Lavoro e previdenza sociale

Enti pubblici non economici: la quota onorari degli avvocati non può essere computata ai fini dell’indennità di anzianità

Con la sentenza 26 aprile 2024, n. 73 la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., dell’art. 13 della L. n. 70/1975, nella parte in cui non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici, attribuita dall’art. 26, comma 4, della stessa legge agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell’indennità di anzianità, poiché la “quota onorari” non rientra nella nozione di retribuzione fondamentale, ma costituisce un’attribuzione di carattere accessorio e variabile che si aggiunge alla retribuzione contrattuale.

Il caso

Con ordinanza del 5 aprile 2023, il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13 della L. n. 70/1975 – nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, costituente diritto vivente –, nella parte in cui non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici, attribuita dall’art. 26, comma 4, della stessa legge agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell’indennità di anzianità a costoro spettante.

Alla stregua del principio di diritto enunciato dalla sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 7158/2010, infatti, la nozione di retribuzione che la disposizione censurata pone a base del computo della suddetta indennità coincide con il solo stipendio tabellare e la sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari, con esclusione di ogni altro emolumento accessorio, e non è derogabile dalla fonte regolamentare, né dall’autonomia collettiva.

Ad avviso del rimettente, così restrittivamente interpretata, la previsione censurata si sarebbe contraddistinta, anzitutto, per un difetto di ragionevolezza e di razionalità, in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto avrebbe posto una disciplina irragionevolmente formalistica e non modificabile dalla contrattazione collettiva, nonostante la stessa L. n. 70/1975 riservasse proprio alla fonte negoziale la regolamentazione del trattamento economico di attività.

L’interpretazione dell’art. 13 della L. n. 70/1975 cristallizzata dal diritto vivente avrebbe realizzato, altresì, una ingiustificata disparità di trattamento tra la posizione del dipendente di un ente pubblico non economico – nella specie l’INAIL – appartenente al ruolo professionale legale e quella di un altro dipendente dello stesso ente di livello superiore, come un dirigente, il quale, pur godendo di una retribuzione pari a quella riconosciuta al primo, avesse percepito un’indennità di anzianità più elevata, soltanto perché, non svolgendo funzioni legali, non avrebbe ricevuto una quota delle competenze di cui all’art. 26 della legge citata e «tutto il suo trattamento economico sarebbe consistito in stipendio e scatti».

La disciplina indubbiata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe implicato, infine, la violazione dell’art. 36 Cost., in quanto avrebbe escluso ogni ragionevole proporzione tra l’indennità di anzianità spettante al dipendente parastatale appartenente al ruolo professionale legale e il trattamento economico di attività dallo stesso percepito nel corso e al termine della sua carriera.

La decisione della Corte costituzionale

Con la segnalata sentenza la Consulta ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13 della L. n. 70/1975, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, sotto tutti i profili dedotti.

La Corte ha, anzitutto, escluso che riveli una intrinseca irrazionalità la nozione di stipendio assunta dalla disposizione esaminata a parametro di calcolo dell’indennità di anzianità così come ricostruita dalla giurisprudenza di legittimità, continuando ad ancorare la determinazione dell’indennità di anzianità ad un dato formale del 1975, senza che su di essa possa incidere la contrattazione collettiva, alla quale, tuttavia, nell’attuale contesto, la stessa legge attribuisce il dominio sugli assetti dei trattamenti economici.

Il concetto di stipendio utile alla determinazione dell’indennità di anzianità indicato dal diritto vivente è coerente con il contenuto precettivo e con la ratio della disposizione censurata e concorda con la logica di fondo della L. n. 70/1975 e, più in generale, dell’ordinamento del pubblico impiego non contrattualizzato in cui essa si inscrive.

Parimenti rispondente alle linee sistematiche di tali discipline è l’affermazione di principio secondo la quale la regola espressa dall’art. 13 della L. n. 70/1975 non può essere derogata dalla fonte regolamentare, né dall’autonomia collettiva.

All’uopo, la Corte ha evidenziato che, come risulta dalla relazione illustrativa della proposta di legge, presentata alla Camera dei deputati il 24 giugno 1972, la riforma del parastato si prefiggeva di mettere ordine in un settore caratterizzato da un elevatissimo numero di enti proliferati per effetto di una legislazione episodica e frammentaria, sopprimendo gli enti superflui o che avevano esaurito la loro funzione, unificando quelli che svolgevano in modo non coordinato le stesse funzioni e ristrutturando gli enti che dovevano adeguare l’organizzazione e il personale alle nuove funzioni.

Con riguardo agli enti conservati dal riassetto, il legislatore intendeva ricondurre a principi unitari l’ordinamento del personale da essi dipendente, definendone lo stato giuridico e previdenziale e uniformandone il trattamento retributivo. A tal fine, la L. n. 70/1975 ha ripartito la disciplina del personale tra la fonte legale, la contrattazione collettiva e i regolamenti dei singoli enti, riconoscendo alla prima un ruolo primario – come reso evidente dal tenore dall’art. 1, comma 1, a mente del quale lo stato giuridico e il trattamento economico d’attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge – e lasciando alla fonte regolamentare uno spazio soltanto residuale. Agli accordi sindacali l’art. 26, comma 1, della L. n. 70/1975 ha, invece, demandato la regolamentazione del trattamento economico di attività, cui si aggiunge lo stato giuridico per la parte non prevista dalla stessa legge e non affidata ai regolamenti organici degli enti.

Ha aggiunto la Corte che, per quanto riguarda il trattamento di quiescenza, la disciplina dell’indennità di anzianità è quasi integralmente compendiata nell’art. 13 della L. n. 70/1975, posto che alla fonte regolamentare è rimessa la definizione di soli aspetti marginali – e, in particolare, del riscatto degli anni di servizio ai fini del computo del trattamento –, mentre non viene riconosciuta alcuna competenza alla contrattazione collettiva. Tale scelta legislativa si inscrive coerentemente nella cornice che ha fatto da sfondo alla riforma del 1975, nella quale il processo legislativo che avrebbe condotto alla privatizzazione del pubblico impiego era appena iniziato e, come confermato dalla relazione illustrativa della proposta di legge, ancora radicata era la concezione pubblicistica del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La predeterminazione legale delle modalità di calcolo del trattamento di quiescenza risponde ad esigenze di controllo e di prevedibilità della spesa pubblica, tenuto anche conto che l’indennità di anzianità per i dipendenti del parastato, a differenza degli omologhi emolumenti riconosciuti ai dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli enti territoriali, è a totale carico dell’ente datore di lavoro.

Ciò posto, il Giudice delle leggi ha rilevato che la qualificazione giuridica cristallizzatasi nel diritto vivente valorizza congruamente le specificità connotative del termine “stipendio” impiegato nell’art. 13 della L. n. 70/1975, il quale non può essere considerato come sinonimo di retribuzione, ma deve essere inteso nella sua specifica valenza assunta nel contesto della legge di riforma del parastato e, più in generale, nella disciplina del pubblico impiego. Nonostante il rinvio all’autonomia collettiva, la L. n. 70/1975, nella prospettiva di rendere omogenee le condizioni economiche dei dipendenti di tutti gli enti interessati dal riordino, delinea essa stessa i tratti essenziali della struttura della retribuzione.

In primis, l’art. 17, comma 1, stabilendo che nell’ambito di ciascuna qualifica sono previste, oltre ai normali scatti di anzianità, una o più classi di stipendio che vengono raggiunte, in base all’anzianità effettiva di servizio, dai dipendenti che non abbiano subito alcuna delle sanzioni disciplinari di cui all’articolo 11, enuclea una specifica nozione di stipendio, configurandola come una posta retributiva fissa commisurata alla qualifica del dipendente e alla classe dallo stesso raggiunta in base all’anzianità effettiva di servizio e maggiorata degli scatti di anzianità.

L’art. 26, comma 2, prescrive, poi, che la disciplina collettiva del trattamento economico si uniformi a norme di chiarezza in modo che ai dipendenti degli enti sia assicurata parità di trattamento economico e parità di qualifica indipendentemente dall’amministrazione di appartenenza e in modo da essere finalizzato al perseguimento di una progressiva perequazione delle condizioni giuridiche ed economiche di tutti i dipendenti pubblici.

Al medesimo obiettivo di chiarezza, oltre che di prevedibilità della spesa per il personale, risponde anche il successivo comma 3, il quale vieta l’attribuzione di trattamenti economici accessori ovvero trattamenti integrativi relativi a singoli enti o di categorie di enti, facendo salve le quote di aggiunta di famiglia e l’indennità integrativa speciale nella misura e con le forme vigenti per il personale civile dello Stato.

Secondo la Corte, un’ulteriore eccezione al divieto di riconoscimento di emolumenti accessori si rinviene al comma 4 del medesimo art. 26, il quale riconosce ai dipendenti appartenenti al ruolo professionale legale una quota degli onorari e delle competenze liquidate giudizialmente in favore dell’ente, demandandone la determinazione all’autonomia collettiva.

Nel prosieguo la Corte ha precisato che la nozione di stipendio utile ai fini dell’indennità di anzianità elaborata dal diritto vivente collima anche con le esigenze di uniformità e di razionalizzazione che permeano le previsioni che detta legge dedica al trattamento di quiescenza.

Essa si concilia, in primo luogo, con la tecnica di computo dell’indennità di anzianità configurata dall’art. 13 della L. n. 70/1975. Il trattamento di fine servizio dei dipendenti del parastato, a differenza della buonuscita dei dipendenti civili e militari dello Stato e dell’indennità premio di servizio per il personale degli enti locali, non si basa su una contribuzione del lavoratore e dell’ente datore di lavoro, né sulla sommatoria delle quote di retribuzione annuale e sul loro accantonamento in senso tecnico – come quello che si rinviene nel trattamento di fine rapporto ex art. 2120 c.c. –, ma sulla moltiplicazione tra l’importo dello stipendio complessivo, incrementato, cioè, degli scatti di anzianità e degli emolumenti ad essi similari, in godimento al momento della cessazione dall’impiego e il numero degli anni di servizio prestato.

Tale sistema di calcolo, essendo ancorato, a vantaggio del lavoratore, allo stipendio dell’ultimo anno di servizio (all’atto della cessazione dal servizio), non è compatibile con il conteggio di componenti retributive variabili, posto che tali emolumenti, nell’annualità assunta a parametro, non necessariamente potrebbero essere stati percepiti dall’interessato.

Dopodiché, la Consulta ha dedotto che il carattere tassativo che il diritto vivente attribuisce alla base parametrica dell’indennità di anzianità per i dipendenti del parastato trova riscontro in altre discipline sui trattamenti di fine servizio anteriori alla privatizzazione del pubblico impiego.

In particolare, a mente dell’art. 38 del D.P.R. n. 1032/1973, la base contributiva di calcolo della indennità di buonuscita per i dipendenti statali è costituita dall’80 per cento dello stipendio, paga o retribuzione annui, considerati al lordo, di cui alle leggi concernenti il trattamento economico del personale iscritto al Fondo, nonché da una serie di assegni nominativamente individuati.

A norma dell’art. 11, comma 5, della L. n. 152/1968, l’indennità premio di servizio per il personale degli enti locali va ragguagliata allo stipendio o salario comprensivo degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, spettanti per legge o regolamento e formanti parte integrante ed essenziale dello stipendio stesso.

Ad avviso della Corte, dunque, gli elementi che, alla stregua della disciplina positiva, accomunano i trattamenti di fine servizio sopra indicati all’indennità di anzianità vanno individuati nella predeterminazione legale e nella tassatività delle componenti retributive utili al loro calcolo.

E tanto in assonanza con l’orientamento nomofilattico secondo cui la determinazione della cosiddetta retribuzione-parametro, da porre a base del calcolo di istituti di retribuzione indiretta o differita, è ricavabile esclusivamente dalla specifica disciplina di volta in volta dettata per questi ultimi, disciplina da ritenersi esaustiva, non concorrente ed incompatibile con deroghe provenienti dalla privata autonomia, in quanto espressione di un regime pubblicistico, improntato alla cura di interessi generali, che si correlano all’onere sopportato dalla finanza pubblica (Cass. civ., Sez. lav., sent. 23/8/2004, n. 16582; in senso conforme, Cass. civ., Sez. lav., 21/1/2014, n. 1156 e Cass. civ., Sez. Un., 1/4/1993, n. 3888).

Ed ancora, in tema di indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali, la retribuzione contributiva alla quale si commisura tale trattamento è costituita dai soli emolumenti testualmente considerati dall’art. 11, comma 5, della L. n. 152/1968, la cui elencazione ha carattere tassativo, dovendosi interpretare la dizione “stipendio o salario” in senso restrittivo, alla luce dell’espressa menzione, come componenti di tale voce, degli aumenti periodici di anzianità, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura (Cass. civ., Sez. lav., sent. 8/5/2017, n. 11156).

La Corte ha altresì valorizzato il fatto che la scelta della riforma del parastato di riservare alla legge la configurazione del trattamento di fine servizio ha resistito alla stessa contrattualizzazione del pubblico impiego avviata dal D.Lgs. n. 29/1993.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che, per il trattamento di fine rapporto ex art. 2120 c.c., deve aversi riguardo non agli artt. 2 e 45 del D.Lgs. n. 165/2001, che demandano alla contrattazione collettiva la disciplina sulla retribuzione del lavoro pubblico contrattualizzato, ma, appunto, all’art. 69, il quale per il trattamento di fine rapporto mantiene ferma la disciplina vigente in attesa di un intervento di sistema, e quindi organico, da parte dell’autonomia contrattuale (Cass. civ., sent. n. 5892/2020).

La Corte di cassazione ha anche precisato che, in attesa di tale intervento, la disciplina legislativa in vigore rimane non derogabile, neanche dalla fonte collettiva, nel senso che i contratti collettivi non possono prevedere con disposizioni isolate e frammentarie singole voci retributive da computare nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto e, ove ciò accada, la disposizione negoziale deve essere disapplicata.

In ogni caso, la Corte ha specificato che l’opzione interpretativa sottesa alla disposizione censurata non si espone a rilievi di anacronismo soltanto perché, in un contesto ormai ispirato al paradigma privatistico e caratterizzato dal dominio della fonte collettiva, per i dipendenti assunti nel vigore del regime anteriore alla contrattualizzazione del lavoro pubblico, continua ad applicarsi una disciplina di natura pubblicistica. Infatti, il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi.

Spetta, infatti, all’apprezzamento discrezionale del legislatore, in coerenza con il generale canone di ragionevolezza, delimitare la sfera di applicazione delle normative che si succedono nel tempo, né contrasta di per sé con il principio di eguaglianza il trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie in momenti diversi nel tempo.

Il Giudice delle leggi ha ancora negato il contrasto della normativa censurata con il principio di uguaglianza, stante che gli avvocati dipendenti degli enti pubblici costituiscono un unicum e pertanto non possono essere paragonati ad altre categorie di dipendenti. Al contempo, gli stessi dirigenti, anche nell’assetto delineato dalla L. n. 70/1975, sono sottoposti ad un regime giuridico e ad un trattamento economico specifici, come reso evidente dal contenuto dell’art. 18 della legge citata. Sicché il diverso status giuridico ed economico delle categorie di lavoratori poste a raffronto inficia il giudizio di comparazione richiesto dal rimettente.

Quindi, la Corte ha escluso la dedotta violazione del principio di proporzionalità di cui all’art. 36 Cost.

In proposito, la Corte ha premesso che lo scrutinio sulla conformità di una disciplina sulla retribuzione – e dunque anche sulla retribuzione differita – all’art. 36 Cost. non può essere svolto atomisticamente, dovendo investire il trattamento economico del lavoratore nel suo complesso e non i singoli elementi che lo compongono, né le prestazioni accessorie.

Per l’effetto, se è innegabile che l’indennità di fine servizio debba essere rapportata alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro e, pertanto, trovi nel trattamento economico di attività la sua base parametrica, tuttavia, affinché possano ritenersi rispettati i canoni di sufficienza e di proporzionalità di cui all’art. 36 Cost., non deve sussistere una corrispondenza pedissequa tra la composizione dei due emolumenti, tale per cui ogni singola voce della retribuzione debba essere considerata nel trattamento di quiescenza.

E, inoltre, in tale contesto normativo, spetta alla discrezionalità del legislatore individuare, nel rispetto del principio di eguaglianza e delle garanzie sancite dall’art. 36 Cost., la base retributiva delle singole indennità di fine servizio nonché i modi e la misura delle stesse. In un sistema siffatto, non è, dunque, sufficiente addurre la natura retributiva di un compenso per ritenere che la sua mancata considerazione ai fini del trattamento di fine servizio confligga con la garanzia della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Tale principio deve, invece, ritenersi osservato allorché detto trattamento esprima, in proporzione, il nucleo del profilo retributivo riconosciuto al dipendente, coincidente con il trattamento economico fondamentale.

Tanto premesso, ha osservato la Corte, l’interpretazione nomofilattica, secondo la quale la “quota onorari”, riconosciuta dall’art. 26, comma 4, della L. n. 70/1975 agli avvocati degli enti pubblici non economici, non rientra nella nozione di retribuzione fondamentale, non determina la violazione dell’art. 36 Cost.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, tali competenze costituiscono un’attribuzione di carattere accessorio e variabile che si aggiunge alla retribuzione contrattuale (Cass. civ., Sez. lav., sent. 11/12/2018, n. 31989; Cass. civ., 5/7/2017, n. 16579). Il carattere accessorio dei compensi in esame, come già evidenziato, si ricava dall’art. 26, comma 4, della L. n. 70/1975, nel quale il riconoscimento agli appartenenti al ruolo professionale delle competenze e degli onorari liquidati giudizialmente è oggetto di una previsione speciale e derogatoria del divieto di attribuzione di trattamenti economici accessori sancito, al comma 3, in consonanza con l’obiettivo programmatico di chiarezza e di prevedibilità della spesa per il personale che pervade l’intero testo della riforma del parastato.

Ha pure puntualizzato la Corte che il carattere variabile degli onorari ex art. 26 della L. n. 70/1975 si desume, invece, dallo stesso sistema di erogazione di tale emolumento, il quale è condizionato dall’esito delle controversie in cui è parte l’ente pubblico patrocinato dai funzionari del ruolo professionale. Non si tratta, infatti, di un compenso fisso e predeterminato, ma dipendente dall’elemento aleatorio costituito dal numero delle cause vinte dall’ente e dalle somme che l’ente è riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti. Ai sensi dell’art. 30, comma 2, del D.P.R. 26 maggio 1976, n. 411 – il quale ha recepito il primo accordo sindacale attuativo dell’art. 26, comma 4, della L. n. 70/1975 –, ai suddetti funzionari è, infatti, attribuita una quota delle somme riscosse dall’ente a titolo di competenze di procuratore ed onorari di avvocato.

Per quanto concerne l’INAIL, il regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati, adottato dal Commissario straordinario dell’INAIL con la deliberazione n. 788 del 2003, ha poi previsto che il bilancio dell’Istituto sia munito di un apposito capitolo di spesa, coperto da un fondo specifico che viene alimentato secondo due differenti ipotesi. In un primo caso, di vittoria in giudizio dell’Istituto, le spese legali, poste a carico della controparte e riscosse dallo stesso ente a seguito di sentenza, ordinanza, decreto, rinuncia o transazione, la “quota onorari” è commisurata all’intera parcella professionale, dedotte le spese vive di procedura e le eventuali competenze spettanti ad avvocati esterni. Diversa è l’ipotesi in cui l’Istituto liquida il 50% dei compensi professionali ai propri avvocati, nonostante non abbia riscosso tali compensi o perché è intervenuta una transazione a seguito di sentenza favorevole o perché è stata pronunciata compensazione, anche parziale, delle spese in cause nelle quali l’ente non è rimasto soccombente.

Cosicché, ha continuato la Corte, la natura premiale dei compensi in questione si desume anche dalla correlazione dell’importo degli stessi con il numero delle cause in cui l’ente di riferimento risulti vittorioso e con le somme che lo stesso ente sia riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti. Essi, infatti, sebbene non vengano accordati soltanto ai legali che hanno patrocinato le cause con esito favorevole, ma vengano ripartiti tra tutti gli avvocati in base a criteri predeterminati e in rate costanti, salvo conguaglio, nel loro ammontare complessivo assumono una funzione remunerativa della complessiva produttività degli appartenenti al ruolo professionale legale dell’ente pubblico. Inoltre, detta funzione premiale e incentivante degli onorari è stata riconosciuta da un’apposita disciplina, la quale, pur non trovando applicazione nella fattispecie oggetto del giudizio principale, attesta significativamente l’evoluzione di un profilo funzionale che ha sempre connotato l’istituto in esame.

Il D.L. n. 90/2014, come convertito, all’art. 9, comma 5, ha, infatti, stabilito che i regolamenti dell’Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme recuperate nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto, tra l’altro, della puntualità negli adempimenti processuali.

All’esito, la Corte ha sostenuto che il compenso in questione non può essere ricondotto nel trattamento economico fondamentale, perché non compensa la professionalità media dei soggetti che ne beneficiano, a ciò provvedendo la retribuzione contrattuale corrispondente allo status di pubblico dipendente riconosciuto ai legali degli enti pubblici. Pertanto, gli onorari ex art. 26, comma 4, della L. n. 70/1975non costituiscono la normale retribuzione del patrocinio svolto dai legali del parastato dovuta in aggiunta allo stipendio in ragione della specificità di tale attività.

La difesa in giudizio dell’ente rientra tra i compiti riconducibili ai doveri istituzionali degli avvocati degli enti pubblici e per questo non necessita di un’apposita remunerazione. Ciò che distingue i legali dagli altri dipendenti dell’ente pubblico è, invero, soltanto il possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, la quale, tuttavia, non assume rilevanza sul piano retributivo, ma sotto il diverso profilo dell’osservanza, da parte del legale pubblico dipendente, degli stessi obblighi deontologici dell’avvocato libero professionista e della soggezione al potere disciplinare del Consiglio dell’ordine.

Ad avviso della Consulta, il carattere di retribuzione ordinaria dell’emolumento in esame non può trarsi neppure dalla sua pur significativa entità rispetto alla retribuzione complessiva. Non possono, in proposito, essere trasposte nella fattispecie le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 243/1993 in merito al contrasto con il principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. della mancata inclusione nella base di calcolo dell’indennità di anzianità dell’indennità integrativa speciale e, in particolare, all’incidenza quantitativa di tale componente sulla retribuzione dei dipendenti e quindi del trattamento di fine servizio. Infatti, l’emolumento allora scrutinato dalla Corte non aveva natura accessoria, essendo deputato ad adeguare la stessa retribuzione fondamentale alle variazioni del potere di acquisto della moneta a causa dell’inflazione, tanto che, successivamente alla citata pronuncia costituzionale, è stato inglobato nello stipendio base.

Nel caso in esame, invece, la valorizzazione del dato quantitativo ai fini della qualificazione dell’emolumento in questione si risolverebbe nell’assimilazione di tale posta accessoria alla retribuzione fondamentale in senso proprio, attraverso un apprezzamento della sua sostanza retributiva che, come confermato tanto dalla giurisprudenza di legittimità, quanto da quella amministrativa, confligge con il limite di sistema costituito dalla tassatività e dalla qualificazione legale delle componenti della base di calcolo dei trattamenti di fine servizio soggetti alla legislazione anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego.

Da ultimo, la Corte ha osservato che la qualificazione degli onorari ex art. 26, comma 4, della L. n. 70/1975 in termini di remunerazione ordinaria non si concilia neppure con quanto affermato dalla Corte sulla natura delle cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato.

Queste ultime forme di remunerazione, pur essendo soggette ad una autonoma disciplina, non differiscono, infatti, sotto il profilo morfologico e funzionale, dalle competenze maturate dai dipendenti delle altre avvocature pubbliche in ragione dell’attività difensiva svolta in giudizio, trattandosi pur sempre di una retribuzione accessoria che si aggiunge allo stipendio tabellare e rinviene almeno parte della provvista nelle spese di lite rifuse all’amministrazione in caso di vittoria in giudizio.

La Corte ha, in particolare, osservato che le cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato sono di natura variabile perché dipendenti dalla sorte del contenzioso ed hanno carattere premiale e non intaccano lo stipendio tabellare, che costituisce il nucleo del profilo retributivo della categoria interessata.

Esito del giudizio di costituzionalità:

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13 della L. 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Riferimenti normativi:

Art. 13 L. 20 marzo 1975, n. 70

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