Corruzione
La corruzione è il reato consistente nel particolare accordo (c.d. pactum sceleris) tra un funzionario pubblico e un soggetto privato, mediante il quale il funzionario accetta dal privato, per un atto relativo alle proprie attribuzioni, un compenso che non gli è dovuto.
Corruzione
La corruzione, disciplinata, dal nostro codice penale, all’interno degli artt. 318-322 c.p., può essere definita come un particolare accordo (c.d. pactum sceleris) tra un funzionario pubblico ed un soggetto privato, mediante il quale il primo accetta dal secondo, per un atto relativo alle proprie attribuzioni, un compenso che non gli è dovuto.
Il reato in commento è plurisoggettivo, o reato a concorso necessario, in quanto ne rispondono sia il corruttore che il corrotto. Si distingue, a tal proposito, una corruzione attiva ed una passiva, a seconda che la si guardi dal punto di vista del corruttore o del corrotto.
Anche dal punto di vista strutturale, il comportamento dei due soggetti del delitto di corruzione è sostanzialmente identico. E’ vero che la legge parla, in riferimento al pubblico ufficiale, di “ricevere” o “accettare”, mentre parla di “dare” o “promettere”, in riferimento al privato: ma, a ben guardare, la differenza è puramente apparente perché un dare o un ricevere esistono sia da una parte che dall’altra. Il pubblico ufficiale riceve la dazione o la promessa e dà in cambio l’atto d’ufficio o contrario ai doveri di ufficio; il privato, da parte sua, riceve l’atto di ufficio o l’atto contrario ai doveri di ufficio e dà in cambio denaro o altra utilità. (VENDITTI, 1962, p. 756).
Il pubblico funzionario che si fa corrompere ed il privato che lo corrompe non commettono reati diversi ma risultano essere compartecipi del medesimo reato, quest’ultimo configurabile solo se sussistono entrambe le condotte convergenti.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, nel delitto di corruzione, che è a concorso necessario ed ha una struttura bilaterale, è ben possibile il concorso eventuale di terzi, sia nel caso in cui il contributo si realizzi nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all'uno o all'altro dei concorrenti necessari, sia nell'ipotesi in cui si risolva in un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra gli autori necessari (Cass. Pen., sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, B. e altro, in Cass. pen., 2006, 3578).
Il delitto di corruzione si configura come reato a duplice schema, principale e sussidiario. Secondo quello principale, il reato viene commesso con due attività, l'accettazione della promessa e il ricevimento della utilità e il momento consumativo coincide con il ricevimento della utilità e, allorché vi siano più dazioni di pagamento, ogni remunerazione integra un fatto-reato e una pluralità di dazioni corrisposte in esecuzione di un unico patto corruttivo configura un delitto continuato.
Secondo lo schema sussidiario, che si realizza quando la promessa non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione della promessa.
La fattispecie appartiene, come suggerito dalla giurisprudenza di legittimità, alla categoria dei reati propri funzionali, perché elemento necessario di tipicità del fatto è che l'atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell'ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto, nel senso che occorre che siano espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata da quest'ultimo, con la conseguenza che non ricorre il delitto di corruzione passiva se l'intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell'accordo illecito non comporti l'attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, e invece sia destinato a incidere nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale (Cass. Pen., sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, B. e altro, in Cass. pen., 2007, 1605).
Il bene giuridico tutelato è da rinvenire nell’interesse della Pubblica Amministrazione all’imparzialità, correttezza e probità dei funzionari pubblici, ed in particolare, che gli atti di ufficio non siano oggetto di mercimonio o di compravendita privata.
La ratio della incriminazione, infatti, è il discredito che tale reato getta sulla categoria dei pubblici funzionari e, quindi, della stessa Pubblica Amministrazione.
Il dato fondamentale comune a tutte le ipotesi di corruzione è il mercimonio dei doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio che viene a compromettere il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione ma, poiché tale mercimonio può avere ad oggetto un comportamento di per sé corrispondente ai doveri di ufficio o contrario ai doveri medesimi, il codice configura due differenti forme di corruzione, propria ed impropria.
3. La corruzione per l’esercizio della funzione
Prima della modifica introdotta dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, l’art. 318 c.p., originariamente intitolato “Corruzione per un atto d’ufficio” (c.d. corruzione impropria) disciplinava il fatto del pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceveva, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli era dovuta, o ne accettava la promessa, punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se il pubblico ufficiale riceveva la retribuzione per un atto d'ufficio da lui già compiuto, la pena era della reclusione fino a un anno.
Per effetto della novella, il nuovo art. 318 c.p., ora rubricato “Corruzione per l’esercizio della funzione”, dispone che “Il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
La riforma ha eliminato il riferimento al compimento di “atti”, spostando l’accento sull’esercizio delle “funzioni o dei poteri” del pubblico funzionario, consentendo la repressione del fenomeno dell’asservimento della pubblica funzione agli interessi privati, laddove la dazione del denaro o di altra utilità non è correlato al compimento o all’omissione o al ritardo di uno specifico atto, ma alla generica attività, ai generici poteri ed alla generica funzione cui il soggetto qualificato è preposto.
Viene meno anche qualsiasi riferimento alla “retribuzione” che presupponeva un rapporto sinallagmatico proporzionato tra le parti del pactum sceleris, laddove alla dazione o alla promessa dell’utilità doveva necessariamente corrispondere una controprestazione rappresentato dall’atto, determinato o determinabile, da parte del soggetto qualificato.
La riforma permette, oggi, di sanzionare penalmente anche i fatti di corruzione impropria susseguente attiva, prima non punibili. Infatti, la nuova formulazione dell’art. 318 c.p., facendo riferimento all’esercizio delle funzioni o dei poteri, e non più allo specifico atto, si pone quale norma incriminatrice generale dei fatti di corruzione.
Preme ricordare però che come insegnato da recente giurisprudenza, non integra il reato di corruzione impropria, secondo la previsione dell'art. 318 c.p., antecedente alla entrata in vigore della legge 11 giugno 2012 n.190, la condotta del pubblico ufficiale consistita in un generico asservimento agli interessi del privato, qualora non siano determinati o determinabili gli atti in concreto posti in essere a fronte della dazione indebita ricevuta (Cass. pen., Sez. VI, 20 settembre 2016, n. 39008).
Come evidenziato dal nuovo art. 320 c.p. (Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio), a seguito dell’intervento riformatore del 2012, le disposizioni degli art. 318 e 319 si applicano anche all’incaricato di un pubblico servizio. In ogni caso, ai sensi del secondo comma, le pene sono ridotte in misura non superiore a un terzo. Si viene, in tal modo, a sostituire l’originaria formulazione della norma, il cui primo comma recitava: “Le disposizioni dell'articolo 319 si applicano anche all'incaricato di un pubblico servizio; quelle di cui all'articolo 318 si applicano anche alla persona incaricata di un pubblico servizio, qualora rivesta la qualità di pubblico impiegato”.
In tal modo viene estesa la portata soggettiva delle norme in commento, potendo essere qualificata come soggetto attivo qualsiasi persona incaricata di un pubblico servizio, indipendentemente dal fatto che costei rivesta o meno la qualità di pubblico impiegato.
4. La corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio
Ai sensi dell’art. 319 c.p., ancora oggi disciplinante la figura della corruzione propria, si prevede la punibilità del pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, con la reclusione da quattro a otto anni (pena così rideterminata dalla L. n. 190/2012).
Scopo dell’incriminazione della corruzione impropria è di evitare il danno che deriva all’amministrazione dalla venalità dei soggetti ad essa preposti, venalità che, anche quando non porta al compimento di atti illegittimi, nuoce alla dignità e al prestigio dell’amministrazione medesima, poiché getta discredito e sospetto sul suo funzionamento. (ANTOLISEI, 2003, 329).
Si parla di corruzione propria nel caso in cui si abbia la percezione di un compenso indebito per il raggiungimento di un certo risultato compatibile con la legge e anche coincidente con quello che si sarebbe potuto raggiungere in mancanza del pagamento (Cass. pen., Sez. VI, 18 febbraio 2016, n. 6677).
Per la sussistenza del reato di corruzione propria non è sufficiente la prova della mera dazione di denaro, ma occorre la dimostrazione della finalizzazione della dazione verso un comportamento contrario ai doveri d'ufficio del soggetto investito di qualifica pubblicistica (Cass. pen., Sez. VI, 20 settembre 2016, n. 39008).
Secondo costante insegnamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, ai fini dell'accertamento del reato di corruzione propria, in ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell'atto contrario ai doveri d'ufficio è stato la causa della prestazione dell'utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente, a tal fine, la mera circostanza dell'avvenuta dazione (Cass. pen., Sez. VI, 7 novembre 2011, n. 5017).
In linea con il dettato dell'art. 319 c.p., è necessario dimostrare non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale, bensì anche la finalizzazione di tale erogazione all'impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri d'ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica.
La prova della dazione indebita di una utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale, essendo necessario valutare tale elemento unitamente ad altre circostanze di fatto acquisite nel processo.
Il delitto di corruzione è ravvisabile anche nel caso di tenuità della somma o dell'utilità, perché la lesione giuridica prodotta dal reato attiene al prestigio e all'interesse della P.A. e prescinde pertanto dalla proporzionalità o dall'equilibrio fra l'atto d'ufficio e la somma o l'utilità corrisposta (Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 1990, Paier, in Giust. pen., 1991, II, 353).
In tema di corruzione, l'accettazione di piccole regalie d'uso può escludere soltanto la configurabilità del reato di corruzione per il compimento di un atto d'ufficio, giammai quello di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, poiché solo nel primo caso è possibile ritenere che il piccolo donativo di cortesia non abbia avuto influenza nella formazione dell'atto.
Nella struttura del delitto di corruzione, dato che fra l'illecito compenso e l'atto amministrativo "venduto" deve intercorrere un rapporto di sinallagmaticità e quindi una certa proporzione, l'atto o il comportamento amministrativo, oggetto dell'illecito accordo, se non individuato ab origine deve essere almeno individuabile; va precisato peraltro che, poiché la individuazione ben può essere limitata al genere di atti da compiere, detta individuazione si realizza anche quando la controprestazione della promessa o della dazione di denaro o di altra utilità sia integrata da un generico comportamento del pubblico ufficiale, purché rientrante nella competenza o nella sfera di intervento dello stesso e suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli, non preventivamente fissati o programmati, ma appartenenti pur sempre al genus previsto, giacché anche in tal caso la consegna di denaro al pubblico ufficiale deve ritenersi eseguita in ragione delle funzioni dello stesso e per retribuirne i favori (Cass. pen., Sez. VI, 19 novembre 1997, n. 3444, Cunetto, in Cass. pen., 1999, 3131).
Secondo quanto disposto dall’art. 319-bis c.p., non toccato dalla riforma del 2012, la pena è aumentata se il fatto di cui all'art. 319 c.p. ha per oggetto il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l'amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene.
I complessi rapporti tra le due ipotesi di corruzione presi in esame nelle pagine che precedono sono stati recentemente definiti dalla giurisprudenza di legittimità con una importante pronuncia che pone in essere il seguente principio di diritto: “Lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura l'unico reato, permanente, previsto dall'art. 319 c.p., rimanendo assorbita la meno grave fattispecie di cui al precedente art. 318” (Cass. pen., Sez. VI, 27 settembre 2016, n. 40237).
In merito al rapporto tra la figura di cui all'art. 318 e quella di cui all'art. 319 c.p., ripercorrendo i tratti fondamentali dei due istituti, l'orientamento giurisprudenziale dominante ritiene che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari a doveri d'ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, integri il reato di cui all'art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione ex art. 318 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883), con la precisazione che costituiscono atti contrari ai doveri d'ufficio non solo quelli illeciti o illegittimi, ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, dall'osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità.
Si è affermato in passato che l'art. 318 c.p. ha natura di reato eventualmente permanente se le dazioni indebite sono plurime e trovano la loro ratio nel fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica; posto che sicuramente l'accettazione della promessa della dazione di denaro o di altra utilità è elemento idoneo ad integrare la consumazione del reato, può succedere che la condotta illecita non si fermi a tale stadio e prosegua mediante l'effettiva ricezione di plurime dazioni indebite provenienti dal privato corruttore, onde non si avranno tanti reati quante sono le dazioni intervenute, ma un unico ed unitario reato, nel quale la prima dazione individua il momento iniziale della consumazione e l'ultima coinciderà con quello terminale.
Tali considerazioni, secondo i giudici di legittimità, valgono anche per la corruzione propria; nel caso in cui la vendita della funzione, anziché essere circoscritta alla sola commissione di atti conformi ai doveri d'ufficio contempli anche la consumazione di atti contrari ai suddetti doveri, si realizza una forma di progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano ed elementi esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente.
La giurisprudenza di legittimità si è espressa più volte in tema di corruzione anche al fine di distinguere tale fattispecie con altre ad essa affini, delineando le condotte necessarie per poter delineare correttamente il delitto.
Per distinguere il reato di corruzione da quello di induzione indebita a dare o promettere utilità, l'iniziativa assunta dal pubblico ufficiale, pur potendo costituire un indice sintomatico dell'induzione, non assume una valenza decisiva ai fini dell'esclusione della fattispecie di corruzione, in quanto il requisito che caratterizza l'induzione indebita è la condotta prevaricatrice del funzionario pubblico, cui consegue una condizione di soggezione psicologica del privato (Cass. pen., Sez. VI, 13 ottobre 2016, n. 52321).
Ancora, il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenzia dalla corruzione, in quanto nel primo il pubblico funzionario pone in essere una condotta di prevaricazione, che può derivare anche dallo squilibrio di posizione tra il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio ed il privato e l'indotto accede alla illecita pattuizione condizionato dal timore di subire un pregiudizio in conseguenza dell'esercizio dei poteri pubblicistici, mentre nel reato di corruzione le parti agiscono in posizione di parità e il privato si determina al pagamento per mero calcolo utilitaristico e non per timore (Cass. pen., Sez. VI, 6 ottobre 2016, n. 53436).
5. L’istigazione alla corruzione
L’originaria formulazione dell’art. 322 c.p. disponeva che chiunque offriva o prometteva denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio che rivestiva la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto del suo ufficio, soggiaceva, qualora l'offerta o la promessa non fosse accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell'articolo 318, ridotta di un terzo.
Ai sensi del secondo comma, la pena di cui al primo comma si applicava al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che rivestiva la qualità di pubblico impiegato che sollecitava una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall'articolo 318.
A seguito dell’entrata in vigore della legge 190/2012, il nuovo art. 322 c.p. recita: “Chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell'articolo 318, ridotta di un terzo.
Se l'offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell'articolo 319, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall'articolo 319”.
Con il termine offerta si intende l’effettiva e spontanea messa a disposizione di denaro o altra utilità, mentre la promessa consiste nell’impegno ad una prestazione futura. Per l’integrazione del reato di istigazione alla corruzione è sufficiente la semplice offerta o promessa, purché sia caratterizzata da adeguata serietà e sia in grado di turbare psicologicamente il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio), sì che sorga il pericolo che lo stesso accetti l'offerta o la promessa: non è necessario perciò che l'offerta abbia una giustificazione, né che sia specificata l'utilità promessa, né quantificata la somma di denaro, essendo sufficiente la prospettazione da parte dell'agente, dello scambio illecito.
Secondo la disciplina vigente, l’istigazione alla corruzione è una fattispecie autonoma di delitto consumato e si configura come reato di mera condotta, per la cui consumazione si richiede che il colpevole agisca allo scopo di trarre una utilità o di conseguire una controprestazione dal comportamento omissivo o commissivo del pubblico ufficiale, indipendentemente dal successivo verificarsi o meno del fine cui è preordinata la istigazione.
6. La corruzione in atti giudiziari (cenni)
Secondo quanto disposto dall’art. 319-ter c.p., per effetto delle modifiche intervenute a seguito della L. n. 190/2012, qualora i fatti indicati negli artt. 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni.
Se dal fatto deriva l'ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni; se deriva l'ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all'ergastolo, la pena è della reclusione da sei a venti anni.
La fattispecie incriminatrice di cui all'art. 319-ter c.p., diretta a punire la corruzione in atti giudiziari, costituisce un reato autonomo e non una circostanza aggravante dei reati di corruzione impropria e propria previsti dai precedenti artt. 318 e 319 c.p.
In merito all’elemento oggettivo del reato, appare problematica la definizione del concetto di atto giudiziario: secondo una prima impostazione, infatti, con tale termine possono essere considerati solo gli atti costituenti un diretto esercizio dell’attività giudiziaria, ovvero esclusivamente quelli provenienti da magistrati o da loro collaboratori mentre, secondo altro orientamento, si ritiene che qualsiasi atto che possa influire sul processo, sempre che compiuto da un soggetto qualificato, possa essere ricondotto all’interno della fattispecie. A parere di chi scrive, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 319-ter c.p., è "atto giudiziario" l'atto funzionale ad un procedimento giudiziario, sicché rientra nello stesso anche la deposizione testimoniale resa nell'ambito di un processo penale.
Per parte di un processo civile, e amministrativo dobbiamo intendere la persona fisica o giuridica che abbia proposto o contro la quale sia stato proposta, una domanda giudiziale, mentre è parte in un processo penale l’imputato, l’indagato, il pubblico ministero, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, il responsabile civile, la parte civile, la persona offesa e l’ente nel cui interesse o a vantaggio del quale il delitto è stato commesso.
Il reato di corruzione in atti giudiziari è ipotizzabile solo se l'atto o il comportamento oggetto di mercimonio rientri nelle competenze o nella sfera di influenza dell'ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto, nel senso che deve essere espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione da costui esercitata.
Restano invece escluse le ipotesi in cui il pubblico ufficiale prometta e ponga eventualmente in essere il suo intervento prezzolato, avvalendosi della sua qualità, dell'autorevolezza e del prestigio che gli derivano dalla carica ricoperta, senza che detto intervento comporti l'attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o sia in qualche maniera a questi collegabile, ma sia destinato – in tesi – a incidere nella sfera di attribuzione di pubblici ufficiali terzi, rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale, agendo in tal caso il pubblico ufficiale come extraneus e non come intraneus (Cass. pen., Sez. VI, 20 giugno 2007, n. 25418, G., in Guida dir., 2007, f. 31, 68).
Per approfondimenti si rinvia alla voce AltalexPedia Corruzione in atti giudiziari.
7. Induzione indebita a dare o promettere utilità (cenni)
Ai sensi dell’art. 319-quater c.p., introdotto anch'esso dalla L. n.190/2012, si prevede che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni”.
Il secondo comma dispone che “Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”.
Tale fattispecie, dunque, richiama il reato - ora eliminato dalla c.d. legge anticorruzione - di “concussione per induzione”, ponendosi in una posizione intermedia tra la concussione e la corruzione. Ed invero, il reato in commento si differenzia dalla concussione sia per quanto attiene il soggetto attivo, che può essere, oltre al pubblico ufficiale, anche l'incaricato di pubblico servizio, sia per quanto attiene alle modalità per ottenere o farsi promettere il denaro o altra utilità, che nell'ipotesi criminosa in questione, consiste nella sola induzione, che per la prevista punibilità anche del soggetto che dà o promette denaro o altra utilità.
Rientra invece nell'induzione ai sensi dell’art. 319-quater c.p. la condotta del pubblico ufficiale che prospetti conseguenze sfavorevoli derivanti dalla applicazione della legge per ottenere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità. In questo caso è punibile anche il soggetto indotto che mira ad un risultato illegittimo a lui favorevole.
La condotta di "induzione" richiesta per la configurazione del delitto di "induzione indebita a dare o promettere utilità" di cui all'art. 319-quater c.p., si realizza nel caso in cui il comportamento del pubblico ufficiale sia caratterizzato da un "abuso di poteri o di qualità" che valga a esercitare una pressione o persuasione psicologica nei confronti della persona cui sia rivolta la richiesta indebita di dare o promettere denaro o altra utilità, sempre che colui che dà o promette abbia la consapevolezza che tali utilità non siano dovute.
Ai sensi dell’art. 322-bis c.p., il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità si considererà integrato anche se commesso da membri degli organi delle Comunità europee e da funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri.
8. Il traffico di influenze illecite (cenni)
La L. n.190/2012 introduce, all’interno del codice penale, un nuovo art. 346-bis, rubricato “Traffico di influenze illecite”, ai sensi del quale si prevede la punibilità, con la pena della reclusione da uno a tre anni, di chiunque, fuori del caso di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319 e 319-ter c.p., sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita, ovvero per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio.
Il medesimo trattamento sanzionatorio si applica a chi, indebitamente, dia o prometta denaro o altro vantaggio patrimoniale.
La pena è aumentata, ai sensi del terzo comma, se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio. La pena è, altresì, aumentata se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie mentre, se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita.
Scopo della norma è quello di contrastare le attività di mediazione illecite poste in essere da soggetti in cambio della dazione o della promessa indebita di denaro o altro vantaggio patrimoniale.
Si tratta di una forma di tutela anticipata, contemplando condotte preliminari rispetto a quelle di cui agli artt. 318, 319 e 319-ter c.p.
Il delitto richiede lo sfruttamento di relazioni esistenti con un pubblico funzionario, da parte di un soggetto che indebitamente si faccia dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della propria mediazione illecita, ovvero per remunerare il pubblico funzionario medesimo.
La norma, nel fare riferimento alle “relazioni esistenti”, esclude la possibilità di ricondurre nell’ambito di applicazione della fattispecie i casi nei quali la capacità del mediatore di influire sul soggetto pubblico sia solo apparente.
Per approfondimenti si rinvia alla voce AltalexPedia Traffico di influenze illecite.
L’art. 2635 c.c. è la disposizione dedicata alla corruzione nel settore privato: rubricato come “Corruzione tra privati” dispone, nella sua originaria formulazione, che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando un nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.
Ai sensi del secondo comma, se il fatto è commesso da un soggetto sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui sopra, la pena è della reclusione fino a un anno e sei mesi. Il medesimo trattamento sanzionatorio è applicato a chi dia o prometta denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e secondo comma.
Le pene sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’art. 116 del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 e successive modificazioni (quarto comma).
In merito ai soggetti attivi del reato si registra una estensione anche a chi sia sottoposto alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti indicati nel primo comma.
Rispetto alla versione previgente, la nuova formulazione della norma individua il contenuto dell’oggetto della dazione nell’utilità e nel denaro, individua anche il “terzo” quale soggetto destinatario della dazione o della promessa e prevede che gli atti possano essere commessi od omessi anche in violazione degli obblighi di fedeltà e non più limitatamente in violazione degli obblighi inerenti all’ufficio.
La norma configura un reato di danno, subordinando l’applicabilità della sanzione penale al verificarsi di un nocumento alla società, il quale deve derivare dalla commissione o dall’omissione di un atto in violazione degli obblighi d’ufficio.
Sul tema è stato recentemente pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo 15 marzo 2017, n. 38, recante “Attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato, con il quale sono state introdotte rilevanti novità in tema di corruzione tra privati, quali, la riformulazione del delitto di corruzione tra privati di cui all'art. 2635 c.c., l'introduzione di una nuova fattispecie di istigazione alla corruzione tra privati (art. 2635-bis c.c.), la previsione di pene accessorie per entrambi i reati, nonché la modifica delle sanzioni di cui al D.Lgs. n. 231/2001, in tema di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.
La nuova formulazione della fattispecie prevista dall'art. 2635 c.c. è la seguente: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto é commesso da chi nell'ambito organizzativo della società o dell'ente privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo.
Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.
Chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, é punito con le pene ivi previste.
Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.
Fermo quanto previsto dall'articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte”.
Rispetto alla previsione attuale resta invariato il trattamento sanzionatorio (reclusione da 1 a 3 anni) ma cambia la condotta tipica del reato, infatti ora, a seguito di dazione o promessa di denaro o altra utilità per é o per altri, è punito il compimento o l'omissione di atti, in violazione degli obblighi inerenti l'ufficio o degli obblighi di fedeltà, con conseguente danno per la società.
La condotta consiste nel sollecitare o ricevere, anche per interposta persona, per se' o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o accettarne la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà.
La nuova fattispecie sembra dunque costruita in termini di reato di mera condotta, senza cioè la previsione di un evento di danno.
Il nuovo art. 2635-bis introduce una fattispecie, anch'essa procedibile a querela di parte, che si articola in due ipotesi: a) offerta o promessa di denaro o altra utilità non dovuti ai soggetti apicali o aventi funzione direttive in società o enti privati finalizzata al compimento o alla omissione di un atto in violazione degli obblighi inerenti all'ufficio o degli obblighi di fedeltà, quando la l'offerta o la promessa non sia accettata (comma 1); b) sollecitare per sé o per altri, anche per interposta persona, una promessa o dazione di denaro o di altra utilità, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, qualora la sollecitazione non sia accettata (comma 2).
In entrambi i casi si applicano le pene previste per la corruzione tra privati, ridotte di un terzo.
Infine, il nuovo art. 2635-ter prevede, in caso di condanna per il reato di corruzione tra privati, l'interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese nei confronti di chi abbia già riportato una precedente condanna per il medesimo reato o per l'istigazione di cui al comma 2 dell'art. 2635-bis.
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Oltre a quanto rilevato in precedenza, altre importanti novità sono state introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, in vigore dal 28 novembre 2012, con la quale si prevedono, tra gli altri, tutta una serie di adempimenti a carico della Pubblica Amministrazione.
Innanzitutto viene individuata la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (c.d. CIVIT), come ente nazionale anticorruzione, con compiti consultivi e di vigilanza.
Il Segretario Comunale o Provinciale costituisce il soggetto responsabile della prevenzione della corruzione, salvo una differente e motivata deliberazione. Tale soggetto deve provvedere alla verifica dell’efficace attuazione del piano triennale di prevenzione della corruzione e della sua idoneità, alla proposizione della modifica dello stesso quando siano accertate significative violazioni delle prescrizioni, nonché nel caso di mutamenti nell’organizzazione o nell’attività della amministrazione, alla verifica dell’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è elevato il rischio che siano posti in essere atti di corruzione e alla individuazione del personale da inserire nei programmi di formazione.
La commissione di un reato di corruzione all’interno della pubblica amministrazione, che sia accertato con sentenza passata in giudicato, fa sì che il responsabile risponda del mancato raggiungimento degli obiettivi e comporta, a carico del medesimo, una sanzione disciplinare che non può essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi. Sempre sul piano disciplinare, il responsabile risponde anche nel caso di ripetute violazioni sulle misure di prevenzione previste dal piano triennale.
Il responsabile si libera solo se dimostra di aver predisposto, antecedentemente alla commissione del fatto, di un Piano triennale, di aver osservato le prescrizioni di legge e di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del Piano medesimo.
Il Piano triennale di prevenzione della corruzione, approvato dall’organo di indirizzo politico, su proposta del responsabile, deve essere adottato entro il 31 gennaio di ogni anno e deve essere trasmesso al Dipartimento della funzione pubblica. Questo deve: a) individuare le attività, nell’ambito delle quali sia maggiormente elevato il rischio di corruzione, raccogliendo eventualmente anche le proposte dei dirigenti; b) prevedere meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione; c) prevedere obblighi di informazione nei confronti del responsabile; d) monitorare, nei termini previsti dalla legge o dai regolamenti, per la conclusione dei procedimenti; e) monitorare i rapporti intercorrenti tra la pubblica amministrazione ed i soggetti esterni che con essa stipulino contratti o che siano interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi economici di qualsiasi genere, verificando la sussistenza di rapporti di parentela o affinità tra i titolari, amministratori, soci e dipendenti degli stessi soggetti e i dipendenti dell’amministrazione.
I soggetti che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi, non possono essere assegnati, anche con funzioni direttive, agli uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, all’acquisizione di beni, servizi e forniture, nonché alla concessione o all’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati, e non possono fare parte delle commissioni per la scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, per la concessione o l’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché per l’attribuzione di vantaggi economici di qualsiasi genere.
Una particolare tutela viene assegnata al dipendente pubblico che segnali illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro: è previsto, infatti, che costui non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
In secondo luogo, nel caso di procedimento disciplinare, è previsto che l’identità del dipendente non possa essere rivelata, senza il consenso di quest’ultimo, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti ed ulteriori rispetto alla segnalazione. Nel caso in cui vi siano misure discriminatorie, queste debbono essere segnalate al Dipartimento della funzione pubblica.
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