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GDPR: chi diffama deve rimuovere i contenuti dai social

L’ordinanza n. 9068/2024 della Suprema Corte di Cassazione riguarda la responsabilità di una società di produzione televisiva nel limitare la diffusione di materiali video diffamatori. La Corte nel confermare la condanna al risarcimento del danno all’emittente televisiva ha evidenziato che non è stata fornita prova dell’adozione di misure proattive adeguate o dell’attuazione di iniziative verso terzi operatori per mitigare il danno causato dalla distribuzione dei contenuti.

Il fatto

Il fatto trae origine nel 2012, allorquando una dipendente di un istituto sanitario fu sottoposta a un intervento chirurgico classificato come minimamente invasivo. A seguito dell’operazione, una vite utilizzata durante l’intervento chirurgico non fu rimossa al termine della procedura, rimanendo così all’interno dell’organismo della paziente. La scoperta del corpo estraneo si verificò solo successivamente la dipendente della Struttura sanitaria fu costretta a ricorrere a un’ulteriore operazione chirurgica. A seguito dell’evento, la dipendente fu licenziata a causa di gravi incompatibilità con il suo ruolo professionale. Nonostante il giudice di Catania avesse ordinato la reintegrazione della stessa, giudicando il licenziamento ritorsivo, qualche anno più tardi, la dipendente fu nuovamente licenziata per ragioni legate a una riorganizzazione aziendale. L’intera vicenda divenne oggetto di un servizio televisivo trasmesso da un’emittente privata, nell’ambito di un’intervista giornalistica di inchiesta sulla struttura sanitaria e sull’evento verificatosi. In risposta alla diffusione di queste informazioni, la struttura sanitaria avanzò formali richieste di risarcimento danni nei confronti dell’emittente televisiva. L’ente ospedaliero contestava il carattere altamente diffamatorio del racconto giornalistico, sostenendo che il servizio aveva danneggiato ingiustamente la sua reputazione.

La richiesta di risarcimento danni avanzata dalla struttura sanitaria fu accolta dal Tribunale di Catania, il quale riconosceva un risarcimento di 50 mila euro a titolo di danni morali. Inoltre, il Tribunale ordinava all’emittente televisiva di rimuovere tutti i filmati relativi al servizio d’inchiesta dai canali social, come YouTube, che avevano trasmesso la puntata incriminata. La decisione fu confermata anche nel 2022 dalla Corte di Appello, che ribadiva il carattere diffamatorio dell’inchiesta giornalistica e sosteneva la sentenza di primo grado. Avverso tale ultima sentenza, l’emittente televisiva propone ricorso in Cassazione. Tra i principali argomenti del ricorso, l’emittente ha messo in discussione la legittimità dell’ordine di rimozione dei contenuti dalla piattaforma YouTube e dagli altri motori di ricerca. Essa ha sostenuto che tale misura era ingiustificata e non adeguatamente motivata, in quanto il fondamento della condanna si basava sull’articolo 17 del Regolamento UE 679/16 che disciplina il diritto alla cancellazione dei dati personali. Secondo la ricorrente, l’interpretazione e l’applicazione di questo articolo, riguardante specificamente i titolari del trattamento dei dati personali pubblicati, erano state erroneamente utilizzate per giustificare la rimozione dei contenuti mediali e non ancora in vigore quando si è verificato l’evento pregiudizievole.

La decisione della Corte

Nella sentenza in esame, la Suprema Corte stabilisce che sebbene il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali sia stato introdotto successivamente ai fatti in esame, i principi ivi contenuti si riflettono già nella giurisprudenza della Corte di giustizia relativa alla precedente direttiva sulla protezione dei dati dei personali. In questo contesto, la sentenza del 13 maggio 2014, nota come Google vs Spain. Il caso che richiama la natura e l’importanza del diritto alla deindicizzazione, secondo i giudici si rileva come un precedente significativo e sottolinea l’importanza del diritto all’oblio come componente essenziale del diritto alla riservatezza

Il Tribunale di secondo grado, quindi, ha giustamente sottolineato che, indipendentemente dalla capacità diretta della ricorrente di rimuovere i contenuti dai canali esterni, è suo dovere legale e morale attivarsi per richiedere la rimozione o la limitazione dell’accesso ai contenuti ritenuti lesivi, cooperando attivamente con i gestori dei portali internet.

La Suprema Corte ha pertanto evidenziato come non sia sufficiente per la società limitarsi a una posizione di non intervento o di mera opposizione formale alle disposizioni del giudice; è necessario, invece, che essa dimostri di aver intrapreso azioni concrete e misurabili per assicurare che i passaggi richiesti dalla legge e dalle decisioni giudiziarie siano effettivamente implementati. L’interpretazione riflette l’intenzione del legislatore e delle normative di garantire la protezione dei dati personali e la privacy degli individui, evitando che la responsabilità venga elusa attraverso la frammentazione delle piattaforme di diffusione.

Inoltre, la Corte ha ribadito l’importanza di adottare un approccio proattivo e responsabile nel gestire le questioni legali che riguardano la privacy e la diffusione dei dati, particolarmente in un contesto dove la tecnologia e l’accessibilità delle informazioni su Internet possono amplificare rapidamente le conseguenze di qualsiasi informazione ritenuta dannosa o inappropriata.

La Corte, nel valutare il caso presentato, ha osservato che la ricorrente non ha fornito prove sufficienti riguardo all’adozione di misure precauzionali e all’attuazione di iniziative dirette verso i terzi operatori, al fine di limitare il danno derivante dalla diffusione di materiali video che eccedevano i limiti della critica giornalistica legittima. Di conseguenza, è stato ritenuto necessario confermare la decisione impugnata, con una parziale correzione della motivazione. La correzione ha riguardato l’affermazione del principio per cui incombe sulla parte responsabile del contenuto mediatico l’obbligo di dimostrare di aver intrapreso ogni possibile iniziativa per informare e persuadere i terzi che hanno diffuso il materiale dell’illegittimità di tale diffusione, in particolare quando il contenuto è stato valutato negativamente in termini di offesa alla dignità delle persone coinvolte.

Inoltre, la Corte ha sottolineato che tale obbligo di agire nei confronti dei terzi non deve essere considerato un risarcimento specifico eccessivamente oneroso. Infatti, questo tipo di impegno non implica la certezza di ottenere il risultato desiderato dai terzi, ma si configura piuttosto come un’obbligazione di mezzi, non di risultato. Ciò significa che il responsabile del contenuto non è tenuto a garantire la cessazione della diffusione illecita, ma deve dimostrare di aver compiuto ogni azione possibile per tentare di fermare la diffusione.

Riferimenti normativi:

Art. 17 GDPR

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