Responsabilità civile

Forma del contratto

AltalexPedia, voce agg. al 07/03/2016

La forma è uno dei requisiti o elementi del contratto elencati dall'art. 1325 cod. civ.


Forma del contratto

di Paolo Franceschetti


Premessa: i requisiti del contratto

La forma

Forma espressa e tacita. Forma scritta e orale

Contratti formali e contratti a forma libera

Atto pubblico e scrittura privata

Generalità

Forma ad substantiam e forma ad probationem

Modalità di esternazione

Il principio della libertà delle forme

Tesi tradizionale

Tesi negativa

La forma dei negozi risolutori

Il problema

La tesi negativa

La tesi positiva

Le forme convenzionali

Generalità e problemi posti dalla norma

Nozione di patto sulla forma e natura giuridica

Natura giuridica della presunzione di validità

La ripetizione del contratto

Nozione e distinzione da figure affini

Natura giuridica

Teoria dell'integrazione formale del contratto

Teoria del negozio novativo

Teoria della duplicità di fonti

Disciplina

La sottoscrizione al buio, la firma in bianco e la dichiarazione sotto falso nome

Sottoscrizione al buio

La firma in bianco

La dichiarazione sotto falso nome

Premessa: i requisiti del contratto

Per forma del contratto si intende la modalità esteriore con cui si manifesta l’accordo delle parti.

L'articolo 1325 indica i requisiti del contratto, o elementi essenziali: "I requisiti del contratto sono:

1) l'accordo delle parti;

2) la causa;

3) l'oggetto;

4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità."

La dottrina è in genere concorde nel ritenere che la norma sia da una parte superflua, dall'altra incompleta e inesatta.

E' superflua perché l'elenco dei requisiti essenziali dovrebbe servire a dire all'interprete cosa sia un contratto, ma a ciò già provvede l'articolo 1321, sì che taluno ravvisa una sovrapposizione di norme e una contraddizione tra le definizioni che possono ricavarsi dalla lettura di entrambe.

E' incompleta perché non menziona i soggetti.

E' inesatta perché nessuno dei requisiti in esame è realmente essenziale per l'esistenza del contratto.

Non l'accordo, perché moltissimi sono i casi in cui il contratto si forma senza un accordo in senso tecnico: i contratti per adesione, i contratti con obbligazioni a carico del solo proponente, i contratti che si perfezionano con l'inizio dell'esecuzione.

Non la causa, perché il nostro codice conosce l'esistenza dei negozi astratti e perché taluno dubita pure che la causa sia un elemento autonomo del contratto.

Non l'oggetto inteso come prestazione, a meno che non si intenda questo termine come equivalente di contenuto; nel qual caso, però, si tratta di un requisito assolutamente superfluo, perché nessuno dubiterebbe mai che possano esistere contratti senza contenuto.

Non la forma, perché molti contratti non esigono una forma particolare ad substantiam.

Di conseguenza si ritiene che, più che una enunciazione di nozioni fondamentali, la norma contenga null'altro che un indice-sommario degli articoli che seguono.

Infine, c'è da dire che l'elencazione dell'articolo 1325 è inesatta anche per un altro ordine di motivi. Tutti i requisiti elencati, infatti, non sono elementi essenziali del contratto, cioè interni ad esso, perché l'accordo è l'essenza stessa del fenomeno contrattuale, mentre la causa e l'oggetto sono elementi esterni. Solo la forma può dirsi effettivamente che sia elemento essenziale del contratto.

La forma

L'unico dei quattro requisiti del contratto elencati dall'articolo 1325 che effettivamente può considerarsi un elemento del contratto è quello della forma. Un contratto non può infatti esistere e vincolare le parti se non è esternato in un modo qualsiasi, che sia verbale, scritto o tacito. La forma è quindi la veste esteriore della manifestazione di volontà, che, in qualche modo, si immedesima con essa, e senza di cui il negozio non sarebbe conoscibile da altri. E' -come è stata definita - il veicolo mediante il quale la volontà è manifestata all'esterno, o, come preferiscono altri, la figura esteriore mediante il quale l'atto viene percepito all'esterno.

Da questo punto di vista l'espressione usata dal legislatore, secondo cui la forma è elemento essenziale del contratto solo quando risulta che è prescritta dalla legge a pena di nullità, è errata. La forma è infatti sempre essenziale per l'esistenza del negozio, perché un negozio che ne sia privo, (quand’anche fosse orale o tacita), è assolutamente inconcepibile. Sarebbe stato quindi più corretto dire che la forma scritta, o pubblica, è elemento essenziale del contratto quando è richiesto dalla legge a pena di nullità; e che in tutti gli altri casi, le parti sono libere di scegliere la modalità di esternazione che preferiscono.

Forma espressa e tacita. Forma scritta e orale

Abbiamo detto che tacita è la dichiarazione taciuta, e espressa è quella manifestata all'esterno.

Questi due concetti non vanno confusi con quelli di forma scritta e forma orale. Scritta è la dichiarazione contenuta in un documento, cartaceo, informatico, su pietra, o su qualsiasi altro materiale indelebile che possa essere letto.

Ne consegue che quando la legge richiede la forma scritta, non richiede anche che questa debba essere esternata in modo espresso, e quando richiede la forma espressa, questa possa anche essere orale.

Ad esempio la fideiussione deve essere prestata esternando la volontà in modo espresso; ma ciò non significa che essa debba risultare da un documento scritto, potendo essere esternata anche verbalmente.

Viceversa l'onere della forma scritta è assolto anche quando la dichiarazione consacrata nel documento non contiene una esplicita manifestazione di volontà, dovendosi questa desumersi da altri atti o fatti, in modo indiretto. Quindi può anche essere assolta da una dichiarazione tacita; ad esempio quando a seguito di una proposta scritta l'accettante invia una intimazione scritta ad eseguire il contratto.

Quando la legge richiede che la manifestazione sia esternata in forma scritta e, contemporaneamente, sia anche espressa, lo dice in modo inequivocabile; ad esempio per la rinuncia all'ipoteca l'articolo 2879 dice che tale dichiarazione "deve essere espressa e deve risultare da atto scritto".

Contratti formali e contratti a forma libera

Si dicono formali, o solenni, quei contratti per cui la legge richiede un determinato requisito di forma. A forma libera gli altri. Autorevole dottrina ha chiamato i negozi formali a struttura forte, quelli a forma libera a struttura debole (Irti).

La prescrizione di un determinato onere formale risiede in più ordini di ragioni:

1) responsabilizzare le parti sulla dichiarazione che andranno a fare; non a caso il contratto che più di ogni altro richiede un onere formale è la donazione, perché è quello per cui le conseguenze sono più gravi (anche se sarebbe tutto da dimostrare che la donazione di un immobile di poco valore - che richiede l'atto pubblico - richieda una maggiore ponderazione rispetto all'assunzione di una garanzia fideiussoria per un debito di miliardi - per cui non è richiesta alcuna forma - ).

2) esigenze di certezza dell'atto, per cui è più semplice rendere edotti i terzi della vicenda, provarne il contenuto, ecc. Collegata a questa esigenza, quindi, c'è quella di semplificazione e prevenzione delle liti;

3) esigenze di pubblicità e opponibilità ai terzi; in determinati casi, infatti, pur essendo il contratto a forma libera, tuttavia la forma scritta è richiesta ai fini della trascrizione (come accade per la vendita di autoveicoli).

Atto pubblico e scrittura privata

Generalità

Le due principali forme previste dall'ordinamento sono l'atto pubblico e la scrittura privata. Le parti però possono utilizzare, e volontariamente imporsi, anche altre forme: fax, telefono, apposizione dell'impronta digitale accanto alla firma, ecc.

Il testamento può essere redatto oltre che nelle forme dell'atto pubblico e della scrittura privata (per cui si usa l'espressione "olografo") anche nella forma del testamento segreto.

La legge poi può imporre che la dichiarazione negoziale contenga determinate indicazioni; ad es. l'apposizione della denominazione cambiale, o assegno, sull'atto relativo; la menzione degli estremi della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) negli atti di trasferimento di edifici (v. L. 47/1985, articolo 17 e 18; oggi artt. 46 T.U. Edilizia). Anche questi sono requisiti formali, che, però, risolvendosi in definitiva nell'imporre un certo contenuto, vengono denominati con la terminologia di forma-contenuto.

La scrittura privata è il documento redatto e sottoscritto dalle parti. Non importa in quale modo il testo sia redatto, a mano o a macchina, purché sia sottoscritto.

L'atto pubblico è il documento redatto dal pubblico ufficiale (di solito il notaio) che attesta la volontà delle parti.

La scrittura privata può essere autenticata o meno; nel primo caso il notaio non riporta la volontà dei contraenti, ma si limita ad attestare che le parti hanno sottoscritto il documento in sua presenza. Anche se molti atti, in teoria, potrebbero essere redatti nella forma della scrittura privata non autenticata (come i trasferimenti immobiliari), in  pratica ciò non avviene perchè la legge richiede, per la trascrizione dell'atto, perlomeno l'autenticazione delle scritture; il che rende, di fatto, indispensabile la presenza del notaio.

Forma ad substantiam e forma ad probationem 

La forma può essere richiesta ad substantiam, nel qual caso senza di essa l'atto è nullo; oppure ad probationem, nel qual caso l'atto è valido anche se non riveste la forma prescritta, unica sanzione essendo l'impossibilità di provarlo in giudizio.

Talvolta la legge non specifica se una determinata forma sia richiesta ad substantiam o ad probationem, nel qual caso si ritiene debba optarsi per la prima soluzione; se infatti la legge dice che, per le forme volontarie, deve presumersi che la forma sia richiesta per la validità dell'atto, a maggior ragione questa regola dovrà applicarsi alle forme legali.

Modalità di esternazione

a) Il requisito di forma è assolto anche quando il contratto risulta da più dichiarazioni distinte (ad esempio uno scambio di proposta e accettazione). Ciò vale tanto per la scrittura privata quanto per l'atto pubblico.

b) La manifestazione di volontà deve essere bilaterale, salvo il caso in cui la legge prescriva che una delle parti possa manifestare la sua volontà in altro modo (come nel contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, o nel negozio di attuazione); pertanto la dazione di un assegno in conto prezzo non costituisce accettazione scritta e il contratto non è perfezionato, anche se la proposta è stata effettuata nelle forme prescritte.

c) Si ammette che la produzione in giudizio del documento da parte del contraente non firmatario vale come sottoscrizione (purché ovviamente, non sia scaduta la possibilità di accettare, o l'altra parte non abbia revocato la proposta). Questa impostazione giurisprudenziale, che oramai può essere considerata pacifica, è stata criticata da una parte della dottrina; secondo Mirabelli, ad esempio, una dichiarazione del genere può tutt'al più avere valore confessorio dell'esistenza e del contenuto dell'atto ma certo non può supplire al difetto di forma scritta. Ma questa impostazione parte dal presupposto dell'incompatibilità tra dichiarazione tacita e forma scritta; in realtà, come abbiamo visto, quando la dichiarazione deve essere effettuata in forma scritta, questa può anche essere tacita, ed essere desunta implicitamente da un altro atto, purché, ovviamente, scritto.

c) Si afferma che il requisito di forma è assolto solo se nell'atto è esternata la volontà; non vale, invece, un atto dichiarativo, come una quietanza, o un negozio di accertamento.

e) E' dubbio se, nel caso in cui la legge imponga un determinato onere formale, in tale forma debbano essere poste tutte le clausole del contratto, comprese quelle secondarie ed accessorie, o solo quelle attinenti al contenuto minimo, cioè quelle relative agli elementi essenziali. La giurisprudenza è divisa. Secondo alcuni autori non sarebbe possibile che il contenuto di un negozio formale risulti da una fonte che non sia adottata nella forma prescritta.

Altri autori, invece, sostengono che le clausole non essenziali possono anche non rivestire la forma prescritta dalla legge, fermo restando, però, che per esse sarà impossibile darne la prova ai sensi dell'articolo 2722.

f) Il linguaggio usato deve essere comprensibile. Altrimenti deve ritenersi che l'accordo non sia stato esternato in forma adeguata.

Il principio della libertà delle forme

Tesi tradizionale

Il nostro ordinamento sarebbe imperniato, secondo quella che è l'affermazione più ricorrente nella manualistica tradizionale, sul principio della libertà delle forme, a differenza del diritto romano in cui il formalismo era la regola. L'onere formale imposto dalla legge, in quanto limitativo dell'autonomia delle parti, deve considerarsi prescrizione eccezionale, e quindi inestendibile ai casi non previsti, incontrando il divieto dell'analogia sancito per le norme eccezionali. E secondo alcuni autori sarebbe vietato non solo il ricorso all'analogia, ma anche il ricorso all'interpretazione estensiva, che spesso costituisce un comodo scudo per eludere il divieto dell'articolo 14 delle preleggi.

Tale teoria pare trovare conferma nell'articolo 1325, il quale elencando i requisiti del contratto, indica anche la forma, ma solo quando essa risulta prescritta dalla legge a pena di nullità; la norma, insomma, viene interpretata nel senso che, se la legge non prescrive alcuna forma, le parti sono libere di scegliere in tal senso.

Un'altra norma da cui si ricava questo principio è l'articolo 1350, il quale indica i vari atti che devono farsi per iscritto, al numero 13 aggiungendo all'elenco "gli altri atti specialmente indicati dalla legge". Qui l'avverbio specialmente indicherebbe che la prescrizione formale debba essere considerata eccezionale.

Al principio della libertà delle forme si è trovato, tra l'altro, anche un aggancio costituzionale nell'articolo 41 che sancisce il principio di libertà dell'attività economica privata, ravvisando quindi in tutte le norme che impongono un determinato onere formale un limite a tale libertà (Prosperi). e affermando che le forme vincolate, per il loro esasperato tecnicismo, lungi dall'agevolare i soggetti più deboli, spesso li confondono e pregiudicano i loro interessi.

Tesi negativa

Che nel nostro ordinamento viga il principio della libertà delle forme è tutt'altro che pacifico.

Già dal punto di vista meramente filosofico l'idea che l'onere formale comprima la libertà dei contraenti, si basa su di un'idea che, come abbiamo visto altrove, è decisamente troppo utopistica; perché presuppone che la legge sia un limite all'autonomia delle parti, e che l’autonomia sarebbe sconfinata se non fosse compressa dai limiti posti dal legislatore; inoltre essa non è aderente alla pratica, dove spesso la forma tutela il contraente debole rispetto alle sorprese e agli abusi del più forte, o il contraente adempiente rispetto a quello inadempiente. Insomma, come è stato giustamente rilevato, il formalismo può essere ispirato a ragioni di garanzia e alla promozione di interessi e valori diversi, ma non per questo meno importanti, dalla generica libertà (Perlingieri).

Ma anche dal punto di vista teorico e giuridico il principio di libertà delle forme può essere contestato.

In primo luogo si è detto che, per poter affermare che le norme sulla forma siano eccezionali, occorrerebbe rinvenire nel nostro ordinamento una norma regolare che escluda il requisito della forma; ciò che invece non avviene, non essendo possibile rinvenire questa norma nell'articolo 1325 (Irti). L'articolo 1325, infatti, non dice che la forma è un requisito del contratto quando è prescritta dalla legge, bensì "quando risulta prescritta dalla legge". L'espressione risulta sembra riferirsi a un risultato interpretativo, non ad un'esplicita prescrizione normativa. E' l'interprete, quindi che deve stabilire se un determinato negozio deve rivestire una forma determinata o meno.

Né potrebbe ricavarsi dall'articolo 1350, perché l'avverbio specialmente (a parte il fatto che "speciale" non è sinonimo di "eccezionale") va inteso nel senso che, oltre ai numeri dall'1 al 12, che indicano categorie generali di atti, devono farsi per iscritto anche tutti gli altri atti indicati dalla legge non per categorie, ma per specie.

Che le norme sulla forma non siano di ordine pubblico, e quindi inderogabili, lo dimostra inoltre il fatto che, mentre non è possibile che gli atti di uno stato estero possano avere effetto in Italia se sono contrari all'ordine pubblico (articolo 31 delle preleggi), è possibile che la forma dell'atto sia diversa da quella prevista dalla legge italiana (articolo 26); in altre parole, le norme sulla forma non sono norme di ordine pubblico.

In conclusione, sembra di poter affermare che il tanto declamato principio di libertà delle forme ad un'analisi più approfondita non abbia ingresso nel nostro ordinamento; la prescrizione di un dato requisito formale, invece, deve essere effettuata dall'interprete sulla base della ratio della norma, degli effetti del negozio e ricorrendo anche all'analogia.

Tra l'altro, anche gli autori e la giurisprudenza che in linea teorica aderiscono al principio della libertà delle forme, alla fine giungono a estrapolare una serie di oneri formali per fattispecie per le quali il legislatore avrebbe lasciato alle parti libertà di scelta; questo vale per la convalida, prescritta dall'articolo 1444 e per cui la legge non prescrive alcuna forma determinata; per il mandato senza rappresentanza a vendere o ad acquistare immobili; per il contratto misto in cui uno dei contratti di cui il negozio si compone è un contratto per cui la legge richiede la forma scritta; per i negozi risolutori, ecc. In dottrina ad esempio, Mirabelli, dopo aver affermato che il nostro ordinamento è improntato al principio della libertà delle forme, elenca ben tredici casi in cui la forma non è espressamente stabilita dalla legge, ma la si "deduce" dal contenuto delle norme stesse.

Il principio della libertà delle forme sembra quindi vigente solo a parole, mentre nei fatti è disatteso dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che, alla fine, giungono agli stessi risultati operativi degli autori che negano il detto principio.

La forma dei negozi risolutori

Il problema

E' problema discusso e – almeno sembra - insolubile, quello della forma del cosiddetto negozio risolutorio, cioè del negozio con cui si pone nel nulla un precedente contratto, per il quale la legge richiede la forma solenne. Il problema si è posto soprattutto nel campo della contrattazione immobiliare, quando le parti intendono, ad esempio, risolvere un precedente contratto preliminare di vendita immobiliare.

La tesi negativa

A favore della tesi negativa - talvolta seguita anche dalla giurisprudenza della cassazione (Cass. 3816/1988 e 7551/1986) - si porta il cosiddetto principio della libertà delle forme. Il negozio risolutorio, tra l'altro, non trasferisce diritto immobiliari, e quindi necessariamente non è soggetto all'onere formale cui sono assoggettati tutti i negozi che hanno ad oggetto il trasferimento di diritti reali.

Ma questa tesi presuppone operante il principio della libertà delle forme, sul quale, invece, possono nutrirsi seri dubbi.

Tra l'altro anche a voler aderire al principio di libertà delle forme, si può giungere ugualmente a richiedere al contratto risolutorio la stessa forma del negozio di primo grado mediante la tecnica dell'interpretazione estensiva, anziché analogica.

La tesi positiva

A favore della tesi positiva, secondo cui l'atto risolutorio dovrebbe rivestire la stessa forma del negozio che si vorrebbe risolvere invece, giocano diversi argomenti.

Anzitutto esigenze di certezza, nel senso che risulta molto difficile provare che una dichiarazione a struttura forte è stata risolta da una dichiarazione a struttura debole, per cui sussistono maggiori difficoltà di prova.

Inoltre si è detto che il negozio in questione realizza la stessa vicenda del contratto risolto, e quindi dovrebbe essere corretto assoggettarla allo stesso onere di forma, dal momento che ha gli stessi effetti del negozio di primo grado, sia pure in senso inverso.

Altri autori sostengono la necessità della forma scritta attraverso l'elaborazione del principio di simmetria dei negozi accessori; tale principio, in virtù del quale il principio della libertà delle forme sarebbe derogato per tutti quegli atti che vanno ad incidere su un negozio formale, si ricaverebbe dal sistema, e precisamente dagli articoli 1351 (forma del contratto preliminare), 1392 (forma della procura), 1403 (forma della dichiarazione di nomina nel contratto per persona da nominare).

Secondo Galgano, invece, alla necessità della forma scritta può giungersi estrapolando dal codice un principio, secondo cui sono soggetti alla forma scritta non solo tutti gli atti che trasferiscono un bene immobile, ma anche quelli che assolvono ad una funzione strumentale relativamente a vicende immobiliari; ciò lo si deduce in particolare dal numero 12 dell'articolo 1350, ove la forma scritta è prevista per le transazioni che hanno ad oggetto diritti immobiliari.

Le forme convenzionali

Generalità e problemi posti dalla norma

L'istituto delle forme convenzionali non era previsto dal codice del 1865. Tuttavia nella pratica le parti stipulavano spesso dei patti con cui si prevedeva che i contratti intercorrenti tra loro dovevano rivestire una forma determinata. Nonostante patti di questo tipo fossero molto frequenti il problema della loro efficacia e della loro struttura dava non poco filo da torcere agli interpreti, i quali si dividevano tra coloro che ne sostenevano la validità e la vincolatività e coloro che ne sostenevano l'inammissibilità e quindi la nullità.

Il codice del 1942 ha tentato di ovviare a questi problemi con l'articolo 1352, che ha codificato il cosiddetto patto sulla forma:

Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo.

La norma, apparentemente chiara e risolutiva, ha in realtà lasciato aperti gli stessi identici problemi che esistevano sotto il codice abrogato. La norma infatti non dice:

a) se la presunzione in questione sia da considerarsi iuris tantum o iuris et de iure;

b) che succede se le parti adottano di comune accordo una forma diversa rispetto a quella pattuita; stando alla lettera della legge lo dovremmo considerare invalido, ma è anche vero che se le parti, di comune accordo, hanno voluto derogare al patto sulla forma da loro stipulato, forse avevano intenzione di risolvere il patto in questione e allora la sanzione dell'invalidità sembra decisamente fuori luogo;

c) cosa significhi il termine invalidità (spaziando le teorie degli autori dalla nullità all'annullabilità, dall'inefficacia all'inesistenza, fino ad arrivare ad interpretazioni praticamente abroganti della norma, secondo cui anche solo la stipula di un contratto in forma diversa rispetto a quella convenuta costituisce risoluzione tacita del patto precedente).

Nozione di patto sulla forma e natura giuridica

Il patto sulla forma è quello con cui le parti convengono di adottare per uno o più atti una forma determinata; ad esempio Tizio e Caio convengono che tutti i contatti tra di loro stipulati dovranno essere proposti e accettati via fax (o per iscritto, o per atto pubblico, ecc.). Costituisce patto sulla forma l'impegno ad adottare qualsiasi modalità nell'esternazione; quindi anche l'impegno a sottoscrivere bilateralmente il contratto, o l'impegno a stipulare il patto sempre in presenza di testimoni, o ad adottare una determinata lingua straniera.

Il patto può essere autonomo, oppure costituire la clausola accessoria di un altro contratto. Ad esempio in un contratto preliminare le parti possono convenire che il definitivo sarà senz'altro stipulato per atto pubblico e con quattro testimoni.

Il patto sulla forma rientra, secondo l'opinione prevalente, nella categoria dei contratti normativi, cioè di quei contratti con cui i contraenti pongono a stessi delle regole da seguire nei loro rapporti futuri. Mentre non sembra da accogliere la tesi secondo cui si tratterebbe di un contratto preliminare, in quanto i contraenti non assumono alcun impegno di contrarre, ma solo l'impegno a contrarre in una determinata forma, il che è ben diverso.

E' discusso se la norma si applichi anche agli atti unilaterali, in virtù del rimando che l'articolo 1324 opera alle norme sui contratti. Alcuni autori sostengono la tesi positiva ed è stato fatto l’esempio di Tizio, che propone ai sensi dell'articolo 1987 di pagare una certa somma a chi gli presenta il disegno più originale, imponendo di inviare il lavoro su dischetto. Gazzoni fa l'esempio del contratto di lavoro con cui si conviene che il recesso potrà essere esercitato solo per raccomandata.

Sembra però più convincente la tesi negativa (Mirabelli). Gli esempi sopra, infatti, non sono negozi unilaterali con cui un soggetto si vincola ad una forma determinata; nel primo caso colui che fa la promessa impone al soggetto promissario un determinato onere formale, ma in ciò non si deroga alla disciplina ordinaria della promessa al pubblico; se invece Tizio e Caio convengono che il recesso debba rivestire una certa forma siamo sempre nel campo dell'accordo bilaterale; il problema dell'estensibilità agli atti unilaterali dell'articolo 1351 è invece diverso, nel senso che ci si domanda se un soggetto possa impegnarsi unilateralmente verso un altro ad assumere impegni solo in una determinata forma. La risposta negativa sembra preferibile, non tanto in virtù del principio della tipicità della promessa unilaterale (di cui altrove abbiamo dimostrato l'infondatezza) o della presunta mancanza di causa di una promessa del genere (attesa la genericità del concetto di causa) quanto per il fatto che una promessa del genere sarebbe priva di effetti, perché il promittente potrebbe revocare tale promessa con assoluta libertà; ed è questo che impedisce di considerare obbligatoria una promessa del genere.

Natura giuridica della presunzione di validità

In primo luogo occorre domandarsi se la legge abbia voluto porre una presunzione iuris tantum o iuris et de iure. In quest'ultimo caso alla violazione del patto conseguirebbe senz'altro la sanzione della nullità; nel primo caso, invece, sarà necessaria un'indagine caso per caso onde accertare se, stipulando il patto in forma diversa, le parti non avessero magari avuto l'intenzione di abrogare il precedente patto sulla forma.

La questione è intimamente connessa con un'altra, quella della sorte del contratto concluso violando la forma convenzionale pattuita dalle parti.

Qualcuno ha sostenuto che la norma sarebbe valida solo in caso di violazione unilaterale del patto, perché, quando la violazione fosse bilaterale, vorrebbe dire in qualunque caso che le parti hanno voluto revocare il precedente patto sulla forma.

Insostenibile ci pare la tesi secondo cui la violazione (bilaterale) del patto sulla forma comporta l'inesistenza del patto per la totale irrilevanza del consenso. La tesi si basa sull'assunto che la sanzione in esame non potrebbe essere la nullità, in quanto non è ravvisabile alcun contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento né manca alcun elemento essenziale.

Ma l'inesistenza non è una sanzione legale; si tratta infatti di un fenomeno che ricorre quando l'atto manca del tutto di qualsiasi requisito minimo perché possa individuarsi un contratto; e certo non potrebbe dirsi inesistente un contratto, che ad esempio, fosse stipulato in forma scritta solo perché le parti avevano stabilito che dovesse essere redatto in forma pubblica. Tra l'altro la legge dispone espressamente che la mancanza del consenso comporti la nullità del contratto, mentre l’articolo 1352 fa riferimento alla invalidità (dice infatti “si presume che sia stata voluta per la validità di questo”); e dunque non si capisce come si possa trarne una conseguenza grave come l'inesistenza (Messineo).

Secondo altri si tratterebbe di una invalidità particolare; una specie di nullità relativa, cui la parte interessata può rinunciarvi, dando esecuzione al contratto, oppure farla valere.

Secondo la dottrina prevalente il patto sarebbe nullo e tale nullità sarebbe la conseguenza della violazione di una forma prescritta dalla legge ad substantiam. A tale tesi si sono fatte varie repliche; si è detto che la nullità sarebbe disposta sempre a tutela di interessi generali, e non si adatta quindi alla tutela di un interesse particolare, come deve considerarsi la necessità dell'onere formale voluto dalle parti. Inoltre si è detto che la nullità può essere rilevata d'ufficio e fatta valere da chiunque vi abbia interesse; mentre la violazione di un patto sulla forma non potrebbe mai essere rilevata d'ufficio dal giudice (che non sarebbe in grado di conoscerla) né potrebbe trovarsi qualcun altro, oltre alle parti, che abbiano interesse a rilevare il vizio di forma.

La teoria prevalente è comunque quella della nullità, mentre le critiche ad essa sono tutt'altro che convincenti. Quanto alla materiale irrilevabilità della violazione da parte del giudice, questo non è certo un ostacolo serio ad ammettere la nullità, perché quando esiste una regola essa deve essere osservata indipendentemente dalla sua effettiva utilizzabilità. Quanto al fatto che la nullità è sempre posta a tutela di interessi generali questo è senz'altro falso, dato che le leggi speciali conoscono molteplici ipotesi di nullità che dipendono da motivi che sarebbe arduo definire di interesse generale. E sarebbe poi tutto da dimostrare che l'interesse tutelato dalla norma in questione sia un interesse particolare e non generale (l'interesse tutelato, infatti, sarebbe identico a quello sotteso a molte delle ipotesi in cui la legge richiede la forma scritta per un determinato atto).

Il motivo per cui la tesi della nullità non ha soddisfatto del tutto gli interpreti, forse, risiede altrove; e precisamente ciò che non convince è il fatto che se le parti stipulano bilateralmente un contratto senza rispettare l'onere formale che si sono imposte, pare difficile concludere per la nullità di tale accordo, che deve piuttosto considerarsi come una revoca implicita del precedente patto sulla forma.

Più convincente, forse è la tesi dell'inefficacia. Il percorso logico svolto dai sostenitori di questa tesi è il seguente: l'inefficacia non è una vera e propria sanzione, ma è una conseguenza che discende dall'essere il contratto invalido, oppure mancante di un requisito integrativo (condizione, termine, determinazione fatta dall'arbitratore, ecc.). Ora, in tal caso manca appunto un requisito integrativo dell'efficacia; perché se le parti hanno voluto che uno o più contratti da loro stipulati debbano rivestire una certa forma, vuol dire anche che questa forma l'hanno voluta come condizione di efficacia dei loro accordi successivi. Di conseguenza la mancanza della forma prescritta riceverà lo stesso trattamento che ricevono gli altri requisiti di efficacia, come la condizione.

Certamente questa tesi urta contro il chiaro dettato letterale della legge, che parla di validità, e non di efficacia, ma occorre considerare che la legge non è mai così precisa e usa spesso i termini "validità" "efficacia", "esistenza", ecc., in maniera impropria.

Tale tesi, secondo Bianca, consente di spiegare come e perché la parte interessata possa avvalersi di tale inefficacia, oppure scegliere di rinunciarvi facendo recuperare al contratto la sua efficacia.

La ripetizione del contratto

Nozione e distinzione da figure affini

Per ripetizione del contratto si intende la esternazione di una nuova dichiarazione contrattuale, identica nel suo contenuto ad una dichiarazione precedente. Tipico è il caso in cui le parti, avendo stipulato l'accordo in forma di scrittura privata, decidono di stipularlo nuovamente in forma di atto pubblico.

I motivi per cui le parti possono decidere di ripetere il contratto possono essere diversi; può esserci l'esigenza di precostituire una prova, oppure di consacrare l'accordo con una forma che garantisca maggiore certezza, o di rinnovare un contratto smarrito, oppure di redigere un documento ai fini della trascrizione (ad esempio concludendo un contratto di vendita immobiliare per scrittura privata non autenticata l'accordo, pur se valido, non è trascrivibile).

Questo istituto deve distinguersi da una serie di altre figure affini: tenendo presente che la terminologia non sempre concorda abbiamo:

1) la ricognizione, che è una dichiarazione di scienza con cui le parti attestano l'avvenuta stipulazione; con la ricognizione le parti confessano il fatto avvenuto; con la ripetizione invece, si ha un vero e proprio rinnovo del consenso

2) La rinnovazione del documento (da non confondersi con la rinnovazione del contratto nullo), cioè quando le parti riproducono il documento nuovamente, per averlo perso, oppure per scriverlo in modo più corretto; qui il documento nuovo è identico al precedente e lo sostituisce in pieno e ha quindi una funzione essenzialmente probatoria; Con la ripetizione, invece, il nuovo documento si aggiunge al precedente.

3) La riproduzione, che si ha quando le parti fanno più copie dello stesso documento; in tal caso non c'è alcuna rinnovazione del consenso e nessuna innovazione, neanche formale, rispetto alla situazione preesistente; è il caso, ad esempio, del testatore che fa più copie dello stesso testamento, o della copia redatta ad uso dell'altra parte, o per la registrazione, ecc..

Un caso di ripetizione legale sembra essere quello dell'articolo 1543, per la vendita di eredità.

Natura giuridica

Il fenomeno della ripetizione presenta aspetti singolari, difficilmente ricostruibili in chiave sistematica. Certamente è da escludere l'ipotesi prospettata da Sacco, che il secondo contratto ripetuto (incidendo su di un oggetto impossibile, perché il diritto già è stato trasferito col primo contratto) sia nullo per impossibilità dell'oggetto; la diffusione pratica del fenomeno e la assoluta concordia della dottrina e della giurisprudenza nel ritenere valida l'operazione, invitano a partire dall'idea della sua ammissibilità; mentre sembra consigliabile - per usare le stesse parole dell'autore - tenersi alla larga da simili elucubrazioni logiche, pure teoricamente ammissibili.

Teoria dell'integrazione formale del contratto

Secondo questa tesi il fenomeno della ripetizione è nient'altro che un caso di integrazione formale del contratto. Il precedente contratto, cioè rimane immutato in tutto e per tutto tranne che per la forma. Contro questa teoria si è detto che in tal modo si svaluta il ruolo della volontà, che pure deve esserci, nel senso che i contraenti non si limitano a integrare il contratto dal punto di vista solo formale, ma rinnovano effettivamente il consenso.

Teoria del negozio novativo

Neanche può accogliersi la teoria del fenomeno novativo, atteso che la novazione sostituisce il titolo o l'oggetto, che invece in tal caso rimangono intatti. L'idea del fenomeno novativo potrebbe accogliersi solo nell'ipotesi in cui le parti modifichino l'oggetto del negozio, nel qual caso, però, non può più parlarsi di negozio riproduttivo.

Teoria della duplicità di fonti

Secondo Bianca, dal momento che la rinnovazione del contratto si traduce in una rinnovazione del consenso, sia pure in forma identica alla precedente, l'operazione mira a produrre un'altra fonte dello stesso rapporto; abbiamo quindi un unico rapporto contrattuale che viene ad avere due fonti distinte.

A questa teoria è stato obbiettato da Gazzoni che:

a) non può dissociarsi il contratto dalla sua forma (ma non si capisce perché);

b) non possono manifestarsi due consensi identici in momenti diversi; il che è vero, ma l'autore dimentica che il nuovo contratto è in tutto e per tutto identico, tranne che per la forma; le parti, cioè, non manifestano un consenso in tutto e per tutto identico, perché perlomeno è ravvisabile la volontà di dare una forma diversa al negozio.

c) un negozio avente ad oggetto un rapporto già costituito risulta inutile. Ma che non sia inutile lo abbiamo detto all'inizio; l'utilità risulta infatti dalle ragioni che abbiamo elencato all'inizio.

Disciplina

Ci si chiede cosa succede se il contratto ripetuto diverge da quello precedente.

Se la divergenza è voluta allora non c'è dubbio che il nuovo contratto si sostituisce in tutto e per tutto al precedente, e dunque si avrà o una novazione o comunque un contratto modificativo.

Se invece la divergenza è dovuta ad un errore allora la questione si complica, perché è difficile stabilire se debba rimanere in vita la nuova dichiarazione o la vecchia; sembra da escludere la soluzione dell'annullabilità per errore (che può invocarsi solo se esso sia essenziale e riconoscibile); probabilmente è corretta la teoria che vi ravvisa un caso di nullità per mancanza dell'oggetto, o forse del consenso, dato che la volontà si è formata su un oggetto diverso rispetto a quello creduto.

Se il primo contratto è annullabile la ripetizione di esso può anche sanarne i vizi; tuttavia può profilarsi l'annullabilità, del negozio ripetuto per errore di diritto, quando la convinzione della necessità di rinnovare il consenso sia stata la ragione determinante del contratto.

La sottoscrizione al buio, la firma in bianco e la dichiarazione sotto falso nome

Sottoscrizione al buio

Si parla di sottoscrizione al buio quando un soggetto firma un contratto senza leggerne il contenuto. In tal caso l'autore della dichiarazione è vincolato alla sua dichiarazione per il principio di autoresponsabilità e di affidamento, nel senso che è assoggettato alle conseguenze di essa secondo il suo significato oggettivo, dato che l'altro contraente fa affidamento sulle dichiarazione.

Nel caso, invece, in cui il soggetto che ha predisposto il testo sappia che la sottoscrizione dell'altro è avvenuta al buio, e il contratto contenga clausole a sorpresa, che esulano i normali termini di un accordo contrattuale, allora non c'è affidamento da tutelare, e si potranno applicare i principi relativi ai vizi della volontà, in particolare errore e dolo.

La firma in bianco

Diverso, invece è il caso della firma in bianco, ciò che avviene quando il soggetto firma un documento vuoto che sarà poi riempito dall'altra parte. Anche in questo caso il soggetto è vincolato, perché in tal modo autorizza l'altra parte a riempire il documento, accettandone preventivamente le condizioni. Il problema si pone quando colui che riempie il foglio non ha alcuna autorizzazione o eccede i limiti consentiti.

Nel primo caso (mancanza di autorizzazione) gli effetti dell'atto ricadranno su colui che ha riempito il foglio, salva la possibilità di ratificare il contenuto del documento da parte del firmatario.

Nel secondo caso (eccesso rispetto ai limiti consentiti) secondo Bianca il firmatario deve subire gli effetti della dichiarazione in base al principio dell'apparenza imputabile.

La dichiarazione sotto falso nome

E' frequente che un soggetto si impegni contrattualmente sotto nome altrui nel qual caso ci si deve chiedere che valore abbia una dichiarazione del genere. In linea di massima possono prospettarsi ipotesi ricostruttive diverse.

1) Nullità per mancanza dell'accordo tra le parti, salva ovviamente la responsabilità del soggetto che ha emesso la firma falsa;

2) La dichiarazione va considerata come atto di gestione di un patrimonio altrui, con possibilità di ratifica da parte del soggetto di cui si sia speso il nome.

In qualunque, caso, quando l'identità del dichiarante è irrilevante, il che avviene nella maggior parte dei contratti che non sono intuitu personae, la dichiarazione avrà effetti nei confronti del dichiarante vero.

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