Responsabilità civile

Buona fede

AltalexPedia, voce agg. al 24/02/2014

La nozione di buona fede deve tenere conto dell'accezione soggettiva in virtù della quale con tale locuzione si fa riferimento allo stato psicologico della parte che “ignora” di ledere un altrui diritto nonchè dell'accezione oggettiva che impone alle parti  di modellare il loro comportamento alla regole di lealtà, onesta e correttezza (art. 1175 c.c.)

Buona fede

di Carmelo Di Luca Cardillo

1. Nozioni e carattere

2. Teorie interpretative

3. Evoluzione giurisprudenziale

4. Casistica

1. Nozioni e carattere

A mente dell’art. 1175 c.c. sia il creditore che il debitore per tutta la durata del rapporto obbligatorio devono comportarsi secondo correttezza.

Detta disposizione si collega – in materia contrattuale – all’art. 1375 c.c. che prevede l’obbligo per il soggetto chiamato a dare esecuzione al rapporto contrattuale di comportarsi secondo buona fede, all’art. 1336 c.c. in tema di interpretazione del contratto ed all’art. 1337 c.c. quale comportamento che le parti devono tenere durante lo svolgimento delle trattative. 

Il concetto di buona fede sopra descritto fa riferimento al significato di buona fede in senso oggettivo cui si contrappone invece l’accezione di buona fede in senso soggettivo.

Nel significato soggettivo la buona fede fa riferimento allo stato psicologico della parte che “ignora” di ledere un altrui diritto (ed è a questa nozione cui il legislatore fa riferimento nelle disposizioni in materia di possesso – art. 1147 c.c. – e di invalidità contrattuale ove si fanno salvi i diritti dei terzi acquistati in buona fede), mentre, nel significato oggettivo, la buona fede impone alle parti (quale regola di condotta ulteriore rispetto a quelle oggetto di specifica negoziazione) di modellare il loro comportamento alla regole di lealtà, onesta e correttezza così da porre in essere una condotta che, non determinando un “apprezzabile sacrificio” personale, assicuri comunque al contraente di poter adempiere correttamente alla propria obbligazione. Concepita in questi termini dunque, la buona fede si sostanzia nell'obbligo per i contraenti di mantenere un comportamento oggettivamente ispirato a lealtà e correttezza, in tutti i momenti fisiologici dell'atto negoziale.

Una specificazione di tale principio può aversi con riferimento all’art. 1206 c.c. ove l’interesse del debitore a liberarsi dall’obbligazione è tutelato individuando in capo al creditore l’obbligo di cooperare al fine di rendere possibile il comportamento solutorio.

L’interpretazione “evolutiva” della nozione oggettiva di buona fede e correttezza (termini che, in questa accezione, si pongono come sinonimi perché aspetti della medesima clausola generale) trova spunto nel “principio generale di solidarietà sociale” di cui all’art. 2 Cost. ed ha portato a dare origine a due diverse concezioni.

2. Teorie interpretative

In una prima accezione la buona fede è stata legata alla fase dinamica del rapporto obbligatorio (c.d. “teoria valutativa”) con ciò offrendo un criterio di valutazione del comportamento che le parti hanno tenuto nello svolgimento del rapporto negoziale. Sotto questo profilo la buona fede opera quindi solo in una fase successiva ed il generico obbligo di operare in modo corretto, secondo i dettami della clausola generale sopra specificati, serve ex post (in una fase successiva al nascere del rapporto) solo quale misura di “secondo grado” per verificare il comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto.

Sotto un diverso profilo invece (ed è questa la c.d. teoria “precettiva”) la buona fede e la correttezza operano sin dalla nascita del rapporto obbligatorio implicando ed imponendo alle parti il rispetto di ulteriori obblighi e regole (assistite da autonome azioni di adempimento e risarcitorie) da tenere al di là di quelle espressamente assunte e programmate con il negozio giuridico posto in essere.

Le ulteriori regole di condotta cui sono tenute le parti (in virtù della richiamata teoria precettiva) rientrano comunque all’interno di quelle condotte che non assurgono a criterio di valutazione di validità del negozio. Difatti, le regole di validità sono considerate tipiche (in virtù e nel rispetto del principio di certezza rapporti giuridici) e portano alla declaratoria di invalidità (azione di nullità) del rapporto negoziale perché non coerente con lo schema legale tipico posto in essere dal legislatore a tutela dei rapporti giuridici. Le regole di condotta poste in essere dalla visione precettiva in tema di buona fede, possono invece portare solo ad un giudizio di responsabilità sulla condotta (azioni di risarcimento) non coerente rispetto agli interessi perseguiti dalle parti.

3. Evoluzione giurisprudenziale

La giurisprudenza, sul punto, respingendo l’orientamento dottrinale che segnava il passaggio della buona fede da regola di condotta a regola di validità idonea ad invalidare il contratto non in linea ed in contrasto con la buona fede (ex art. 1418, co. 1 c.c.), ha tenuto ferma tale distinzione considerando la buona fede sempre e solo quale regola di condotta.   

Infatti, in giurisprudenza l’unico aspetto che ha segnato una evoluzione è stato l’ambito ed i confini (per come detto innanzi) della buona fede quale parametro di valutazione della condotta delle parti contrattuali.

Ed invero, mentre la più risalente giurisprudenza (fino agli anni 80) riteneva che la buona fede operasse solo nella fase esecutiva del rapporto come regola di valutazione a posteriori  delle condotte dei contraenti (mantenendo ferma la distinzione tra gli articoli 1374 c.c. e 1375 c.c. perché afferenti ad ambiti diversi), oggi si afferma che il richiamo alla legge contenuto nell’art. 1374 c.c. si estende anche alla buona fede attraverso la previsione di cui all’art. 1375 c.c. ed all’altra norma di cui all’art. 1175 c.c.
Opera però in argomento una precisazione data dal fatto che l’integrazione in discorso non è del tutto assimilabile a quella operata con il richiamo a precise previsioni normative perché, nel caso di specie, si è in presenza di una “clausola generale” che presuppone un’operazione di integrazione posta invece in essere dal giudice (c.d. “operazione integrativa giudiziale”, fondata sull’applicazione di criteri ricavabili dal contesto normativo).

Il nuovo orientamento giurisprudenziale interpretando i principi di correttezza e buona fede intesi alla luce dei principi costituzionali di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. colloca l’autonomia privata non più come un valore a sé, ma come mezzo (con chiara evoluzione del principio individualistico a quello solidaristico) per perseguire interessi delle parti che devono essere conformi ai valori di fondo cui si ispira l’ordinamento.

In tale prospettiva, quindi, i principi di correttezza e buona fede interpretati in senso costituzionalmente orientato consentono al giudice di intervenire sempre più incisivamente sul governo del contratto, sindacando l’assetto degli interessi definito dai contraenti.

Tale evoluzione e l’attribuzione di fatto della funzione integrativa del contratto attraverso l’applicazione della nozione di buona fede e correttezza per come innanzi considerata attribuita al giudice, risale già alla sentenza n. 10511/1999, in tema di riduzione d’ufficio della penale manifestamente eccessiva, ove la Suprema  Corte ha avuto modo espressamente di affermare che l’intervento modificativo del giudice sul contratto non deve essere considerato come eccezionale, ma “semplice aspetto del normale controllo che l’ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata”.[1]

Un siffatto orientamento[2] incontra i timori di chi, proprio in ragione della indeterminatezza della clausola generale di buona fede (il cui contenuto non tipizzato si definisce attraverso regole di comportamento sociali) vede nello “strumento integrativo” ad opera del giudice risvolti negativi sia sulla sua neutralità che sulla sua obiettività di giudizio.

Invero, tale ambito e spazio discrezionale di valutazione non costituirebbe però un’isolata ipotesi riconosciuta dal nostro sistema normativo al giudice, dato che la tecnica del rinvio così operata troverebbe invece già fondamento in altre norme che richiedono la ricognizione di valori demandata al suo intervento istituzionale (in proposito: artt. 634, 1343, 1354, 2035 c.c. e 528 e 529 c.p.).

In ogni caso, la valutazione del giudice non muove dalla previsione di regole teoriche di correttezza, ma si fonda invece sulla concreta considerazione dei singoli conflitti di interessi ed è legata direttamente all’interpretazione del contratto ed alla ricostruzione dell’assetto economico del rapporto voluto dalle parti.

Vi è poi da dire che anche la prospettiva dell’utilizzo del principio di buona fede come regola di condotta anziché come criterio di validità riduce l’ambito di potere del giudice perché, in questa accezione, non vi è il rischio di un allargamento delle ipotesi di nullità e si esclude ogni dubbio delle parti su cosa debba esser considerato in buona fede e, pertanto, valido o meno (e ciò anche a salvaguardia del principio di tassatività delle ipotesi di nullità).

Siffatta interpretazione trova sostegno nella Suprema Corte che a SS.UU. con le sentenze nn. 26724 e 26725/2007, ha difatti negato che la violazione di regole comportamentali (buona fede e correttezza), possa determinare la nullità del contratto, salvo che ciò non sia esplicitamente previsto dalla norma, in relazione a specifiche fattispecie.[3]

4. Casistica

I più risalenti orientamenti giurisprudenziali in materia di buona fede assegnavano a tale principio un ruolo subordinato, non autonomo, ed una funzione sussidiaria. La buona fede, infatti, veniva in rilievo solo quale criterio atto a valutare il comportamento della parte inadempiente all’interno di un rapporto contrattuale e di un diritto già riconosciuto da altre norme.

Si segnala in argomento la seguente massima: “Il dovere generico di lealtà e correttezza é bensì preso in considerazione nel vigente ordinamento giuridico, specialmente in materia contrattuale, ma la violazione di tale dovere, quando la legge non ne faccia seguire una sanzione autonoma, può costituire solo un criterio di valutazione e di qualificazione di un comportamento. Detto dovere non vale a creare, per se stesso, un diritto soggettivo tutelato “erga omnes” dalla osservanza del precetto del “neminem laedere” quando tale diritto non sia riconosciuto da un’espressa disposizione di legge. Pertanto, un comportamento contrario ai doveri di lealtà, di correttezza e di solidarietà non può essere reputato illegittimo e colposo, né può essere fonte di responsabilità per danni quando non concreti la violazione di un diritto altrui già riconosciuto in base ad altre norme”. (Cass. Civ. n. 357/1963)

Questo orientamento, per come sopra si è avuto modo di anticipare, si è però modificato nel tempo arrivando con ciò ad un autonomo concetto di buona fede quale criterio di valutazione della condotta delle parti, fonte di  responsabilità per il caso di sua violazione.

L’ambito di prima applicazione della buona fede, quale criterio generale di riferimento della condotta delle parti si è soffermato sulla fase esecutiva del rapporto contrattuale.

In particolare, questo primo filone interpretativo si è sviluppato in tema di fideiussione omnibus relativamente alla clausola convenzionale di esonero dell’istituto di credito dall’onere di richiesta di autorizzazione ex art. 1956 c.c.[4]

Nel confermare in linea generale la validità della clausola in questione (perché espressione della autonomia negoziale), la Suprema Corte ha però evidenziato che la parte (istituto di credito), beneficiaria di una tale garanzia, non può sottrarsi nella fase di esecuzione del rapporto alle regole di “correttezza e buona fede” tanto che “l’operatività di quella garanzia fidejussoria o di quella clausola di dispensa, va esclusa non solo quando la banca abbia agito con il proposito di recare pregiudizio, ma anche quando non abbia osservato canoni di diligenza, schiettezza e solidarietà, violando l’obbligo tassativo di ciascun contraente di salvaguardare gli interessi degli altri, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico”.

Con ciò quindi è derivato il riconoscimento al fideiussore della possibilità di paralizzare, con l’exceptio doli, le avverse pretese “ogni qualvolta le anticipazioni accordate dalla banca al debitore principale risultino in contrasto con il dovere di solidarietà contrattuale, nella cui osservanza, durante l’esecuzione del rapporto di garanzia deve trovare realizzazione il principio di buona fede”.

Un’altra conferma del superiore indirizzo (che ha sanzionato la violazione del principio di buona fede come mera regola in executivis) si ritrova nella sentenza della Suprema Corte n. 2503/1991 che ha confermato, come contraria a buona fede, la mancata cooperazione del promittente venditore in favore del promissario acquirente per far ottenere a quest’ultimo un mutuo per il pagamento del corrispettivo pattuito (“anche se riferita al momento esecutivo, la buona fede conserva la sua funzione di integrazione del rapporto, quale regola obiettiva che concorre a determinare il comportamento dovuto ... In altre parole, la buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale e generale del neminem laedere).

È, invece, con la sentenza n. 3775/1994 che la Suprema Corte sviluppa il concetto di buona fede in senso oggettivo riconoscendo alla stessa una funzione integrativa e correttiva del regolamento contrattuale.

Nello specifico, la Suprema Corte ha affermato che: “il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) ... si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375 c.c.), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti é tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio”. La buona fede in senso oggettivo “… concorre a creare la regola iuris del caso concreto …” e costituisce un “principio cardine” dell’ordinamento, induttivamente estraibile dal sistema … regola di governo della discrezionalità e ne vieta quindi l’abuso”.

Il giudice, accedendo al nuovo orientamento, crea quindi la regola iuris riempiendo di contenuto il concetto di buona fede che serve a corregge il regolamento negoziale.

La buona fede diviene limite interno della autonomia privata che non può travalicare i confini dei principi solidaristici che impongono il rispetto di un comportamento doveroso di cooperazione tra le parti vietando situazioni di “abuso del diritto”.

La sentenza appena ricordata costituisce, di certo, una dirompente novità del quadro interpretativo precedente circa il ruolo, la valenza ed i limiti del concetto di buona fede in senso oggettivo ed anche la dottrina (nel commento che ne ha dato) ha individuato ed esaltato i suoi aspetti innovativi.

E’stato infatti affermato a commento della sentenza che i giudici, partendo dal regolamento negoziale, arrivano “ad una definizione generale della buona fede contrattuale ... intesa in senso etico, come requisito della condotta” che “costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all’altra, ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale che, integrano, appunto, il contenuto della buona fede”.

Sulla scorta di questo nuovo principio giurisprudenziale che ha riconosciuto al concetto di buona fede il valore di fonte di integrazione del regolamento contrattuale (ex art. 1374 c.c.), si è mossa anche la successiva giurisprudenza di legittimità con due sentenze che si sono occupate di individuare, nell’ambito del contratto di conto corrente bancario e di suo scioglimento per  “fallimento del correntista”, gli obblighi imposti alle parti e, soprattutto, in capo all’istituto bancario.

Difatti, con la prima sentenza (Cass. Sez. I, n. 4598/1997)[5]  la Suprema Corte, rilevando come il principio di buona fede sia operante non solo in sede di interpretazione ed esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.), ma anche come principio che integra la volontà negoziale, ha riscontrato in capo alla Banca l’obbligo di inviare al curatore la documentazione da questi richiesta senza possibilità di opporre allo stesso (che aveva manifestato difficoltà nel procurarseli direttamente dal fallito) la circostanza di aver già precedentemente inviato il tutto al fallito.

Con la seconda sentenza (Cass. Sez. I, n. 15669/2007) la Suprema Corte ha invece ordinato alla Banca di consegnare alla curatela ogni documentazione ed ogni informazione inerente i rapporti contrattuali intrattenuti con il fallito affermando che, per tali richieste, fosse sufficiente solo l’inquadramento del rapporto nell’ambito del contratto di conto corrente e, con ciò, prescindendo da ogni onere in capo al curatore di indicare l’uso potenziale e finale della documentazione richiesta (proprio nell’ambito della sua funzione di amministratore del patrimonio del fallito)[6].

La Suprema Corte, ancora, richiamando le argomentazioni già pronunciate con la sentenza n. 3775/ 1994, si è anche espressa (con la sentenza n. 10511/1999) sulla penale ex art. 1384 c.c. e, in materia, partendo dalla  capacità integrativa riconosciuta alla buona fede, ha innovato significativamente rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale ritenendo conforme ai canoni ermeneutici di interpretazione (che fra due possibili interpretazioni impone di scegliere quella più conforme alla Costituzione), la possibilità del giudice di operare d’ufficio e la possibilità di ridurre la penale stessa “configurandosi come potere - dovere, attribuito al giudice per la realizzazione di un interesse oggettivo dell’ordinamento”[7].

La successiva giurisprudenza di legittimità aveva disatteso tale orientamento che si è però successivamente imposto allorquando la Suprema Corte si è espressa a Sezioni Uniti con la sentenza n. 18128/2005[8].

Di particolare rilievo sono poi i principi affermati dalla Suprema Corte (Sez. III) con la sentenza n. 20106/2009 che ha ribadito non solo il ruolo della buona fede come vero e proprio obbligo imposto alle parti di porre in essere un comportamento atto a “bilanciare i contrapposti interessi”, ma ha anche evidenziato il ruolo del giudice ed il suo potere di modificare ed integrare il contratto proprio al fine di garantire “l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto”.

Proprio sotto quest’ultimo profilo e cioè quello del c.d. “abuso del diritto” (consistente nell’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore), la sentenza in commento ha definito i confini della fattispecie evidenziando che “…si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso”[9].

Alla luce di quanto sinora rappresentato è quindi possibile evidenziare in riepilogo i principi  elaborati dalla giurisprudenza in materia di buona fede in senso oggettivo nell’ambito del diritto delle obbligazioni:

  • il principio della buona fede oggettiva (inteso come reciproca lealtà di condotta), deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass., 5 marzo 2009, n. 5348; Cass. 11 giugno 2008, n. 15476).
  • l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale (Cass. 15 febbraio 2007, n. 3462).
  • il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. 
  • il criterio della buona fede, in questa prospettiva, costituisce strumento per il giudice per controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.
  • l’abuso del diritto é criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva e, quindi, un eventuale utilizzo dello schema negoziale per fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli presi in considerazione dalla legge, non consente alcuna tutela della parte per la vigenza di una regola generale nell’ordinamento giuridico che vieta e rifiuta la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio (posti in essere cioè con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva).
  • i principi della buona fede oggettiva e dell’abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali (funzione sociale ex art. 42 Cost.) e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. In detta prospettiva, quindi, la libertà di iniziativa economica non viene intaccata (le scelte decisionali in materia economica non possono infatti esser oggetto di sindacato giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell’imprenditore operante nel mercato), ma egli deve porre in essere e deve esercitare il suo potere contrattuale nel rispetto dei criteri generali previsti dall’ordinamento e, quindi, nel rispetto della buona fede (in senso oggettivo) che impone comportamenti improntati a lealtà e correttezza. In tale ottica quindi l’irrilevanza per il diritto delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude un controllo da parte del giudice al fine di valutare se l’esercizio di una  facoltà riconosciuta all’autonomia contrattuale (come ad esempio l’esercizio del diritto di recesso ad nutum) abbia operato in chiave elusiva dei principi generali della buona fede, della lealtà e della correttezza[10].

Infine, la Suprema Corte, nell’espletamento della sua funzione nomofilattica, si è recentemente occupata dell’applicazione in ambito contrattuale del principio solidaristico (ex art. 2 Cost.) con alcune sentenze che hanno attenzionato i profili di “meritevolezza degli interessi”, “autonomia contrattuale” e “clausola penale”.

Con la sentenza n. 12454/2012 in tema di mutuo di scopo collegato ad un contratto di vendita, la Terza sezione della Corte di Cassazione si è occupata di vagliare (sotto l’aspetto della meritevolezza degli interessi coinvolti nella vicenda) la validità della clausola contrattuale che prevedeva in capo al “mutuatario” l’obbligo di procedere al versamento delle rate in favore del mutuante anche nel caso di inadempimento del venditore per la “mancata consegna del bene” acquistato.

La Suprema Corte ha quindi valutato, nello specifico, il rischio della mancata consegna gravante sul mutuatario per l’impossibilità di opporre l’eccezione di inadempimento (ed il conseguenziale obbligo di continuare a pagare le relative rate) e, dall’altro, l’interesse del mutuante che avrebbe, invece, la possibilità di ripetere la somma dal venditore al quale l’aveva direttamente consegnata.

La conclusione del ragionamento, partendo dalla interpretazione della clausola alla luce dei principi di buona fede e correttezza, ha portato la Corte a ritenere: Da ultimo, qualche considerazione merita l'argomento legato alle clausole del contratto di mutuo 1 e 3 secondo cui "il cliente conferisce sin d'ora disposizione perché l'importo richiesto a Findomestic venga versato direttamente a favore del fornitore, senza obbligo di rendiconto alcuno e dopo aver ricevuto da questi dichiarazione di disponibilità del bene e, comunque, indipendentemente dalla sua effettiva consegna" e 4 secondo cui "il cliente si impegna ad effettuare i singoli pagamenti mensili a favore di Findomestic nei modi e nei termini convenuti anche in caso di inadempienze di qualsiasi genere da parte del fornitore, ivi compresa la mancata consegna del bene richiesto", che avrebbero fatti salvi gli effetti obbligatori derivanti dal contratto di mutuo anche nel caso in cui fossero venuti meno quelli del contratto di compravendita e che - secondo la Corte di merito - non erano contrarie ai principi di buona fede, "dovendo escludersi un comportamento della Findomestic lesivo della buona fede della C.".

Una clausola come quella enunciata al n. 4 - di rinuncia a far valere nei confronti del mutuante l'eccezione di mancata consegna del veicolo -, e che sarebbe potuta essere considerata astrattamente valida quale espressione della libertà negoziale delle parti, tale da far gravare il rischio della mancata consegna sul mutuatario, il quale non avrebbe potuto opporre al mutuante l'eccezione di inadempimento (così Cass. 24 maggio 2003, n. 8253) - nell'attuale contesto deve essere interpretata alla luce dei principi di buona fede e di correttezza. Questi, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che attiene, non soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale ed alla sua interpretazione, ma che si pone come limite all'agire processuale nei suoi diversi profili (v. anche Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286). Il criterio della buona fede costituisce, quindi, strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della tutela giurisdizionale latamente considerata (v. ad es. Cass. 3 dicembre 2008, n. 28719; Cass. 11 ghiugno 2008, n. 15476). Ora, il giusto equilibrio degli opposti interessi - il balancing test - attraverso il quale deve essere interpretata la clausola negoziale in esame non è stato effettuato dal giudice del merito che l'ha ritenuta tout court pienamente valida alla luce di una pregressa giurisprudenza di questa Corte richiamata, ormai superata dalla evoluzione del principio di buona fede quale canone generale e criterio di interpretazione costituzionalmente tutelato e riconosciuto dalla più recente giurisprudenza di legittimità. In sostanza, ciò che si vuol dire è che la meritorietà della tutela, nella interpretazione della Corte di Cassazione, si è evoluta fino ad acquisire un ruolo determinante come ratio decidendi della controversia; nel senso che non può essere accordata protezione ad una pretesa priva di meritorietà. Ora, nella specie, una siffatta clausola di rinuncia a far valere l'eccezione di mancata consegna del veicolo a fronte della consegna diretta della somma dal mutuante al venditore e della clausola del contratto di mutuo secondo la quale questo s'intendeva perfezionato con la messa a disposizione del venditore dell'importo finanziato, deve, invece, essere interpretata alla luce dei principi enunciati tenendo presente, da un lato, l'interesse del mutuante che avrebbe la possibilità di ripetere la somma dal venditore al quale l'aveva direttamente consegnata e, dall'altro, la condizione del mutuatario che, anche a fronte della mancata consegna del bene, dovrebbe continuare a restituire somme, mai percepite, ma entrate direttamente nella sfera di disponibilità del venditore favorito dalla diretta consegna, da parte del mutuante, della somma, pur senza avere adempiuto all'obbligazione di consegna dell'autovettura (v. anche Cass. 11 febbraio 2011, n. 3392). D'altra parte, nella specie, l'interpretazione della volontà negoziale - ai sensi degli artt. 1175 e 1375 - deve essere condotta alla luce degli evidenziati elementi di un collegamento negoziale in cui le condotte di buona fede delle parti s'inseriscono. Questi sono i princìpi alla luce dei quali il giudice del rinvio dovrà esaminare la fattispecie in esame …”.

Il ragionamento della Suprema Corte, sopra ricordato, trova un precedente nella sentenza n. 14343/2009 in materia di “sublocazione” ove pure il Giudice, nell’ambito dell’autonomia negoziale, si è spinto alla verifica della liceità della clausola che prevedeva il “divieto di ospitalità non temporanea” di persone estranee al nucleo familiare anagrafico.

Anche in detta occasione la Suprema Corte è arrivata a concludere la nullità del divieto di sublocazione perché configgente con il “dovere di solidarietà” che può manifestarsi anche attraverso l’ospitalità che viene offerta per andare incontro alle altrui difficoltà sia in ambito familiare che negli ordinari rapporti di convivenza civile come nel caso dei rapporti di amicizia.

Il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. (quale canone oggettivo di riscontro della meritevolezza degli interessi delle parti) si ritrova, poi, oltre che nei rapporti obbligatori e nella interpretazione del rapporto contrattuale (cui sopra si è fatto ampio riferimento) anche come limite all’agire processuale. In sostanza, non può aversi protezione dell’interesse di cui si chiede tutela tutte le volte in cui questo non è meritevole alla luce del canone di solidarietà che si impone come ratio decidendi della controversia.

In argomento, la Suprema Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 26972/2008 ha evidenziato che il “danno non patrimoniale” derivante dalla violazione di un “diritto inviolabile della persona”  è risarcibile “… anche quando non sussiste un fatto - reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a condizione: (a) che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 cod. civ., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità”.

In conclusione, in materia di “clausola penale”, la Cassazione, prendendo spunto dalla sentenza n. 18128/2005, con la pronuncia n. 21994/2012 della Prima Sezione[11], partendo dalla oramai consolidata visione che il dovere costituzionale di solidarietà si esplica anche nella fase attuativa del rapporto contrattuale, ha  ritenuto che, nell’esercizio del potere giudiziale di riduzione della penale, la valutazione dell’interesse che il creditore aveva al “momento dell’adempimento” va fatta non avendo riguardo alla stipulazione, ma tenendo conto anche delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto.

Per concludere la presente trattazione, ricordiamo infine un’altra ipotesi di interpretazione costituzionalmente orientata (riferita cioè all’art. 2 Cost.) di una norma del codice civile (che permette, del caso, di superare un dato letterale apparentemente contrario) che si è avuta con la sentenza n. 14103/2012 in materia di servitù coattiva ex art. 1051 ed art. 1052 c.c.[12].

Con la sentenza in commento la Suprema Corte, chiamata a valutare della correttezza della decisione assunta dal giudice di prime cure che aveva riconosciuto come fondata la domanda volta alla costituzione di un passo carrabile per le necessità abitative di un fondo già provvisto di accesso pedonale, ha ritenuto che la “servitù di passaggio” può aversi oltre che per le esigenze dell’agricoltura o dell’industria anche al fine di permettere una piena raggiungibilità della propria abitazione.

Secondo la Cassazione, dunque, la costituzione di una servitù di passaggio in favore di un fondo non intercluso può avvenire non soltanto in presenza di esigenze dell’agricoltura o dell’industria, bensì anche ai fini di consentire una piena accessibilità alla casa di abitazione. In tal caso, la Corte ha confermato l’orientamento secondo cui è impossibile, alla luce del moderno sviluppo sociale e tecnologico, che una casa di abitazione sia raggiungibile solo a piedi o a dorso di mulo, e non anche con mezzi meccanici.

La Cassazione, dunque, abbandonando l’idea che i principi economici ed i rapporti patrimoniali in genere (nel caso di specie di natura dominicale) siano disgiunti dai valori espressi dalla carta costituzionale a tutela dei “valori della persona”, ha ampliato le ipotesi di costituzione coattiva della servitù di passaggio ritenendo che l’esigenza di accessibilità alla casa di abitazione risponde «al principio personalistico che ispira la Carta Costituzionale e che pone come fine ultimo dell’organizzazione sociale lo sviluppo di ogni singola persona umana».

In ogni caso, la Suprema Corte evidenzia pure che la domanda di ampliamento della servitù va sempre legata al principio che il passaggio imposto non deve comportare un significativo sacrificio del fondo servente maggiore del beneficio ritraibile dal fondo dominante dovendosi sempre (alla luce dell’art. 2 Cost.) ponderare i contrapposti interessi delle parti.

Per approfondimenti:

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[1]  Cass. Civ., Sez. I, n. 10511/1999: “… Perché - come conviene ormai la dottrina più avvertita sul tema - il complesso processo innestato, nei moderni sistemi giuridici, dal tramonto del mito ottocentesco della omnipotenza della volontà e del dogma della intangibilità delle convenzioni ha inciso anche sul fenomeno della riducibilità della penale, la quale ha per l'effetto finito col perdere l'iniziale sua colorazione soggettiva per assumere connotazioni funzionali più decisamente oggettive, si che la spiegazione della vicenda - come è stato osservato appare ora spostata da una supposta tutela della volontà delle parti ad un interesse primario dell'ordinamento, valutandosi l'intervento riduttivo del giudice non più in chiave di eccezionalità bensì quale semplice aspetto del normale controllo che l'ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata. E questo controllo, nel richiamato contesto di intervenuta costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato, non può ora non implicare anche un bilanciamento di "valori", di pari rilevanza costituzionale, stante la riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale accanto al valore costituzionale della "iniziativa economica privata" (sub art. 41) che appunto si esprime attraverso lo strumento contrattuale - di un concorrente "dovere di solidarietà" nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.). Dal quale la Corte costituzionale ha già, in particolare, desunto "l'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie" (cfr. sent. n.19-1994). E che, entrando (detto dovere di solidarietà) in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.), all'un tempo gli attribuisce una vis normativa e lo arricchisce di contenuti positivi, inglobanti obblighi anche strumentali di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale, nella misura in cui questa non collida con la tutela dell'interesse proprio dell'obbligato (cfr. ex plurimis, Cass. Nn. 3362-1989, 2503-91, in tema di fieiussione omnibus; 748, 5531, 6408, 1012-1993; 599 e, in particolare, n. 6448-1994, con riguardo a profili vari del rapporto di lavoro). E proprio agli effetti della individuazione dei contenuti e della portata di tale controllo e, conseguentemente, del potere di intervento del giudice all'interno del contratto, è stato di recente affermato (vincendo, anche in tal caso, il peso frenante di una contraria opzione interpretativa dottrinaria e giurisprudenziale) che "la legge pattizia non può ritenersi svincolata dal dovere di correttezza". Il quale "si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo quindi alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente"; per modo che "non risulti disatteso quel dovere inderogabile di solidarietà che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto e gli effetti" (Così Cass. n. 3775-94). Ora appunto - tornando al problema esegetico dell'art. 1384 c.c. - non può revocarsi in dubbio (anche alla stregua del superiore canone ermeneutico per cui "tra due interpretazioni possibili va di necessità prescelta quella conforme, o più conforme a Costituzione": cfr. Corte Cost. nn. 7, 11, 117, 188-1998) che il potere, ivi previsto, di riduzione ad equità della penale vada esercitato anche ex officio indipendentemente da un atto di iniziativa del debitore, configurandosi, esso come potere-dovere, attribuito al giudice per la realizzazione di interesse oggettivo dell'ordinamento. Interesse che assume anzi, in questo caso, connotati di ancor più spiccata valenza, poiché - a fronte della innegabile (anche concorrente, se non prevalente) funzione sanzionatoria assolta dalla clausola penale - quell'interesse si specifica e consolida nell'esigenza (che si radica nel cuore della "giustizia del caso concreto", che il giudice è chiamato ad assicurare) di garantire l'adeguatezza e proporzione della sanzione all'illecito che essa è destinata a prevenire o reprimere. 3. Accolto quindi, nei, profili e per le ragioni sui qui esposte, il (solo) quarto mezzo del ricorso e cassata di conseguenza, nei correlativi limiti, la sentenza impugnata - spetterà al giudice di rinvio, che si designa nella Corte di appello di Roma, riesaminare il motivo di impugnazione ex. art. 829 cpc, della società, relativo alla negata riducibilità della penale, alla stregua dei dati fattuali come già rilevati e apprezzati dal Collegio arbitrale e in applicazione del principio di diritto sopra enunciato, considerando, quindi, l'esercizio di quel potere non pregiudizialmente precluso dalla mancanza di una domanda di riduzione del debitore…”.

[2] Trae spunto da Cass. Civ. n. 3775/1994 che ha pienamente attribuito alla buona fede il ruolo di integrazione del contenuto contrattuale: “La clausola, inserita nei contratti "per la condizione e l'esercizio delle concessioni delle sorgenti di acqua minerale" e "per la locazione degli stabilimenti termali" conclusi dal comune di Fiuggi con un privato, che, attribuendogli "la piena libertà" di determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, consente al medesimo privato di bloccare tale prezzo nonostante la svalutazione monetaria, impedendo allo stesso comune di conseguire anche l'adeguamento del canone correlato al ripetuto prezzo, è contraria al principio di buona fede che, per il suo valore cogente, concorre a formare la "regula iuris" del caso concreto, determinando, integrativamente, il contenuto e gli effetti dei contratti e orientandone, ad un tempo, l'interpretazione e l'esecuzione”.

[3] Cass. Civ., S.U., n. 26724/2007 : “In relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative in difetto di espressa previsione in tal senso (cd. "nullità virtuale"), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario (nella specie, in base all'art. 6 l. n. 1 del 1991) può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cd. "contratto quadro", il quale, per taluni aspetti, può essere accostato alla figura del mandato); può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro"; in ogni caso, deve escludersi che, mancando una esplicita previsione normativa, la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell'art. 1418, comma 1, c.c., la nullità del cosiddetto "contratto quadro" o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso”.

[4] Cass. Civ. n. 3362/1989:La garanzia personale, prestata in favore di un istituto di credito per tutte le obbligazioni derivanti da future operazioni bancarie con un terzo (cosiddetta fideiussione omnibus), al pari della clausola del relativo contratto, con cui il garante dispensi l'istituto medesimo dall'onere di conseguire specifica autorizzazione per nuove concessioni di credito in caso di mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore principale (art. 1956 c.c.), devono ritenersi valide ed efficaci, in considerazione della determinabilità per relationem dell'oggetto della fideiussione, sulla base di atti di normale esercizio dell'attività creditizia, sottratti al mero arbitrio della banca, nonché in considerazione della disponibilità dei diritti del fideiussore, in ordine alla valutazione dell'opportunità dei finanziamenti in presenza di mutate situazioni economiche del debitore principale. Peraltro, la banca beneficiaria di detta garanzia non si sottrae ai principi generali di correttezza e buona fede, che devono inderogabilmente presiedere al comportamento delle parti anche nella fase di esecuzione del rapporto (art. 1375 c.c.), sicché l'operatività di quella garanzia fideiussoria, o di quella clausola di dispensa, va esclusa non solo quando la banca abbia agito con il proposito di recare pregiudizio, ma anche quando non abbia osservato canoni di diligenza, schiettezza e solidarietà, violando l'obbligo tassativo di ciascun contraente di salvaguardare gli interessi degli altri, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico. ; sentenza Cass. Civ. n. 3385/1989: In tema di fideiussione per obbligazioni future, l'art. 1956 c.c., facendo applicazione specifica dei principi di correttezza e di buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c., prende in considerazione l'ipotesi nella quale, successivamente alla prestazione della garanzia, sopravvenga un notevole aumento delle difficoltà di soddisfacimento, per mutamento della condizione patrimoniale del debitore, e sanziona, con la liberazione del fideiussore, il comportamento del creditore che conceda finanziamento nonostante la conoscenza di tale situazione ed in difetto di autorizzazione del fideiussore medesimo (autorizzazione speciale, cioè espressamente indirizzata all'assunzione del nuovo credito), fermo però restando il verificarsi di detta liberazione, indipendentemente dall'eventuale autorizzazione del fideiussore, nel caso di sopravvenuto stato di insolvenza (e non di mera difficoltà all'adempimento). Alla stregua del contenuto e della finalità della citata norma, si deve valutare la possibilità di una deroga convenzionale della norma medesima, come quando il fideiussore si impegni a tenersi direttamente al corrente delle condizioni del debitore, dispensando il creditore da ogni onere al riguardo, con la conseguenza che l'efficacia di tale patto in deroga va subordinata alla sua riferibilità alle operazioni correlate ad una determinata attività esercitata dal sovvenuto, nonché all'esistenza di un interesse del fideiussore all'erogazione, giustificativo dell'accollo dei rischi inerenti al controllo di quelle condizioni del debitore (ad esempio, trattandosi di amministratore o socio sovrano di società), e va comunque esclusa quando il creditore conceda il finanziamento con la consapevolezza dell'impossibilità del debitore ad adempiere, agendo così coscientemente a danno del fideiussore (atteggiamento da valutarsi alla luce delle circostanze del caso concreto e della qualità del creditore; nella specie, una banca). Cass. Civ. n. 3386 - 3387/1989: In tema di fideiussione per obbligazioni future, l'art. 1956 c.c., facendo applicazione specifica dei principi di correttezza e di buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c., prende in considerazione l'ipotesi nella quale, successivamente alla prestazione della garanzia, sopravvenga un notevole aumento delle difficoltà di soddisfacimento, per mutamento della condizione patrimoniale del debitore, e sanziona, con la liberazione del fideiussore, il comportamento del creditore che conceda finanziamento nonostante la conoscenza di tale situazione ed in difetto di autorizzazione del fideiussore medesimo (autorizzazione speciale, cioè espressamente indirizzata all'assunzione del nuovo credito), fermo però restando il verificarsi di detta liberazione, indipendentemente dall'eventuale autorizzazione del fideiussore, nel caso di sopravvenuto stato di insolvenza (e non di mera difficoltà all'adempimento). Alla stregua del contenuto e della finalità della citata norma, si deve valutare la possibilità di una deroga convenzionale della norma medesima, come quando il fideiussore si impegni a tenersi direttamente al corrente delle condizioni del debitore, dispensando il creditore da ogni onere al riguardo, con la conseguenza che l'efficacia di tale patto in deroga va subordinata alla sua riferibilità alle operazioni correlate ad una determinata attività esercitata dal sovvenuto, nonché all'esistenza di un interesse del fideiussore all'erogazione, giustificativo dell'accollo dei rischi inerenti al controllo di quelle condizioni del debitore (ad esempio, trattandosi di amministratore o socio sovrano di società), e va comunque esclusa quando il creditore conceda il finanziamento con la consapevolezza dell'impossibilità del debitore ad adempiere, agendo così coscientemente a danno del fideiussore (atteggiamento da valutarsi alla luce delle circostanze del caso concreto e della qualità del creditore; nella specie, una banca)”.

[5] Cass. Civ., Sez. I, n. 4598/1997:In virtù del principio di buona fede, operante non solo in sede d'interpretazione ed esecuzione del contratto (art. 1366 e 1375 c.c.), ma anche quale fonte d'integrazione della stessa regolamentazione contrattuale (art. 1374 c.c.), al curatore che richiede la documentazione concernente i rapporti di conto corrente intestati al fallito, sul presupposto di non avere avuto la possibilità di procurarseli direttamente da quest'ultimo e per la necessità che la sua carica gli impone di ricostruire le vicende del patrimonio del fallito, la banca ha l'obbligo di trasmettere la richiesta documentazione, sebbene a spese del richiedente, senza poter replicare di averla già in precedenza trasmessa al fallito stesso. Nel formulare la richiesta, il curatore non ha l'obbligo di indicare in dettaglio gli estremi dei documenti bancari dei quali vuole ottenere la consegna, tuttavia deve fornire quegli elementi minimi indispensabili per consentire l'individuazione degli stessi e, nel caso in cui la banca neghi l'esistenza dei documenti in questione, è pur sempre il curatore a dover dimostrare, anche a mezzo di presunzioni, che, viceversa quei documenti esistono e, perciò, la banca è tenuta a consegnarli.”.

[6] Cass. Civ., Sez. I, n. 15669/2007: “In materia di esecuzione del contratto di conto corrente bancario, il suo scioglimento ai sensi dell’art.78 legge fall. per effetto del fallimento del cliente, non estingue con immediatezza ogni rapporto obbligatorio fra le parti, sussistendo anche per l’epoca successiva una serie di obbligazioni, ancora di derivazione contrattuale e corrispondenti posizioni di diritto soggettivo; in particolare la pretesa del curatore, che subentra nell’amministrazione del patrimonio fallimentare ai sensi degli artt. 31 e 42 legge fall., è un diritto che promana dall’obbligo di buona fede, correttezza e solidarietà, declinandosi in prestazioni imposte dalla legge (ai sensi dell’art.1374 c.c.), secondo una regola di esecuzione in buona fede (ex art.1375 c.c.) che aggiunge tali obblighi a quelli convenzionali quale impegno di solidarietà (ex art. 2 Cost.), così imponendosi a ciascuna parte l’adozione di comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del “neminem laedere”, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte; posto che tra i doveri di comportamento scaturenti dall’obbligo di buona fede vi è anche quello di fornire alla controparte la documentazione relativa al rapporto obbligatorio ed al suo svolgimento, il predetto diritto alla documentazione trova fondamento e regolazione inoltre nell’art. 8 legge 17 febbraio 1992, n. 154 e compiutamente nell’art. 119 del T.U.L.B. (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), che già pone a carico della banca l’obbligo di periodica comunicazione di un prospetto inerente allo svolgimento del rapporto ed attribuisce al cliente ovvero a chi gli succeda anche solo nell’amministrazione dei beni il diritto di ottenere - a sue spese, per gli ultimi dieci anni, indipendentemente dall’adempimento del dovere di informazione da parte della banca e anche dopo lo scioglimento de rapporto - la documentazione di singole operazioni registrate sull’estratto conto”.

                                                                                                                                     

[7] Cass. Civ. n. 10511/1999: “… il complesso processo innestato, nei moderni sistemi giuridici, dal tramonto del mito ottocentesco della onnipotenza della volontà e del dogma dell’intangibilità delle convenzioni … nel ... contesto di intervenuta costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato non può ... non implicare anche un bilanciamento di “ valori”, di pari rilevanza costituzionale, stante la riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale - accanto al valore costituzionale della “iniziativa economica privata” (sub art. 41 che .. si esprime attraverso lo strumento contrattuale - di un concorrente “dovere di solidarietà” nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.). Dal quale la Corte costituzionale ha già desunto “l’esistenza di principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (cfr. sentenza n. 19/94). E che, entrando (detto dovere di solidarietà) in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359 , 1366, 1375 c.c.), all’un tempo gli attribuisce una vis normativa e lo arricchisce di contenuti positivi, inglobanti obblighi, anche strumentali, di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale, nella misura in cui questa non collida con la tutela dell’interesse proprio dell’obbligato”.

[8] Cass. Civ. n. 18128/2005: tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall'art. 1384 c.c. a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento, può essere esercitato d'ufficio per ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l'obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest'ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.

[9] Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni in via generale l’abuso del diritto, ma la Cassazione ha però richiamato espressamente in diverse sentenze l’applicazione del suddetto principio sia in materia societaria (Cass., sez. I, 19 dicembre 2008, n. 29776; Cass., sez. III, 16 maggio 2007, n. 11258; Cass., sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387; Cass., sez. I, 11 giugno 2003, n. 9353; Cass. 25 gennaio 2000, n. 804), in materia di rapporti bancari (Cass., sez. I, 28 settembre 2005, n. 18947; Cass.,sez. I, 21 febbraio 2003, n. 2642; Cass., sez. I, 14 luglio 2000, n. 9321; Cass., sez. I, 21 maggio 1997, n. 4538), in materia contrattuale, con particolare riferimento al contratto di mediazione (Cass., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass., sez. V, 8 aprile 2009, n. 8481; Cass., sez. III, 22 marzo 2007, n. 6969; Cass., sez. III, 26 giugno 2001, n. 8742; Cass., sez. III, 16 ottobre 1995, n. 10805), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass., sez. I, 7 marzo 2007, n. 5273; Cass., sez. III, 28 luglio 2004, n. 14239; Cass., sez. I, 1° ottobre 1999, n. 10864), nonché in materia tributaria (Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057.

[10] Si segnalano due massime che si pongono in contrasto rispetto all’orientamento giurisprudenziale dominante che vede la buona fede quale fonte di eterointegrazione del contratto: Cassazione Sez. II sentenza 27 novembre 2009, n. 25047 in tema di correttezza nella fase delle trattative contrattuali e Cassazione Sezione Lavoro 6 luglio 2007, n. 15275 secondo cui “il giudice di merito, quand’anche riconosce la nullità di alcune clausole contrattuali collettive, non può operare l’integrazione giudiziale del contratto (attraverso i principi di correttezza e buona fede) introducendo un regolamento di interessi diverso rispetto a quello che le parti sociali hanno raggiunto” la possibilità di integrazione giudiziale “risulta affatto esclusa con riferimento alla contrattazione collettiva, venendo qui a scontrarsi con un valore (l’autonomia collettiva la cui intangibilità è ancora più forte. Un intervento manipolativo da parte del Giudice (del tipo di quelli effettuati a volte dalla Corte Costituzionale sulle norme di legge), che non è ammesso sul contratto individuale, è tanto più impensabile sul contratto collettivo, poiché ciò significherebbe abilitare il Giudice a sostituirsi alle parti sociali e consentirgli, sulla base di personali valutazioni, di rompere l’equilibrio che dette parti avevano raggiunto con le scelte compiute”.

[11] Cass. Civ. n. 21994/2012:”… Nella giurisprudenza di questa Corte - fermo restando che il criterio cui il giudice deve fare riferimento per esercitare il potere di riduzione della penale non è la valutazione del danno che sia stato accertato o risarcito, ma l'interesse che la parte ha, secondo le circostanze, all'adempimento della prestazione cui ha diritto - possono registrarsi due orientamenti in ordine al momento cui riferire la valutazione. Secondo un primo maggioritario orientamento, deve aversi riguardo all'interesse all'esecuzione del contratto al momento della stipulazione della clausola (Cass. 9 maggio 2007, n. 10626; Cass. 5 agosto 2002, n. 11710; Cass. 25 giugno 1981, n. 4146; Cass. 29 marzo 1976, n. 1130; Cass. 14 febbraio 1974, n. 419); secondo altro orientamento, si deve avere, invece, riguardo all'"incidenza che l'inadempimento ha in concreto avuto sulla realizzazione dell'interesse della parte, riferita non al solo momento della conclusione del contratto, ma a quello in cui la prestazione attesa è stata sia pure in ritardo eseguita o è definitivamente rimasta ineseguita" (Cass. 3 settembre 1999, n. 9298; conf. Cass. 14 luglio 1976, n. 2716). Il Collegio, ritiene di dover seguire tale secondo orientamento benché la lettera dell'art. 1384 c.c., coniugando al passato il verbo "avere" riferito all'interesse del creditore, offra un indubbio elemento a favore della tesi contraria. L'elemento letterale sembra, infatti, superato dall'elemento sistematico che può trarsi dalla funzione della previsione in capo al giudice del potere di ridurre la penale. In proposito le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che il potere di riduzione ad equità, è attribuito al giudice dall'art. 1384 c.c. a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento e può essere esercitato d'ufficio per ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela (Cass. s.u. 13 settembre 2005, n. 18128). Tale funzione, come rileva la stessa decisione, nasce dalla necessità "di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366 e 1375 cod. civ.)". In questa prospettiva al Collegio non sembra possibile espungere la considerazione della fase attuativa del rapporto ai fini della considerazione dell'interesse del creditore alla prestazione. Anche in tale fase, infatti, trovano applicazione il dovere costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost., il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) ed il dovere di buona fede (art. 1375 c.c.). Senza la considerazione di tale fase il potere del giudice di riduzione della penale potrebbe non essere in concreto idoneo a svolgere la funzione che gli è stata assegnata dal legislatore. Ciò porta a ridimensionare la portata dell'elemento letterale ed a ritenere che l'uso dell'imperfetto ("aveva") sia funzionale soltanto alla identificazione in concreto dell'interesse del creditore, mentre la valutazione di manifesta eccessività è svincolata da un tale rigido riferimento temporale e può tenere conto anche delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto…”.

[12] Cass. Civ. n. 14103/2012: “… Più complesso è stabilire se sia tutelabile ex artt. 1051 e 1052 c.c. la richiesta di passo carrabile in relazione alle necessità abitative di un fondo già provvisto di accesso pedonale. Questa Corte giudica corretta la decisione assunta dai giudici di merito, che è conforme ad un precedente di legittimità (Cass. 10045/08), a mente del quale ai sensi dell'art. 1052 cod. civ. - da leggere alla luce della sentenza n. 167 del 1999 della Corte costituzionale - la costituzione di una servitù di passaggio in favore di un fondo non intercluso può avvenire non soltanto in presenza di esigenze dell'agricoltura o dell'industria, bensì anche ai fini di consentire una piena accessibilità alla casa di abitazione (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto di dover costituire una servitù di passaggio in favore di un fondo non del tutto intercluso, in base all'affermazione secondo cui e1 impossibile, alla luce del moderno sviluppo sociale e tecnologico, che una casa di abitazione sia raggiungibile solo a piedi o a dorso di mulo e non anche con mezzi meccanici). 6.1) Trattasi di conclusioni aderenti alla modifica dell'art. 1052 introdotta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 167 del 1999. Esso recita: "Il passaggio può essere concesso dall'autorità giudiziaria solo quando questa riconosce che la domanda risponde alle esigenze dell'agricoltura o dell'industria". La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1052 c.c., comma 2, nella parte in cui non prevede che il passaggio coattivo di cui al comma 1 possa essere concesso dall'autorità giudiziaria quando questa riconosca che la domanda risponde alle esigenze di accessibilità - di cui alla legislazione relativa ai portatori di handicap - degli edifici destinati ad uso abitativo. La portata della sentenza, pur se occasionata da una controversia instaurata da un portatore di handicap, trascende la tutela di questa categoria di soggetti deboli e investe integralmente la disposizione modificata. La Corte ha infatti ritenuto che "il legislatore, per il caso di fondo non intercluso, ha inteso ricollegare la costituzione della servitù coattiva di passaggio non soltanto alle necessità del fondo (come nel caso di costituzione di servitù a favore di fondo intercluso), ma anche alla sussistenza in concreto di un interesse generale, all'epoca identificato nelle esigenze dell'agricoltura o dell'industria". Questa limitazione, che considerava "prive di ogni rilievo ai fini della costituzione del passaggio coattivo le esigenze abitative, pur se riferibili a quegli interessi fondamentali della persona la cui tutela è indefettibile", è apparsa incostituzionale al giudice delle leggi. La Corte Costituzionale ha rilevato che "l'accessibilità dell'abitazione è intesa a realizzare" una "molteplicità" di principi costituzionali, misura dei quali è la condizione dei portatori di handicap. A favore di questa categoria di soggetti è stata introdotta una serie di disposizioni normative, le quali impongono il superamento delle barriere architettoniche tanto negli edifici pubblici quanto in quelli privati, di nuova costruzione o già esistenti. La fissazione di queste caratteristiche nella vigente legislazione abitativa, osserva la Corte Costituzionale, astrae dalla "effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte delle persone handicappate". Essa risponde al fine di rendere comunque possibile al portatore di handicap una normale vita di relazione, sopprimendo la disuguaglianza di fatto (art. 3 Cost.) "impeditiva dello sviluppo della persona umana"(art. 2). Dunque la inclusione nelle ipotesi di ampliamento coattivo della servitù di passaggio ex art. 1052 dell'esigenza di accessibilità alla casa di abitazione risponde a questi principi e più in generale "al principio personalistico che ispira la Carta Costituzionale e che pone come fine ultimo dell'organizzazione sociale lo sviluppo di ogni singola persona umana". La Corte aggiunge, quanto ai portatori di handicap, la rilevanza della ulteriore lesione costituzionale (art. 32) derivante agli handicappati dagli ostacoli alla socializzazione che le barriere architettoniche comportano. Ma ancora una volta la precisazione non restringe la declaratoria di incostituzionalità alle ipotesi in cui proprietario del bene sia il soggetto con ridotte capacità motorie. Per la Corte costituzionale è ben evidente che la nuova legislazione, imponendo un'"essenziale" caratteristica degli edifici privati, prescinde dalla "loro concreta appartenenza a soggetti portatori di handicap". Si desume da questa lettura che l'art. 1052, comma 2 può essere sempre e da chiunque invocato a tutela di esigenze abitative, poiché l'adeguamento dell'accesso risulta comunque funzionale alla possibilità di accesso dei portatori di handicap alla casa di abitazione di cui si tratta. 6.2) Il Collegio condivide pertanto quei commenti dottrinari che hanno salutato con favore la decisione della Corte Costituzionale non solo per la giusta conseguente soluzione del caso concreto, ma per il mutamento di prospettiva in essa insito. L'istituto della servitù coattiva di passaggio non è più limitato a un'ottica dominicale e produttivistica, ma è proiettato in una prospettiva dei valori della persona che deve permeare di sè anche statuto dei beni e, in genere, i rapporti patrimoniali. È stata quindi abbandonata ogni ipotesi di separatezza tra talune discipline della costituzione economica, apparentemente dotate di intrinseca ragionevolezza, e il cuore dei principi costituzionali ispiratori della Carta, trasfusi negli artt. 2 e 3. 11 pertinente richiamo, nell'ultimo capoverso di Corte Cost. 167/99, all'art. 42 Cost. e alla funzione sociale della proprietà privata vale a completare la rilettura dell'istituto e a spianare la via a spunti interpretativi che la giurisprudenza civile della Corte intende cogliere, respingendo l'idea che la portata dell'art. 1052 sia stata allargata inconsapevolmente. Esso è invece stato reso conforme a costituzione, utilizzando quale veicolo interpretativo la pietra di confronto della tutela del disabile e dell'attuazione dei valori costituzionali, data in questo campo dal legislatore ordinario. Poiché la Costituzione del 48 si invera continuamente nella produzione normativa, non appare strano che la Corte abbia tratto argomento dalla normativa speciale per meglio smascherare l'incostituzionalità di una disposizione del codice del 42. Il giudizio di costituzionalità non è infatti astratta comparazione di norme ordinarie e norme di rango superiore, ma qualificazione delle prime nel sistema dei valori costituzionali, alla cui comprensione contribuisce in modo determinante il tessuto normativo costruito nella luce della Costituzione. 6.3) Mette conto a questo punto precisare che la modifica normativa va inquadrata nell'equilibrato sistema dell'istituto, che comporta l'accoglibilità della domanda di ampliamento non solo ove essa sia praticabile in concreto (previo consenso quindi dell'autorità di vigilanza del territorio), ma anche a condizione che il passaggio imposto non comporti sacrificio del fondo servente maggiore del beneficio per il dominante (l'accesso alla casa del richiedente non può risolversi in impedimento significativo dell'accesso al fondo servente). Ed ancora: il limite di cui all'ultimo comma dell'art. 1051 c.c. (esonero di case, cortili, giardini), pur essendo derogabile, in ragione del prevalente interesse del fondo dominante, può esserlo soltanto previa attenta concreta ponderazione degli interessi e con uso accorto dello strumento di cui all'art. 1053 c.c. (indennità). Ciò al fine di impedire strumentali richieste di ampliamento, in ambiti territoriali che non si prestano alla creazione di nuove aperture carrabili, se non alla inaccettabile condizione di ferire l'assetto territoriale esistente. Queste considerazioni valgono, nella specie, per rintuzzare il secondo profilo del secondo motivo di ricorso, che vorrebbe, con il suo quesito, negare in via generale e astratta che l'ampliamento del passaggio pedonale possa avvenire ove comporti un completo cambio di sistema di accesso (da comoda scala pedonale a stradina con tornanti). Sul punto è congrua e ineccepibile la risposta della Corte d'appello, che attesta la residualità e modestia dell'interferenza sull'altrui fondo, apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede, né specificamente contestato…”.

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