolo svolto dal concorrente o la struttura del reato non lo permettano, al compartecipe è richiesto uno sforzo ancora maggiore. In questi casi, infatti, egli deve addirittura arrestare l’azione degli altri compartecipi o impedire che l’evento si realizzi. Così, Cass. pen., Sez. II, 30 settembre 2002, n. 4641 ha escluso la desistenza volontaria nel caso di un soggetto che aveva collaborato alla fase ideativa e preparatoria di una rapina, partecipando materialmente alla ricognizione dei luoghi teatro del delitto, senza, però, prendere poi parte alla sua effettiva esecuzione. La circostanza, peraltro non accertata in sentenza, di una possibile dissociazione del soggetto dal programma criminoso è stata giudicata dalla Corte irrilevante a causa della inscindibilità della sua condotta rispetto a quella posta in essere dagli altri compartecipi.

Effetti rispetto agli altri compartecipi

Per quanto riguardo gli effetti giuridici che la desistenza di uno dei concorrenti nel reato può produrre sulla posizione degli altri soggetti si registra, se non proprio un contrasto giurisprudenziale, quantomeno una pluralità di soluzioni.

Superato il risalente orientamento che sanciva l’assoluta incomunicabilità ai correi della causa di non punibilità di cui si discute, stante la sua natura soggettiva, attinente all’intensità del dolo (Cass. pen., Sez. V, 9 febbraio 1983, n. 5170), ad oggi è costante l’affermazione secondo cui “la desistenza di uno dei concorrenti deve instaurare, perché si riverberi favorevolmente sulla posizione degli altri compartecipi, un processo causale che arresti l’azione di questi ultimi e impedisca comunque l’evento; se, invece, essa elimini soltanto gli effetti della condotta individuale, non comporta benefici per gli altri compartecipi, le cui condotte pregresse, conservando intatta la loro valenza causale, hanno prodotto conseguenze ormai irreversibili, funzionali alla consumazione del reato o alla configurazione del tentativo punibile” ( Cass. pen., Sez. V, 1° marzo 2018, n. 33100 ).

Un buon numero di pronunce – tra cui proprio quella ora menzionata – tuttavia, intende il principio di diritto appena esposto in maniera assai restrittiva, nel senso che “la desistenza del correo non giova agli altri compartecipi se questi ultimi debbano rispondere del delitto tentato per le condotte già poste in essere”. In linea con quanto appena espresso, detta pronuncia ha punito a titolo di tentato sequestro di persona tre soggetti che avrebbero dovuto effettuare la telefonata estorsiva a danno dei familiari della vittima designata, telefonata che, tuttavia, non ebbe luogo poiché un quarto soggetto, incaricato di realizzare il rapimento, desistette dal proposito criminoso la mattina pianificata per commettere il delitto. Analogamente, Cass. pen., Sez. II, 13 novembre 2013, n. 48128 , ha escluso potesse estendersi agli altri concorrenti, che venivano condannati per tentato omicidio, la desistenza volontaria di un soggetto che, incaricato di accompagnare la vittima sul luogo della sua esecuzione, l’aveva fatta scendere dall’auto prima di giungere a destinazione, evitando così la perpetrazione del delitto da parte degli altri.

Ammette, invece, l’estensione degli effetti agli altri concorrenti nel reato, Cass. pen., Sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 203 , secondo cui della desistenza di un soggetto che, introdottosi in un’abitazione altrui, si era poi allontanato senza asportare alcunché, beneficia anche il concorrente nel reato che aveva fatto da palo perché “Non corrisponde ai criteri della logica e alle regole del diritto punire colui che abbandona volontariamente il proposito criminoso e di conseguenza nella specie anche il corresponsabile dell’azione criminosa, attuale ricorrente”.

Una apertura ancora maggiore è offerta da una risalente pronuncia (Cass. pen., Sez. II, 3 marzo 1998, n. 10795 ) secondo cui la desistenza di uno dei concorrenti si estende agli altri se quest’ultimi, dopo l’abbandono dell’azione da parte del primo, non pongono in essere alcun atto ulteriore diretto alla consumazione del reato. Contrariamente, Cass. pen., Sez. VI, 21 ottobre 1999, n. 14188 , ha invece escluso che la desistenza volontaria del soggetto incaricato di convincere la vittima designata di un’azione estorsiva a versare la somma di denaro che da essa si pretendeva potesse produrre i suoi effetti anche in favore del mandante di detta azione.

Infine, per Cass. pen., Sez. I, 5 luglio 2013, n. 35778 , si configura nei confronti del mandante di un omicidio l’ipotesi prevista dall’art. 115 c.p., e non la desistenza volontaria, nel caso in cui l’esecutore materiale desista dall’azione.

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