Penale

Il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. tra “liti familiari” e “sistematica sopraffazione”

La Corte di cassazione penale, Sez. VI, con la sentenza 15 settembre 2023, n. 37978 annulla l’assoluzione dell’imputato dal reato di cui all’art. 572 c.p. (per i soli effetti civili) e rinvia al Giudice competente in grado d’appello, tracciando la demarcazione tra condotte penalmente illecite e cd. liti familiari, che sfuggono alla tipicità della disposizione e, quindi, alla repressione penale.

La pronuncia oggetto della nostra attenzione nasce dal ricorso proposto dalla parte civile contro la sentenza della Corte d’Appello di Napoli che, in riforma della sentenza di primo grado, assolse l’imputato (e marito della donna) dal reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p.

Il fatto storico ricostruito nei giudizi di merito descrive di una situazione familiare connotata da insulti e illazioni sull’integrità morale della moglie poi degenerati nell’uso della violenza fisica contro costei, alla presenza del figlio minore dei due. Le condotte descritte furono minuziosamente ricostruite nel giudizio di primo grado ripercorrendo le denunce sporte dalla moglie per le continue violenze subite dal marito, che si arrestarono solo dopo che la donna, esausta, si allontanò dalla casa familiare con il figlio.

Ripercorsi brevemente i fatti esaminiamo la vicenda nei suoi aspetti giuridici, partendo dal ricorso proposto dalla parte civile (e ai soli effetti civili, exart. 576 c.p.p.) per approdare, infine, all’esame del novum della pronuncia in commento.

Il ricorso della parte civile enunciava tre motivi. Due, in particolare, sono di interesse ai fini dell’oggetto dell’odierna disamina e attengono alla configurabilità del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi in una situazione di “relazione personale molto turbata”.

Giova precisare che nel giudizio di appello la Corte giunse a conclusioni diametralmente opposte rispetto al Tribunale quanto alla responsabilità dell’imputato in ordine al delitto ascrittogli, sulla base del medesimo apparato probatorio. L’aspetto assume rilievo ai fini della nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 14800 del 21 dicembre 2017, cd. Troise (dep. 2018, Pres. Canzio, Rel. De Amicis), secondo cui il giudice di appello che pervenga all’assoluzione dell’imputato in riforma della condanna di primo grado, giudicando sul medesimo compendio di prove, “deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva”.

Il dictum delle S.U. Troise è richiamato dalla Cassazione in accoglimento del primo motivo di ricorso, giacché la Corte d’appello partenopea pur ritenendo “certamente credibili” le dichiarazioni della persona offesa ha assolto l’imputato operando una arbitraria e incompleta descrizione delle prove assunte nel primo grado di giudizio, valorizzando solo alcune di queste omettendone altre, o squalificandone il valore sulla scorta di “una formulazione assertiva e priva di qualsiasi supporto fattuale”.

Veniamo ora agli aspetti della sentenza che hanno attinto gli aspetti sostanziali del reato e che rappresentano uno degli snodi argomentativi di maggior momento nella elaborazione recente del delitto di maltrattamenti nell’officina della giurisprudenza di legittimità (in particolare della sesta Sezione penale).

Innanzitutto, possiamo notare il richiamo costante delle fonti sovranazionali (in particolare: la CEDAW, adottata dall'assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 e ratificata dall'Italia con la L. 14 marzo 1985, n. 132, con l'art. 16; la CEDU, con gli artt. 3 e 14; la Convenzione di Istanbul, con l'art. 3 e la Direttiva vittime 2012/29/UE) nell’aderire alle quali lo Stato italiano si è vincolato ad approntare strumenti normativi di tutela della “integrità fisica e morale, dalla dignità umana e dall'autodeterminazione della persona” (cfr. 5.3.1. del considerato in diritto). Ad avviso della Corte, ciò costituisce l’oggetto giuridico del reato e il bene giuridico protetto ed è il presupposto logico-giuridico dal quale prende le mosse l’intero impianto motivazionale nella sentenza annotata.

Un secondo aspetto saliente muove dalla critica alla sentenza d’appello che «in pieno contrasto con la disciplina nazionale e sovranazionale in materia di violenza domestica e la consolidata giurisprudenza, di legittimità e della Corte EDU, su questa sviluppatasi, ha ritenuto che i reiterati insulti, le botte, le aggressioni, i danneggiamenti e le minacce subite dalla vittima da parte del convivente, prive di "sistematica sopraffazione", esprimessero una mera abitualità "dei litigi nell'ambito della coppia"».

La Cassazione mette in rilievo la circostanza che il sostrato normativo sovranazionale su cui si fonda l’interpretazione della norma incriminatrice non richiede l’illiceità dei singoli episodi (e così ne conferma, ancora una volta, la natura di reato cd. abituale proprio) e, subito dopo, esplicita i caratteri qualificanti la condotta rilevante ai fini dell’integrazione del fatto tipico (cfr. 5.3.1., quinto capoverso, del considerato in diritto), tra cui non si annovera la “sistematica sopraffazione” della persona offesa: la condotta maltrattante dev’essere valutata in un quadro di insieme e non parcellizzato; i reiterati comportamenti, anche solo minacciati, operanti a diversi livelli (fisico, sessuale, psicologico o economico) nell'ambito di una relazione affettiva, siano volti a ledere la dignità della persona offesa, ad annientarne pensieri ed azioni indipendenti, a limitarne la sfera di libertà ed autodeterminazione, a ferirne l'identità di genere con violenze psicologiche ed umiliazioni (e fa espresso richiamo a precedenti pronunce della stessa sesta Sezione, non massimate).

Un ultimo aspetto concerne le “liti familiari” in rapporto al delitto in questione e, quindi, la loro riconducibilità al tipo criminoso dell’art. 572 c.p. (cfr. 5.3.2. del considerato in diritto). La Corte chiarisce che la linea distintiva tra detti comportamenti sia chiara e marcata: si consuma il delitto di cui all’art. 572 c.p. “quando un soggetto impedisce ad un altro, in modo reiterato, persino di esprimere un proprio autonomo punto di vista se non con la sanzione della violenza o dell'offesa”, mentre ci si troverebbe al cospetto di “liti familiari” (non rientranti nel tipo normativo) “quando le parti sono in posizione paritaria e si confrontano, anche con veemenza, su un piano di riconoscimento e di accettazione reciproca del diritto di ciascuno di esprimere il proprio punto di vista”.

E per cercare di cogliere la differenza, richiama una serie di criteri che, tuttavia, non sembrano in grado di definire con sufficiente chiarezza il confine tra il comportamento penalmente rilevante e quello che, viceversa, sfugge alla sanzione criminale: “vi sia o meno l'ascolto del giudizio e della volontà altrui; che la relazione sia consapevolmente e strutturalmente sbilanciata a favore di uno solo dei due in ragione dell'identità sessuale; che emerga o no un divario di potere fondato su costrutti sociali o culturali connessi ai ruoli di genere tali da creare modelli comportamentali fissi e costanti di prevaricazione; che una parte approfitti di specifiche condizioni soggettive (età, gravidanza, problemi di salute, disabilità) per esercitare anche un controllo coercitivo; che si ripeta o meno, con modalità prestabilite e prevedibili, la soccombenza sempre dello stesso soggetto attraverso offese o umiliazioni o limitazioni della sua libertà personale o di esprimere un proprio autonomo punto di vista; che la sensazione di paura per l'incolumità o di rischio o di controllo riguardi sempre e solo uno dei due anche utilizzando forme ricattatorie o manipolatorie rispetto ai diritti sui figli minorenni della coppia”.

Riferimenti normativi:

Art. 572 c.p.

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