Procedura civile

La parte soccombente verso la parte ammessa al patrocinio deve corrispondere le spese in favore dello Stato nella sua interezza

Con la sentenza 19 aprile 2024, n. 64 la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 76 e 111, comma 2, Cost., dell’art. 133, comma 1, del D.Lgs. n. 113/2002, trasfuso nell’art. 133, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, prevede che il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio a spese dello Stato la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato nella sua interezza e non dimidiato, poiché la parte soccombente non può trarre un vantaggio dal fatto che la parte vincitrice sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, né il rapporto con la controparte ai fini della liquidazione delle spese è omologo a quello che si instaura tra la parte e il difensore e senza che il vantaggio in favore dell’erario possa essere valutato in termini atomistici.

Il caso

Con ordinanza del 20 giugno 2023, il Tribunale di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del D.Lgs. n. 113/2002, trasfuso nell’art. 133, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002, a mente del quale il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio a spese dello Stato la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato.

Ad avviso del rimettente, questa disposizione avrebbe violato gli artt. 3, 23, 53, 76 e 111, comma 2, Cost., nella parte in cui, secondo l’interpretazione datane dal diritto vivente, prevede che, in caso di vittoria della lite della parte non abbiente ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, il giudice civile quantifichi le spese processuali dovute a quest’ultimo dal soccombente secondo i criteri ordinari, in misura piena e quindi superiore rispetto a quella dei compensi dovuti dallo Stato stesso al difensore del non abbiente. Compensi, questi, che, ai sensi degli artt. 82, comma 1, e 130, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002, devono essere quantificati in misura non superiore ai valori medi dei parametri volti alla determinazione dei compensi per l’attività difensiva e poi ridotti della metà.

Osservava in limine il giudice a quo che la giurisprudenza civile di legittimità, dopo avere inizialmente espresso un diverso orientamento, si sarebbe ormai assestata – assurgendo a diritto vivente – nel senso di escludere che il giudice debba quantificare le spese dovute allo Stato dalla parte soccombente nella misura, dimidiata, che lo Stato stesso è tenuto a versare al difensore della parte non abbiente vittoriosa.

Questo esito ermeneutico, che impone quindi la quantificazione nella misura normale, lo induceva tuttavia a ritenere che la norma denunciata ledesse, innanzitutto, l’art. 76 Cost. Alla stregua del criterio direttivo dettato dall’art. 7, comma 2, lett. d), della L. n. 50/1999, il testo unico di cui al D.P.R. n. 115/2002 – nel quale, come è noto, sono confluite le disposizioni legislative del D.Lgs. n. 113/2002 e quelle regolamentari del D.P.R. n. 114/2002 – avrebbe dovuto, infatti, provvedere al mero coordinamento formale del previgente assetto legislativo; la disposizione sospettata, invece, avrebbe recato una norma innovativa, nemmeno giustificabile in forza di esigenze di coerenza sistematica. La funzione (indennitaria) della condanna al pagamento delle spese di lite di cui all’art. 91 c.p.c. sarebbe stata, anzi, snaturata.

Secondo il rimettente, l’art. 133, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002 avrebbe leso anche gli artt. 3, 23, 53 e 111, comma 2, Cost. A suo avviso, l’obbligo, in capo alla parte soccombente condannata alle spese, di corrispondere allo Stato una somma maggiore rispetto all’ammontare dei compensi da questo dovuti al difensore della parte non abbiente vittoriosa avrebbe, infatti, natura tributaria, per la differenza tra i due importi.

Tale obbligazione, tuttavia, sarebbe risultata irragionevolmente disancorata da un concreto indice di capacità contributiva, generando, peraltro, un’ingiustificata disparità di trattamento tributario tra i soccombenti, poiché avrebbe gravato su di essi solo se condannati al pagamento delle spese di lite e non anche nel caso in cui il giudice avesse disposto la compensazione delle spese stesse.

Dalla suddetta natura sarebbe disceso, inoltre, che la disposizione sospettata si sarebbe risolta nell’attribuzione all’autorità giudiziaria di una funzione impositiva, così minando la terzietà del giudice, giacché avrebbe dato luogo a una inevitabile confusione tra l’espletamento della funzione giurisdizionale e l’espletamento di un potere, quello impositivo, prettamente riferibile allo Stato Amministrazione.

La decisione della Corte costituzionale

Con la segnalata sentenza la Consulta ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

In ordine alla prima questione di legittimità costituzionale sollevata, con la quale è stata dedotta la violazione dell’art. 76 Cost., la Corte ha precisato che la questione di legittimità costituzionale per l’eccesso di delega non investe la disposizione in sé considerata, ma la norma che il diritto vivente vi avrebbe tratto, attraverso un mutamento di orientamento a partire dal 2018, stabilendo che il giudice civile condanna la parte soccombente senza il limite della coincidenza con i compensi anticipati dall’Erario all’avvocato della parte gratuitamente difesa.

Ebbene, la Corte, premesso che la violazione dell’art. 76 Cost. ben potrebbe manifestarsi anche in riferimento a una norma ricavata dal diritto vivente – dal momento che sarebbe comunque addebitabile al legislatore delegato l’emanazione di una disposizione che, per il suo tenore, legittima un’interpretazione in contrasto con i principi e i criteri direttivi stabiliti dal legislatore delegante –, ha comunque escluso che la norma censurata determini il suddetto contrasto.

Ora, secondo la giurisprudenza di legittimità che si è consolidata dopo il 2018, il giudice civile non deve quantificare in misura uguale le somme dovute, ai sensi dell’art. 133, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002, dal soccombente allo Stato e quelle dovute, ai sensi degli artt. 82, comma 1, e 130, comma 1, del medesimo D.P.R., dallo Stato stesso al difensore del non abbiente.

A tale interpretazione la Corte di cassazione civile è pervenuta, superando il precedente orientamento, per un triplice e convincente ordine di ragioni.

Innanzitutto, in quanto non si vede perché nel processo civile la parte che risulti soccombente nei confronti della parte non abbiente debba essere avvantaggiata (con evidente violazione del principio di uguaglianza) rispetto alle altre parti soccombenti (Cass., n. 22017/2018; nello stesso senso, Cass., n. 29688/2019).

Inoltre, perché il soccombente è tenuto, per definizione, a corrispondere l’importo liquidato dal giudice secondo tariffa, non l’importo che il vincitore deve al proprio difensore, che non costituisce, infatti, parametro per la liquidazione giudiziale (Cass. civ., sez. VI-II, ord. 5/3/2020, n. 6120, e ancora Cass. n. 29688/2019).

Infine, perché la valutazione d’eventuale effetto d’arricchimento dell’Erario non va effettuata in modo atomistico con riguardo alla singola lite. Deve essere invece considerato come la questione – alla luce del parametro costituzionale portato dall’art. 81 Cost. – sia da esaminare avendo riguardo al pubblico servizio – difesa assicurata ai non abbienti – reso dallo Stato (Cass. civ., sez. II, ord. 19/8/2019, n. 21484).

Ricostruite in questi termini la ratio e la portata dell’art. 133, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002, il Giudice delle leggi ha negato che nella norma sia ravvisabile una deviazione dalla natura propria dell’istituto del rimborso delle spese nel giudizio civile e, soprattutto, che tale norma abbia carattere realmente innovativo rispetto al quadro normativo previgente all’esercizio della delega.

In proposito, la Corte ha richiamato il tenore dell’art. 15-sexies, comma 2, lett. a), della L. 30 luglio 1990, n. 217 – come novellata dalla L. 29 marzo 2001, n. 134, che ha esteso il patrocinio a spese dello Stato a tutti i giudizi civili, nonché a quelli amministrativi e agli affari di volontaria giurisdizione –, secondo cui l’ammissione a tale istituto faceva, tra l’altro, sorgere in capo allo Stato il diritto di ripetizione degli onorari dalla parte contraria, condannata nelle spese.

Anche se il termine ripetizione poteva far ipotizzare che questa dovesse essere limitata a quanto in concreto sborsato dallo Stato, ad avviso della Consulta, la disposizione in esame, tuttavia, non imponeva tale conclusione, poiché non prevedeva espressamente che il giudice fosse tenuto a quantificare tali onorari nella misura ridotta della metà dal successivo art. 15-quaterdecies, comma 1, della medesima L. n. 217/1990. Nemmeno l’art. 15-sexiesdecies, comma 1, obbligava a tale coincidenza tra la quantificazione in sede di condanna alle spese e la liquidazione a favore del difensore della parte ammessa al beneficio.

Sicché, ha evidenziato la Corte che, in assenza di una previsione letterale ostativa, l’interpretazione oggi seguita dal diritto vivente, e fondata prevalentemente su argomenti di tipo sistematico, che il rimettente evidentemente non condivide, ben avrebbe potuto svilupparsi anche in riferimento al quadro normativo precedente all’esercizio della delega (sul quale peraltro un diritto vivente non è maturato, data la breve vigenza delle suddette disposizioni).

Non erra il rimettente nel sostenere che mai era stato previsto dalla legge che lo Stato potesse recuperare dalla parte soccombente importi maggiori rispetto a quelli anticipati per compensi all’avvocato del non abbiente; l’argomento, tuttavia, secondo la Corte, non è dirimente: da un lato, infatti, non era espressamente previsto neppure il contrario e, dall’altro, nemmeno era necessaria una previsione espressa per giungere all’interpretazione negletta dal giudice a quo, potendo questa, nel silenzio delle disposizioni, essere ricavata anche allora in via sistematica, per mezzo della normale attività ermeneutica.

Quindi, la Corte ha escluso, in ordine alle ulteriori questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 53 e 111, comma 2, Cost., che possa configurarsi la natura tributaria del prelievo coattivo che subirebbe il soccombente nel caso in cui la controparte vittoriosa sia stata ammessa al patrocinio gratuito.

E tanto perché la regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile attiene alla regola generale victus victori stabilita dall’art. 91, comma 1, c.p.c., secondo cui il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. L’istituto risponde quindi alla logica per cui l’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente; le spese di lite, dunque, devono essere sopportate da chi ha reso necessaria l’attività del giudice.

Nel caso particolare in cui la parte vittoriosa sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la regolamentazione delle spese di lite attiene quindi a un rapporto distinto e autonomo da quello che sorge per effetto dell’ammissione stessa; quest’ultimo, a cui le parti del giudizio rimangono totalmente estranee, si instaura direttamente tra il difensore del beneficiario del patrocinio e lo Stato, mentre il primo si instaura inter partes, tra soccombente e vincitore, con il giudice che applica gli ordinari criteri di liquidazione delle spese, senza che il medesimo soccombente subisca alcuna ulteriore effettiva decurtazione.

Ne ha tratto la Corte che l’istituto della rifusione delle spese è concettualmente estraneo alla logica propria dell’obbligazione tributaria, che implica, invece, una effettiva decurtazione patrimoniale attraverso un prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva.

La Corte ha infine escluso, anche con riguardo al rapporto che lo Stato instaura con il difensore, che le manovre legislative che prevedono l’abbattimento del compenso professionale abbiano attinenza con gli obblighi tributari, trattandosi più semplicemente di una modalità, parzialmente diversa, di determinazione dei compensi medesimi, in funzione di prestazioni di facere.

Sicché, a seguire la indebita commistione dei rapporti che vengono in rilievo, insita nella prospettazione del rimettente, si giungerebbe al paradosso che, mentre l’abbattimento della metà del compenso prevista dall’art. 130, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002 non costituisce un prelievo tributario nei confronti del difensore della parte non abbiente che la subisce, diverrebbe invece tale per la controparte soccombente che viene, invece, condannata secondo gli ordinari criteri di liquidazione delle spese e non subisce alcuna reale decurtazione.

Esito del giudizio di costituzionalità:

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del D.Lgs. 30 maggio 2002, n. 113, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia. (Testo B)», trasfuso nell’art. 133, comma 1, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», sollevata, in riferimento all’art. 23 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del D.Lgs. n. 113/2002, trasfuso nell’art. 133, comma 1, del D.P.R. n. 115/2002, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53, 76 e 111, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Riferimenti normativi:

Art. 133, comma 1, D.P.R. n. 115/2002

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