Penale

Diritto all’affettività del detenuto: importante decisione della Corte costituzionale

Con la sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18L. n. 354/1975 nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.

Il caso

Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 ord. penit., nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia.

La vicenda si riferiva al reclamo presentato da un detenuto avverso il diniego oppostogli dalla direzione della Casa circondariale di Terni – ove egli si trova ristretto in esecuzione di pena fino all’aprile 2026 – circa lo svolgimento di colloqui intimi e riservati con la compagna e la figlia in tenera età.

Premesso che il reclamante non potrà verosimilmente fruire di permessi premio, sia perché sprovvisto allo stato di un programma di trattamento, sia perché attinto da sanzioni disciplinari, il giudice a quo denuncia che resterebbe così precluso al detenuto coltivare la relazione affettiva con la compagna in condizioni di intimità, ostandovi la prescrizione del controllo a vista da parte del personale di custodia, inderogabilmente disposto dalla norma censurata quale modalità di svolgimento dei colloqui.

Ad avviso del rimettente, la norma impugnata lederebbe, anzitutto, il diritto alla libera espressione dell’affettività, anche nella componente sessuale, garantito dall’art. 2 Cost.

Sarebbe inoltre violato l’art. 3 Cost., sotto profilo sia della ragionevolezza, per avere il divieto di intimità negli incontri familiari carattere assoluto, sia della parità di trattamento rispetto agli istituti penitenziari minorili, all’interno dei quali l’art. 19 del D.Lgs. n. 121/2018 ha ammesso lo svolgimento di visite prolungate a tutela dell’affettività.

Secondo il rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 13, commi 1 e 4, Cost, perché la forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà determinerebbe una compressione aggiuntiva della libertà personale del detenuto, ingiustificata qualora non ricorrano particolari esigenze di custodia, oltre che una violenza fisica e morale sulla persona del ristretto.

Ancora, una pena caratterizzata dalla sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto sarebbe altresì contraria al senso di umanità e incapace di assolvere alla funzione rieducativa, con conseguente violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. e incide negativamente sulla continuità e sulla saldezza dei legami familiari del detenuto, protette dagli artt. 29, 30 e 31 Cost., compromettendo altresì la salute psicofisica del medesimo, garantita dall’art. 32 Cost.

Ne scaturirebbe la distorsione della pena in un trattamento inumano e degradante, lesivo del diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare, e risulterebbe, infine, violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8CEDU.

La decisione della Corte

Le questioni sono state ritenute fondate, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8CEDU.

La Corte ha evidenziato che lo stato di detenzione può certamente incidere sui termini e sulle modalità di esercizio della libertà di vivere pienamente le relazioni affettive, “ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”.

Di conseguenza, “la questione dell’affettività intramuraria concerne dunque l’individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona”.

La Corte si è ricollegata alla propria sentenza Corte cost. n. 301/2012 , che, pur dichiarando l’inammissibilità di analoga questione, aveva dato atto che il diritto all’affettività del detenuto rappresenta «una esigenza reale e fortemente avvertita», la quale, allo stato della legislazione vigente, trova «una risposta solo parziale» nell’istituto dei permessi premio.

Orbene, proprio “il lungo tempo trascorso” da tale pronuncia “e dalla segnalazione che essa rivolgeva all’attenzione del legislatore”, hanno indotto la Corte a “ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone”.

La Corte ha affermato che “la prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili”, costituisce “una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona”, quindi lesiva dell’art. 3 Cost., “sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie”.

Del resto, la disciplina censurata – ossia l’inderogabilità del controllo a vista sui colloqui familiari - presenta profili di irragionevolezza anche in relazione del riverberarsi delle conseguenze “sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni”.

Si tratta di una restrizione incongrua ove non sia necessaria, ossia “quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza”.

La Corte ha censurato anche la violazione dell’art. 27, comma 3, Cost., in quanto il detenuto – che ben può sposarsi in carcere ma, ove non possa fruire dei permessi premio, è impedito nell’esercizio dell’affettività coniugale – è impossibilitato ad “esprimere una normale affettività con il partner”, sicché la pena, impedendo al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari, “rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa”. E ciò in quanto il sacrificio dell’intimità degli affetti può condurre alla dissoluzione delle relazioni affettive, “con quell’esito di ‘desertificazione affettiva’ che è l’esatto opposto della risocializzazione”.

La Corte ha ritenuto che il carattere assoluto e indiscriminato del divieto di esercizio dell’affettività intramuraria, quale deriva dall’inderogabilità della prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento dei colloqui, pone la norma censurata in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8CEDU., sotto il profilo del difetto di proporzionalità tra tale radicale divieto e le sue, pur legittime, finalità.

Invero, “il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dal paragrafo 1 dell’art. 8CEDU, viene compresso senza che sia verificabile in concreto, agli effetti del successivo paragrafo 2, la necessità della misura restrittiva per esigenze di difesa dell’ordine e prevenzione dei reati”.

La Corte si è mostrata ben consapevole “dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”.

Di qui l’ennesima sollecitazione al legislatore a farsi carico della complessità dei problemi operativi che derivano dalla sentenza in esame.

Nel frattempo che ciò accada, la Corte si è premurata di fornire alcune indicazioni operative, che possono così riassumersi:

- essendo finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, “le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico”;

- è necessario predisporre “luoghi appropriati”: si tratta di “una condizione basilare per l’esercizio dell’affettività intramuraria del detenuto”; la Corte suggerisce che “le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico”, così da garantire la riservatezza dell’incontro, che deve essere sottratto all’osservazione da parte del personale di custodia e degli altri detenuti e di chi con loro colloquia;

- l’incontro, considerata l’eventualità di una declinazione sessuale, deve “svolgersi unicamente con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente con il detenuto stesso”;

- prima di autorizzare il colloquio riservato, il direttore dell’istituto deve verificare non solo l’esistenza di eventuali divieti dell’autorità giudiziaria che impediscano i contatti del detenuto con la persona con la quale il colloquio stesso deve avvenire, ma “la sussistenza del presupposto dello stabile legame affettivo, in particolare l’effettività della pregressa convivenza”;

- devono essere favorite le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio, purchè ciò non dipenda da ragioni ostative anche all’esercizio dell’affettività intramuraria.

La Corte si è poi soffermata sulle regioni ostative ai colloqui intimi, che non abbracciano unicamente «ragioni di sicurezza», ma che devono considerare anche l’«esigenza di mantenimento dell’ordine e della disciplina» e, nei confronti degli imputati, i «fini giudiziari».

Ciò significa, ha chiarato la Corte, che in senso ostativo rileva non solo la pericolosità sociale del detenuto, ma anche “irregolarità di condotta e precedenti disciplinari, in una valutazione complessiva che appartiene in prima battuta all’amministrazione e in secondo luogo al magistrato di sorveglianza, sulla base del modulo ordinario di cui agli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ord. penit.”.

La Corte, inoltre, ha precisato che “l’odierna sentenza non concerne i regimi detentivi speciali”, ossia non riguarda né il regime speciale di detenzione di cui all’art. 41-bisord. penit., né i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare.

Nelle more dell’auspicato intervento del legislatore, la Corte, infine, ha chiamato in causa “l’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti”, perché possa essere data un’ordinata attuazione dell’odierna decisione.

In particolare, “può ipotizzarsi la creazione all’interno degli istituti penitenziari – laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria – di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata”.

La Corte ha perciò dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18L. n. 354/1975 “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”.

Riferimenti normativi:

Art. 18 L. n. 354/1975

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