Famiglia, minori e successioni

Separazione: l’accordo che assegna la casa al coniuge fa nascere un diritto reale di abitazione

In materia di separazione dei coniugi, la clausola dell'accordo con cui le parti convengono l'assegnazione della casa coniugale alla moglie e ad uno dei figli non può essere revocata ove l'espressione utilizzata "attribuzione delle cose comuni" e la previsione che la casa sarebbe stata abitata dalla moglie e dal figlio lascino deporre chiaramente per la costituzione di un diritto reale di abitazione. Vieppiù se tale volontà emerga dal comportamento delle parti e dalla loro successiva condotta, nonché dal tempo decorso dal momento della stipula fino alla revoca, mai in precedenza richiesta, nonostante l'incremento di età del figlio. Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. I, ordinanza, 12 marzo 2024, n. 6444.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi:

Cass. n. 4178/2007

Cass. n. 7500/2007

Cass. n. 15604/2007

Cass. n. 22536/2007

Cass. n. 24539/2009

Cass. n. 23142/2014

Cass. n. 14006/2017

Cass. n. 8638/2020

Cass. n. 5061/2021

Cass. Sez. U. 21761/2021

Cass. n. 34861/2022

Difformi:

Non si rilevano precedenti in materia

L’aspetto di interesse di questa decisione riguarda l’applicazione delle regole di ermeneutica contrattuale all’accordo di separazione consensuale omologata dal Tribunale.

Secondo la costante giurisprudenza della Cassazione l'interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell'ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all'art. 1362 c.c. e ss. o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione).

Sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d'interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l'ulteriore conseguenza dell'inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull'asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa.

Parimenti, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni. Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati.

Con specifico riferimento poi alla ricognizione circa la natura definitiva o meno della volontà delle parti, si è ribadito che costituisce accertamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, valutare se l'intesa raggiunta dai contraenti abbia ad oggetto un regolamento definitivo del rapporto ovvero un documento con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, e, nel compiere tale verifica, il giudice può fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 c.c. e ss. per ricostruire la volontà delle parti, tenendo conto sia del loro comune comportamento, anche successivo, sia della disciplina complessiva dalle stesse dettata secondo cui la qualificazione del contratto come preliminare o definitivo si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, il quale, nell'interpretazione del contratto, ove il dato letterale sia equivoco, può ricorrere al criterio di cui all'art. 1362 c.c., comma 2, assegnando rilievo anche all'avvenuta esecuzione delle prestazioni.

Nel caso di specie, la Corte d'appello non ha fatto corretta applicazione al criterio letterale, ex art. 1362 c.c., perché ha ritenuto che la clausola dell'accordo tra le parti ed uno dei figli, maggiorenne ed economicamente autosufficiente, in sede di separazione, rientrasse - con una singolare motivazione: siccome la volontà contrattuale non è chiara, allora deve essere una condizione della separazione - tra le condizioni della separazione consensuale, e che quindi, l'assegnazione della casa coniugale alla moglie e ad uno dei figli potesse essere revocata, ciò nonostante l'espressione "attribuzione delle cose comuni", e la previsione che la casa sarebbe stata abitata dalla moglie e dal figlio, maggiorenne ed economicamente autosufficiente, lasciassero deporre chiaramente per la costituzione di un diritto reale di abitazione. Non ha tenuto conto nemmeno del comportamento delle parti e della loro successiva condotta, nonché del tempo decorso dal momento della stipula fino alla revoca, mai in precedenza richiesta, nonostante l'incremento di età del figlio.

Esito del ricorso

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello in diversa composizione

Riferimenti normativi:

Art. 155 quater c.c.

Art. 337 sexies c.c.

Art. 156 c.c.

Art. 162 c.c.

Art. 1362 c.c.

Art. 710 c.p.c.

Copyright © - Riproduzione riservata

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