Lavoro e previdenza sociale

La statura per fare il capotreno va differenziata in base al genere, altrimenti è discriminazione

La Corte di Cassazione, Sez. lav., con l’ordinanza 3 luglio 2023, n. 18668 ribadisce che, in tema di requisiti per l’assunzione, la previsione (di fonte secondaria) di una statura minima identica per uomini e donne comporta una discriminazione indiretta a sfavore delle donne, presupponendo erroneamente che non sussista diversità di statura tra i due generi. Il giudice ordinario è, dunque, tenuto a valutare in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni e può ordinare al datore l’ammissione in servizio del lavoratore.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. civ. sez. lav., 13/11/2007, n. 23562

Cass. civ. sez. lav., 15/11/2013, n. 25734

Trib. Aosta sez. lav., decr. 05/01/2016

Cass. civ. sez. lav., ord. 14/11/2017, n. 26866

Cass. civ. sez. lav., 04/02/2019, n. 3196

Cass. civ. sez. lav., ord. 29/10/2019, n. 27729

Cass. civ. sez. lav., ord. 21/04/2020, n. 7982

Cass. civ. sez. lav., ord. 24/04/2020, n. 8167

Cass. civ. sez. lav., ord. 24/05/2023, n. 14448

Difformi

Non si rinvengono precedenti in termini

Il caso di specie

Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione conferma le decisioni assunte dai giudici di merito (di primo e secondo grado) nel procedimento promosso da una lavoratrice nei confronti di Trenitalia S.p.A. ai sensi del D.Lgs. n. 198/2006 (c.d. Codice delle Pari Opportunità), volto a far accertare la sussistenza di una fattispecie di discriminazione indiretta di genere.

Nel caso di specie, la lavoratrice veniva esclusa dalla procedura di selezione indetta dalla società di trasporti per l’assunzione di personale con qualifica di capotreno, per difetto del requisito minimo di altezza stabilito in mt 1,60 per la generalità dei candidati, sia uomini che donne.

La Corte giunge a tale conclusione condividendo l’assunto del giudice di primo grado secondo cui il requisito minimo di statura non è “funzionale rispetto alle mansioni cui sarebbe addetta la ricorrente qualora fosse stata assunta” (dato tecnico corroborato dalla CTU espletata nell’ambito del giudizio di primo grado). Il giudice del gravame, in parziale accoglimento del ricorso in appello della lavoratrice, dichiarava dunque il diritto della stessa a essere assunta a tempo indeterminato, ordinando alla società di assumerla in servizio con condanna al pagamento delle retribuzioni previste dal CCNL di categoria dal 22 ottobre 2015 alla data della pronuncia, oltre accessori e spese.

I principi in materia di discriminazione indiretta

Innanzitutto, evidenzia come la sentenza della Corte d’Appello di Bari, oggetto del ricorso, sia conforme a numerosi precedenti della Cassazione da cui non era dato discostarsi per evidenti ragioni di uniformità di trattamento di fattispecie analoghe.

Peraltro, la decisione doveva ritenersi altresì in linea con la definizione di discriminazione indiretta enucleata dalla Corte Costituzionale, secondo cui “ove i soggetti considerati da una certa norma, diretta a disciplinare una determinata fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate di caratteristiche non omogenee rispetto al fine obiettivo perseguito con il trattamento giuridico ad essi riservato, quest'ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza soltanto nel caso che risulti ragionevolmente differenziato in relazione alle distinte caratteristiche proprie delle sottocategorie di persone che quella classe compongono”.

Per il Giudice delle Leggi, dunque, il principio di eguaglianza impone di verificare che non sussista violazione del criterio di “proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli effetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita”.

Ciò premesso, la Corte passa a rilevare l’inammissibilità dell’eccezione di giurisdizione sollevata dalla società ricorrente, in quanto il giudice di primo grado aveva reso una pronunzia nel merito con implicita affermazione della propria giurisdizione senza che la società avesse proposto appello, così di fatto prestandovi acquiescenza. Neppure, ad avviso della Suprema Corte, era configurabile una carenza assoluta di potestas iudicandi, in quanto non vi era stato alcuno sconfinamento della sfera riservata al legislatore in tema di emanazione di norme per la sicurezza della circolazione dei treni.

In merito alle plurime denunce di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, la Suprema Corte si pronuncia nel senso della loro infondatezza, essendo la sostanza del decisum coerente - come visto - con la giurisprudenza tracciata dalla stessa Corte.

In particolare, i Giudici di legittimità fanno leva sulla necessità di accertare la sussistenza di una fattispecie di discriminazione indiretta alla luce di un giudizio concreto (da effettuarsi a opera del giudice di merito) di pertinenza e proporzionalità alle mansioni derivanti dalla qualifica attribuita.

Le tutele configurabili

Le conseguenze, sul piano delle tutele, sono dunque duplici:

1) da un lato ne deriva la disapplicazione della normativa secondaria, ritenuta non conforme al principio di non discriminazione, non risultando dirimente la circostanza, invocata dalla società, di essersi attenuta ad una regola, di natura vincolante, stabilita da Autorità terza, poiché la discriminazione opera obiettivamente - ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta - ed a prescindere dall’intento soggettivo dell’autore;

2) su altro versante, la Corte osserva la correttezza dell’impianto decisionale dei giudici di seconde cure, non avendo adottato una pronuncia costitutiva del rapporto di lavoro ma, al contrario, dichiarando il diritto della lavoratrice all’assunzione e, conseguentemente, ordinato alla società di adempiere, immettendola in servizio. Tale pronuncia veniva ritenuta dai giudici di legittimità coerente con l’art. 38 del D.Lgs. n. 198/2006, nella parte in cui prevede, in caso di discriminazioni nell’accesso al lavoro, “la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”, quale conseguenza dell’accertamento del comportamento lesivo. Dunque, evidentemente, accertare la discriminatorietà del comportamento e dichiarare il diritto della lavoratrice discriminata ad essere assunta, senza ordinarne l’assunzione nei confronti della società, avrebbe comportato la mancanza della rimozione degli effetti lesivi.

Riflessioni conclusive

L’ordinanza in esame si pone in continuità, come visto, con specifici precedenti della stessa Corte di Cassazione in materia di discriminazione indiretta di genere e requisiti per l’assunzione stabiliti da una norma di fonte secondaria.

La pronuncia è occasione per rimeditare non solo la definizione di discriminazione indiretta (ai sensi dell’art. 25, comma 2, D.Lgs. 198/2006, “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull'orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”) elaborata altresì dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ma anche per evidenziare le tutele in concreto apprestabili al lavoratore discriminato e i criteri con i quali i giudici di merito sono chiamati a effettuare i propri accertamenti.

Altresì consolidato è il principio giurisprudenziale qui ribadito secondo cui, in tema di disparità di trattamento, non è necessario acquisire alcuna prova in ordine alla sussistenza dell’intenzionalità di trattare qualcuno in modo deteriore in relazione al genere: ciò che rileva è la disparità di trattamento in modo oggettivo.

Nel testo è possibile, dunque, rinvenire i tre momenti fondanti dell’applicazione giudiziale della normativa antidiscriminatoria: qualificazione della condotta in termini di discriminazione diretta o indiretta; verifica dell’assolvimento dell’onere della prova nello speciale regime previsto dall’ordinamento comunitario e recepito dall’ordinamento interno; individuazione degli strumenti rimediali più efficaci a ristorare il lavoratore del pregiudizio sofferto.

Riferimenti normativi:

Art. 25, comma 2, D.Lgs. 198/2006

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