Società, Banca e Impresa

Non sussiste falso in bilancio in caso di stima errata sulla esigibilità di un credito

Nel reato di false comunicazioni sociali, una stima errata sulle prospettive di esigibilità di un credito ed il mancato ricorso ad una sua tempestiva svalutazione, non necessariamente rendono mendace il bilancio. Infatti, secondo la sentenza n. 1148/2024 della Cassazione penale, ai fini della ritenuta falsità di un enunciato valutativo, è necessario che sussistano criteri di valutazione che siano non solo generalmente accettati, ma anche specifici, certi ed analitici, mentre in presenza di criteri volutamente elastici di valutazione alla luce dei quali determinare tali valori, non può ritenersi sussistente la suddetta falsità.

Orientamenti giurisprudenziali

Conformi:

Cassazione penale, sez. V, 20 settembre 2021, n. 1754

Cassazione penale, sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474

Cassazione penale, sez. V, 09 febbraio 1999, n. 3552

Difformi:

Cassazione penale, sez. V, 12 novembre 2015, n.890

Nella sentenza in commento due componenti del consiglio di amministrazione di una s.r.l. dichiarata fallita, venivano tratti a giudizio e condannati per il delitto di bancarotta fraudolenta, per aver concorso a cagionare il dissesto della società occultando l’entità di alcune perdite, dando una rappresentazione non veritiera delle poste attive inserite in bilancio. Alcuni crediti, infatti, venivano riportati nel bilancio al loro valore nominale, mentre secondo l’accusa, tali crediti si sarebbero dovuti totalmente svalutare, in quanto privi di un effettivo valore di realizzo.

L’art. 2426 c.c., nel dettare i criteri di valutazione, dispone al n. 8 (che ha dato attuazione alla direttiva 2013/34 sui bilanci d’esercizio), che i crediti siano rilevati in bilancio secondo il criterio del costo ammortizzato e del valore di presumibile realizzo. Nella prospettazione accusatoria, proprio la mancata tempestiva svalutazione aveva determinato una falsa rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria della società, distorta poiché attuata dolosamente attraverso una mendace valutazione dei crediti, nella realtà dei fatti non più realizzabili.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte, che ha dichiarato l’intervenuta prescrizione dei reati avendo ritenuto non inammissibili le censure dedotte dai ricorrenti, coglie l’occasione per formulare alcuni interessanti principi. In particolare la pronuncia, che si segnala per la novità con cui rivisita alcuni importanti principi, muove dalla funzione che assume nelle società di capitali il bilancio di esercizio, ovvero quella di misurare gli utili e le perdite dell’impresa e di fornire ai soci ed al mercato tutte le informazioni richieste dall’art. 2423 c.c., nel rispetto dei principi di verità, correttezza e chiarezza e delle regole di redazione poste dal legislatore, secondo il canone di matrice comunitaria della true and fair view e della sua traduzione nostrana all’interno del citato art. 2423 c.c., che impone una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio. Il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario e nota integrativa), è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo, nel quale confluiscono sia dati certi che stimati, come il prezzo di mercato di una merce, nonché dati congetturali, come nel caso delle quote di ammortamento.

Come è noto, il venir meno della precisazione contenutistica e procedimentale, in uno alla mancata riproposizione della soglia di punibilità riguardante le valutazioni estimative nella riformulazione dell’art. 2621 c.c. nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, aveva rivitalizzato l’antico dibattito sul se, nel termine fatti, questa volta “fatti materiali”, fossero da ricomprendere anche le valutazioni. Con la pronuncia a Sezioni Unite del 2016 e la successiva elaborazione giurisprudenziale che, progressivamente, si è venuta a sedimentare in materia di false comunicazioni sociali, la giurisprudenza ha affermato che nel reato di false comunicazioni sociali previsto dall’art. 2621 c.c., il falso valutativo si configura in relazione all’esposizione in bilancio di enunciati valutativi qualora l’agente, pure in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, consapevolmente se ne discosti, senza fornire un’adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni (Cass. pen., sez. un., 31/03/2016, n. 22474).

Nel caso in esame l’accusa aveva ritenuto che il dissesto della società era stato causato dall’occultamento dell’entità delle perdite, attraverso la falsa prospettazione nel bilancio di alcuni crediti, che, sebbene inesigibili, erano stati riportati nel loro valore nominale, mentre per l’accusa si sarebbero dovuti totalmente svalutare, poiché privi di un effettivo valore di realizzo. Su impulso delle persuasive argomentazioni difensive, la Corte richiama le posizioni espresse dalla migliore prassi contabile internazionale (il documento IAS n. 39) e nazionale (il principio contabile n. 15 espresso dall’organismo italiano di contabilità all’epoca dei fatti in contestazione), rappresentando, in particolare, come secondo il principio OIC n. 15, nella versione introdotta all’epoca della contestazione, i crediti devono essere esposti al netto delle svalutazioni, ciò per ricondurli al valore presumibile di realizzazione, posto che il “valore nominale dei crediti in bilancio deve essere rettificato, tramite un fondo di svalutazione appositamente stanziato, per le perdite per inesigibilità che possono ragionevolmente essere previste e che sono inerenti ai saldi dei crediti esposti in bilancio”. Alla luce di tali principi l’indicazione appostata in bilancio dai ricorrenti era stata ritenuta falsa dai giudici di merito.

Si deve ricordare come le regole di redazione del bilancio, sebbene per lo più tratte da principi contabili, sono norme giuridiche e, quindi, cogenti, le quali, spesso, hanno un contenuto di discrezionalità tecnica, nel senso che la norma giuridica rinvia a tali contenuti, così rendendo giuridico il criterio tecnico richiamato e, di conseguenza, rendendo sindacabili le scelte gestorie operate. Sebbene nella redazione del bilancio ci si deve attenere sempre ai principi di correttezza, verità e chiarezza per fornire la rappresentazione contabile dell’elemento considerato, cionondimeno, non può ritenersi sussistente un falso per il solo discostamento dalle regole poste dal legislatore, soprattutto in presenza di una norma elastica, che non impone aprioristicamente rigide classificazioni.

Nella pronuncia in commento la Corte ha, infatti, evidenziato come il fatto che la stima fosse stata fallace e, quindi, “scientificamente errata”, non ne comporta automaticamente la falsità. Richiamando un consolidato orientamento, la sentenza ricorda il rapporto di proporzionalità inversa tra falso valutativo e rigidità dei parametri “normativamente determinati o tecnicamente indiscussi”, di talché la supposta falsità recede a fronte di parametri valutati elastici.

La bancarotta impropria da reato societario si configura, infatti, quando il soggetto agente espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare l’esistenza di perdite e, così, consentire la prosecuzione dell’attività di impresa senza procedere con i necessari interventi di ricapitalizzazione ovvero di liquidazione, accumulando in questo modo ulteriori perdite. Nel caso in esame, la falsità contestata ai ricorrenti era stata riferita alla valutazione di esigibilità dei crediti esposti in bilancio al loro valore nominale che, secondo la ricostruzione accusatoria, si sarebbero dovuti svalutare del tutto, poiché privi di un effettivo valore di realizzo, seguendo il principio per cui la svalutazione del credito da parte di una società, in osservanza del principio di derivazione rafforzata, impone che sia data applicazione al Principio contabile dettati dall’Organismo italiano di contabilità n. 15.

Anche nelle successive formulazioni dei principi contabili nazionali mancano ulteriori specificazioni in quanto, pur individuandosi alcuni “indici” dai quali desumere (non già la certezza, ma) la “probabilità” che un credito abbia perso valore (come le significative difficoltà finanziarie del debitore; eventuali violazioni contrattuali; una diminuzione sensibile nei futuri flussi finanziari stimati; ecc.), si è continuato a parlare di “previsioni di perdita” già manifestatesi oppure “ritenute probabili”. Proprio, quindi, la mancanza di criteri predeterminati, certi e specifici alla luce dei quali determinare il valore del credito non consentiva, secondo la Cassazione, di ritenere falsa la relativa stima, essendo stata svolta, la stessa, alla stregua di quei parametri volutamente elastici ispirati al criterio di “ragionevolezza”, alla luce di quali individuare, in ragione della specificità del caso, le prospettive effettive di esigibilità. Detto altrimenti, la natura volutamente elastica della norma, imposta dalla necessità di ricomprendere al suo interno ipotesi che non tollerano rigide classificazioni, comporta che la mera indicazione dell’assenza di tentativi di recupero e del tempo medio d’incasso in previsione di graduale crescita, non fossero elementi sufficienti per ritenere falsi i relativi dati, anche in mancanza della necessaria indicazione degli eventuali criteri di valutazione ritenuti applicabili e rilevanti nel caso concreto da cui gli imputati si sarebbero discostati, senza, infine, tralasciare che grava pur sempre sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare la sussistenza del reato in tutti i suoi elementi costitutivi.

Riferimenti normativi:

Art. 216, R.D. 16 marzo 1942 n. 267

Art. 223 co. 1 e 2, n. 1, R.D. 16 marzo 1942 n. 267

Art. 2621 c.c.

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