L’avvocato “stabilito”, con poche collaborazioni, non può essere dispensato dalla prova attitudinale

È legittima la decisione del CNF che, nel confermare la decisione del Consiglio dell’Ordine, aveva escluso la sussistenza del requisito richiesto ai fini dell’esonero dalla prova attitudinale dell’avvocato stabilito che si era «limitato a collaborazioni», riferibili a pochi (quattro) procedimenti giudiziari, senza peraltro che fosse emerso con chiarezza quale fosse stato effettivamente il suo apporto, ed essendo rimasto del tutto indimostrato il presupposto che richiede un adeguato numero di clienti ed il correlato «giro d’affari». È quanto stabilito dalla Cassazione con sentenza a Sezioni Unite del 13 dicembre 2023, n. 34961.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:

Conformi:

Cass. civ. sez. Unite n. 28340/2011

Cass. civ. sez. Unite n. 5073/2016

Difformi:

Non si rinvengono precedenti in termini

Il Consiglio Nazionale Forense ha respinto il ricorso presentato dall’Abogado P. G. avverso la decisione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, con la quale era stata rifiutata l’iscrizione nell’Albo ordinario, previa dispensa dalla prova attitudinale di cui all’art. 8, D.Lgs. n. 115/1992, ai sensi dell’art.12 e ss. del D.Lgs. n. 96/2001, su domanda presentata dal G., quale avvocato stabilito o integrato.

In particolare, il CNF, rilevata la funzione, riservata al COA, della dispensa della prova attitudinale nella necessità di apprestare tutela alla funzione giudiziaria in Italia, evitando che possano operare soggetti scarsamente qualificati o all’oscuro delle peculiarità del diritto italiano, con un potere istruttorio, di ampio spettro, di verifica delle attività concretamente svolte in Italia dal professionista, ha evidenziato come, nella specie, il Consiglio dell’Ordine avesse compiuto un’articolata e lunga istruttoria, garantendo il più ampio contraddittorio e una piena esplicazione del diritto di difesa all’interessato (con piena corrispondenza tra i provvedimenti di preavviso di rigetto ed il provvedimento conclusivo di diniego), e avesse correttamente vagliato il requisito richiesto ai fini dell’esonero dalla prova attitudinale, dell’esercizio della professione forense, effettivo, regolare, con il titolo professionale di origine, per un periodo non inferiore a tre anni, avuto riguardo a «durata, frequenza, periodicità e continuità delle prestazioni, nonché al numero dei clienti ed al giro di affari» , rilevando che, nei tre anni previsti dalla normativa (nella specie 2015, 2016 e 2017), il ricorrente si era «limitato a collaborazioni», riferibili a pochi (quattro) procedimenti giudiziari, senza peraltro che fosse emerso con chiarezza quale fosse stato effettivamente il suo apporto, ed era rimasto del tutto indimostrato il presupposto che richiede un adeguato numero di clienti ed il correlato «giro d’affari» realizzato, risultando anche a-specifiche le testimonianze degli avvocati M. e Z. (al più riferibili ad un unico, seppure articolato, contenzioso Iraq/Unicredit).

Avverso la suddetta pronuncia, l’Abogado P. G. propone ricorso per cassazione.

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha richiamato la precedente giurisprudenza di legittimità secondo cui il soggetto munito di equivalente titolo professionale di altro Paese membro, avvalendosi del procedimento di «stabilimento/integrazione» previsto dalla citata direttiva 98/5/CE, volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, può chiedere l'iscrizione nella Sezione speciale dell'Albo italiano del Foro nel quale intende eleggere domicilio professionale in Italia, utilizzando il proprio titolo d'origine (quale, per il ricorrente, quello, spagnolo, di «abogado») e, al termine di un periodo triennale di effettiva attività in Italia (d'intesa con un legale iscritto nell'Albo italiano), può chiedere di essere «integrato» con il titolo di avvocato italiano e l'iscrizione all'Albo ordinario, dimostrando al Consiglio dell'Ordine effettività e regolarità dell'attività svolta in Italia come professionista comunitario stabilito.

Le Sezioni Unite hanno poi affermato il seguente principio di diritto: «L'avvocato stabilito, che abbia acquisito la qualifica professionale in altro Stato membro dell'Unione Europea, può ottenere la dispensa dalla prova attitudinale di cui all'art. 8, D.Lgs. n. 115/1992, se - nel rispetto delle condizioni poste dall'art. 12, D.Lgs. n. 96/2001, di attuazione della direttiva 98/5/CE volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale - abbia esercitato in Italia, in modo effettivo e regolare, la professione con il titolo professionale di origine per almeno tre anni, a decorrere dalla data di iscrizione nella sezione speciale dell'albo degli avvocati, tale presupposto non essendo, invece, integrato ove l'avvocato stabilito abbia esercitato la professione, seppur in buona fede, con il titolo di avvocato invece che con quello professionale di origine».

Nella ricostruzione dell’istituto della dispensa dalla prova attitudinale prevista dall’art.12, D.Lgs. n. 96/2001, si è precisato che:

I) l'art. 12, D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, di attuazione della direttiva 98/5/CE volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale, prevede le condizioni per la dispensa dalla prova attitudinale di cui all'art. 8,D.Lgs. n. 115/1992, stabilendo che l'avvocato stabilito debba avere, per almeno tre anni a decorrere dalla data di iscrizione nella sezione speciale dell'albo degli avvocati, esercitato in Italia «in modo effettivo e regolare» la professione «con il titolo professionale di origine», aggiungendo che per esercizio effettivo e regolare della professione si intende l'esercizio reale dell'attività professionale svolta, senza interruzioni che non siano quelle dovute agli eventi della vita quotidiana;

II) quindi, al fine di conseguire la dispensa suddetta, l'esercizio della professione forense da parte dell'avvocato stabilito deve essere:

a) di durata non inferiore a tre anni scomputando gli eventuali periodi di sospensione; y

b) effettivo e quindi non formale o addirittura fittizio;

c) regolare e quindi nel rispetto della legge forense e del codice deontologico;

d) con il titolo professionale di origine, previa iscrizione nell’albo professionale;

III) l'esercizio della professione di avvocato senza aver conseguito in Italia la relativa abilitazione ovvero l'iscrizione mediante dispensa ai sensi dell'art. 12 cit. integra la condotta materiale del reato, previsto dall'art. 348 c.p., di abusivo esercizio di una professione.

Nel caso di specie, i primi tre motivi di ricorso sono inammissibili, in quanto non rivolti a censurare le ragioni decisorie espresse nella sentenza impugnata. Invero, la sentenza del CNF ha accertato che «il Consiglio dell’Ordine ha proceduto ad una articolata istruttoria, in ossequio ai compiti al medesimo assegnati dalla Legge …non ritenendo integrati i requisiti oggettivi e soggettivi» necessari per ottenere la dispensa, espressamente richiamati unitamente al condiviso parere n. 178/2018 del CNF, che indica come oggetto di valutazione «la durata, frequenza, periodicità e continuità delle prestazioni, nonché il numero dei clienti ed il giro di affari».

I motivi suddetti involgono poi una valutazione degli elementi istruttori acquisiti, riservata al giudice di merito, non sindacabile in questa sede di legittimità a fronte di una logica ed esaustiva motivazione.

Esito

Respinge il ricorso

Riferimenti normativi

Art.8, D.Lgs. n. 115/1992

Art.12 e ss., D.Lgs. n. 96/2001

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