Lavoro e previdenza sociale

Discriminatorio il P.d.R. che non contempla le assenze per fruizione dei permessi L. 104/1992

È discriminatoria la clausola inclusa in un piano per la determinazione del Premio di Risultato che esclude il pagamento del premio nei confronti di lavoratori assenti da lavoro per un numero di giorni all’anno, laddove tale assenza è dovuta alla fruizione dei permessi mensili di cui alla L. n. 104/1992 da una persona con disabilità.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

App. Torino n. 212/2022

Cass. n. 20684/2016

Difformi

Non si rinvengono precedenti

In una recentissima ed interessante pronuncia, il Tribunale di Catania, in funzione di Giudice del Lavoro, si è pronunciato in favore di una lavoratrice dipendente di una pubblica amministrazione che lamentava la discriminatorietà della clausola recante i criteri di determinazione del premio di risultato, contenuta in un accordo collettivo precedentemente stipulato ed applicato dal datore di lavoro.

In particolare, secondo la ricostruzione fornita dalla ricorrente stessa, l’amministrazione datrice di lavoro – in esecuzione di un accordo sindacale sottoscritto nel 2017 e valido per il triennio 2017/2020 - aveva escluso la lavoratrice dal diritto al premio in quanto la stessa era stata assente, nell’anno di competenza, complessivamente per oltre 22 giorni.

Tale accordo era infatti volto a disincentivare l’assenteismo e prevedeva il pagamento del premio di risultato (P.d.R.) ai soli lavoratori che non avessero superato una soglia minima di assenze nel corso dell’anno.

Tuttavia, il motivo per cui la persona era stata assente dal lavoro per un tale numero di giorni era sostanzialmente riconducibile alla fruizione, per tre giorni al mese e tutti i mesi, dei permessi di cui alla L. n. 104/1992, essendone titolare in prima persona in quanto persona disabile in situazione di gravità ai sensi all’articolo 3, comma 3 di tale legge.

Difatti, stando a quanto si apprende dalla sentenza, l’accordo sindacale alla base del P.d.R. non prevedeva nessuna misura specifica né alternativa, per i dipendenti dell’amministrazione in tale situazione, prevedendo solamente dei criteri parzialmente diversi per le lavoratrici che si fossero assentate in congedo di maternità.

Facendo ricorso al Giudice del Lavoro, dunque, la ricorrente aveva lamentato la discriminatorietà delle previsioni del P.d.R., nella misura in cui penalizzavano i lavoratori assenti in ragione della fruizione di permessi exL. n. 104/1992 e, comunque, prevedevano un trattamento diverso da altri casi di assenza per ragioni specifiche e normativamente previste, quale quello delle lavoratrici in congedo di maternità.

Come anticipato, dunque, il Giudice del Lavoro di Catania ha – del tutto condivisibilmente – accolto il ricorso della lavoratrice, accertando quindi il diritto a percepire il premio di risultato negato dal datore di lavoro in modo analogo alle lavoratrici in congedo di maternità, dopo aver ricostruito sia il quadro normativo applicabile alla fattispecie in esame, sia la giurisprudenza pronunciatasi su questa materia sino ad ora.

In particolare, il Tribunale di Catania ricorda come la fattispecie in esame sia disciplinata dalle previsioni del D.Lgs. n. 216/2003, in materia di discriminazioni a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età, della nazionalità o dell'orientamento sessuale, che ha implementato in Italia la direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e la direttiva n. 2014/54/UE in materia di esercizio di diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione all’interno dell’Unione Europea, nonché della Carta di Nizza.

A tal proposito, il D.Lgs. n. 216/2003vieta qualsivoglia discriminazione – sia diretta, che indiretta – dei lavoratori e delle lavoratrici riconducibile ad uno o più fattori summenzionati ed indicati dalla normativa stessa (per quanto riguarda gli altri fattori tutelati dall’ordinamento, ricordiamo le discriminazioni per ragioni di genere, tutelate dalla disciplina di cui al D.Lgs. n. 198/2006, nonché quelle per motivi di razza od origine etnica, soggette all’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 215/2003, decreto “gemello” del 216 oggi in esame).

Di fondamentale importanza, sul punto, sono le nozioni di discriminazione diretta ed indiretta dettate dall’art. 2 del D.Lgs. n. 216/2003 (e, sostanzialmente analoghe in ciascuno dei summenzionati decreti a presidio dei vari fattori di discriminazione disciplinati ad oggi), ovvero:

“a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età, per nazionalità o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;

b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Riportandosi alla motivazione di una recentissima sentenza della Corte di Appello di Torino (n. 212/2022), il Giudice siciliano ha quindi evidenziato come, nel caso di specie, i criteri di determinazione del P.d.R. fossero totalmente svincolati dall’effettiva produttività dei lavoratori o il raggiungimento di specifici obiettivi o risultati, ma tenessero in considerazione solo la presenza in azienda, senza distinguere – né prevedere criteri diversi – con riferimento a quei lavoratori con il diritto di assentarsi in ragione di una propria condizione, peraltro (e a maggior ragione), normativamente prevista e tutelata, quale quella del diritto alla fruizione dei permessi exL. n. 104/1992.

Oltre a ciò, sempre per il tramite del rinvio alle motivazioni di Torino, il Giudice del Lavoro di Catania ha richiamato gli oramai consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia di parità di trattamento retributivo tra lavoratori secondo cui, se è pur vero che il nostro ordinamento non prevede una parità di trattamento retributivo tra i lavoratori e, dunque, non è possibile per il Giudice un controllo sulle condizioni e le clausole pattuite tra le parti in autonomia (sia a livello collettivo, che individuale) è altresì vero che tale controllo è consentito in presenza delle ipotesi legali - e tipizzate - di discriminazione vietate dall’ordinamento, sancendo così l’esistenza di una discriminazione diretta.

La sentenza in commento del Tribunale di Catania ci appare essere corretta dal punto di vista giuridico, oltre che condivisibile nel merito del suo contenuto. Difatti, il Giudice del Lavoro ha fatto, ad avviso di chi scrive, corretta applicazione delle previsioni di legge, anche alla luce dell’interpretazione fornita dalle – ormai non più così sporadiche – pronunce sul punto.

Sotto tale profilo, occorre che le parti sociali riflettano sempre con maggior attenzione in situazioni quali, ad es., la negoziazione di contratti aziendali che prevedano un premio di risultato o retribuzioni variabili o, magari, di contratti collettivi nazionali o aziendali, nella misura in cui il focus sul tema delle discriminazioni (a prescindere dal fattore protetto dalla legge) non deriva solamente da una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica e/o della stampa sul tema, ma anche (e, soprattutto, in questa sede) da specifici obblighi di legge, in virtù della presenza di un contesto normativo ben delineato sia a livello nazionale, sia comunitario, sia sovranazionale, da cui non si può più oramai prescindere.

Riferimenti normativi:

D.Lgs. n. 216/2003

L. n. 104/1992

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