Penale

Falsa testimonianza

AltalexPedia, voce agg. al 13/07/2017

E' il delitto commesso da chi “deponendo come testimone innanzi all'Autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato” (art. 372 c.p.).


Falsa testimonianza

di Anna Larussa

1. Reato di pericolo

2. Soggetto passivo

3. Soggetto attivo

4. Elemento materiale

5. Rilevanza della deposizione testimoniale falsa

6. Elemento psicologico

7. Momento consumativo e tentativo

8. Circostanze aggravanti (art. 383 bis c.p.)

9. Ritrattazione (art. 376 c.p.)

10. Cause di non punibilità (art. 384 c.p.)

11. Profili procedimentali 

12. Bibliografia essenziale

1. Reato di pericolo

La disposizione normativa che prevede e punisce il delitto di falsa testimonianza, art. 372 c.p., risulta collocata nel titolo III – delitti contro l'amministrazione della giustizia – del libro II del codice penale: la ratio dell'incriminazione del delitto in questione è quella di assicurare, attraverso la veridicità e la completezza delle testimonianze, il normale funzionamento dell'attività giudiziaria, che potrebbe essere fuorviata da deposizioni non vere e o reticenti. Trattandosi di reato di pericolo, per la sua sussistenza è sufficiente che il fatto, oggetto della deposizione testimoniale, sia pertinente alla causa e suscettibile di portare un contributo, sia pure astratto, alla decisione giudiziaria anche se, in concreto, le dichiarazioni non hanno influito sulla decisione del giudice; la valutazione sulla pertinenza e sulla rilevanza della deposizione va effettuata con riferimento alla situazione processuale esistente al momento in cui il reato è consumato, ossia ex ante, e a riguardo la giurisprudenza ha precisato che la pertinenza denota la riferibilità o afferenza dell'oggetto della testimonianza che si assume falsa, nella sua triplice modalità esecutiva, commissiva (affermare il falso, negare il vero) od omissiva (reticenza), ai fatti che il processo è destinato ad accertare e giudicare; la rilevanza attiene, invece, più specificamente alla efficacia probatoria di quegli stessi fatti e circostanze, cioè alla loro capacità di falsa rappresentazione in grado di influire, deviandola dalla autentica e genuina verità processuale, sulla decisione del processo (Cass. Pen., Sez. VI, n. 20656 del 22/11/2011, De Gennaro, Rv. 252628)

Deve comunque ritenersi, in omaggio al principio di necessaria offensività, che il delitto di falsa testimonianza non sussista quando i fatti posti ad oggetto della dichiarazione falsa o reticente, risultino a priori irrilevanti ai fini della decisione, così che la deposizione non risulti idonea ad incidere sul corretto funzionamento dell'attività giudiziaria (Corte d'Appello Roma, Sezione III, Sentenza 28 gennaio 2016, n. 456)

2. Soggetto passivo

Poichè nel reato di falsa testimonianza il bene giuridico protetto è il normale svolgimento dell'attività giudiziaria, soggetto passivo del medesimo è la collettività che ha interesse all'ordinato e corretto svolgimento dell'attività giurisdizionale; la giurisprudenza esclude che possa considerarsi persona offesa la persona cui dalla violazione della norma siano derivati danni rilevanti e risarcibili sul piano civile (cfr. Cass. Pen. Sez. VI 04 dicembre 2006 n. 8967, Cass. Pen. Sez. V 8 novembre 2000 n. 4627, Cass. Pen. Sez. VI 09 novembre 2006 n. 41344); chi scrive ritiene tuttavia che come per i reati contro la pubblica amministrazione, per i quali progressivamente si è andato valorizzando l'aspetto plurioffensivo, del pari altrettanto dovrebbe farsi per i reati contro l'amministrazione della giustizia come quello di cui trattasi, consentendo di conseguenza al danneggiato dal reato, denunciante, di poter essere informato della richiesta di archiviazione e di poter formulare opposizione (in tal senso si veda Cass. Pen. Sez. VI09/06/1997 n. 2285 in Cass. Pen. 1998, 1627 s.m.: “Il delitto di falsa testimonianza è reato contro l'amministrazione della giustizia e pertanto parte offesa principale va considerata innanzitutto lo Stato. La norma contenuta nell'art. 372 c.p. tutela però anche l'interesse del privato leso dalla falsa testimonianza. Ne consegue che il richiedente interessato riveste la posizione di persona offesa (secondaria) del reato in parola, tutelata come tale dalle garanzie procedimentali previste dagli artt. 408 410 c.p.p., a cominciare dal diritto della notifica dell'avviso della richiesta di archiviazione del p.m.”). Tale conclusione presuppone la considerazione secondo cui il corretto funzionamento del giudizio è oggetto di tutela che fa capo non solo alla collettività ma anche a chi in quel giudizio, in cui si è paventato concretamente il pericolo di fuorviamento dell'attività giudiziaria, ha subito il pregiudizio di una deposizione falsa e o reticente. In altre parole, il reato in questione, “oltre a tutelare il bene giuridico primario rappresentato dal regolare svolgimento del processo in funzione dell'amministrazione della giustizia, sarebbe altresì volto a garantire in via secondaria anche un interesse di natura privata, consistente nel prevenire ed eventualmente reprimere le conseguenze negative, che possano riverberarsi sulla sfera giuridico -patrimoniale dei soggetti privati a sfavore dei quali la falsa testimonianza si rivolga” (Scibona Ruggero).

3. Soggetto attivo

Soggetto attivo del reato in questione può essere soltanto chi depone come testimone dinanzi all'Autorità giudiziaria. Trattasi pertanto di reato proprio, ad attuazione personale.

Come noto, testimone è il soggetto terzo, rispetto ai fatti di cui è causa che rende una dichiarazione orale di scienza su fatti rilevanti per la decisione con l'obbligo giuridico di dire la verità, previa assunzione di un espresso impegno in tal senso e, inoltre, previa ammonizione del giudice sulle conseguenze sanzionatorie delle dichiarazioni false o reticenti.

La disciplina della testimonianza è dettata dal legislatore processuale civile e penale con riguardo, rispettivamente, al processo di cognizione ordinario (libro II del c.p.c.) e al giudizio dibattimentale (libro VII c. p.p.); l'applicazione delle norme sulla prova testimoniale ad altre tipologie di procedimenti o ad altri contesti processuali non compare nei codici di rito sotto forma di una norma generale di rinvio, ma è invece affidata a singole e specifiche disposizioni, quale ad esempio nel processo penale l'art. 422, comma 2 c.p.p. in tema di udienza preliminare. Da ciò si desume la volontà del legislatore di concepire la testimonianza come mezzo di prova tipico, e peculiare del processo di cognizione ordinario, salve specifiche norme di richiamo.

Poichè, per il principio di tassatività della fattispecie incriminatrice, per testimonianza non può che intendersi il mezzo di prova tipico e per testimone il soggetto attraverso il quale si assume, deve escludersi la configurazione del reato qualora non si versi nell'alveo soggettivo che rende possibile l'imputazione del reato. Il problema si è posto nella prassi con riferimento alle dichiarazioni che il terzo possa rendere nel procedimento ex art. 669 duodecies c.p.c. L'art. 669 duodecies c. p.c. non menziona né la testimonianza né i mezzi di prova che il giudice può assumere in questa sede e neppure contiene un rinvio alle norme del libro II in materia di istruzione probatoria: ciò in quanto la norma non prevede una fase istruttoria, che si svolge solo se e nei limiti in cui sia ritenuta necessaria dal giudice per l'adozione dei "provvedimenti opportuni". Tali dati di fatto bastano a tratteggiare il carattere assolutamente atipico e informale che il legislatore ha attribuito al procedimento ex art. 669 duodecies e all'attività istruttoria che, eventualmente, si svolga al suo interno. Questo non significa, ovviamente, che tale attività istruttoria non possa di fatto modellarsi sui mezzi di prova tipici ivi disciplinati e quindi anche sulla testimonianza; ma, se questo avviene, lo si dovrà ad una mera scelta discrezionale del giudice, dalla quale non può certo derivare l'imposizione a terzi di obblighi, penalmente sanzionati, previsti dalla legge per altre fattispecie processuali. Ragionando così, evidentemente, si finirebbe per violare il principio di tassatività della norma penale: se infatti non si possono far rifluire nell'alveo della testimonianza fattispecie analoghe, a maggior ragione non si possono far rientrare al suo interno dichiarazioni che, come nel caso dell'art. 669 duodecies, la legge non prevede nemmeno. È chiaro, oltretutto, che tale interpretazione in malam partem avrebbe addirittura l'effetto di rimettere al giudice il compito di integrare un elemento della fattispecie penale, attraverso la sua scelta, contingente e non controllabile, di assumere o meno la prova con le forme della testimonianza. Con questi presupposti, si deve ritenere che non sia qualificabile come testimonianza la dichiarazione resa da terzi estranei alla controversia nel procedimento speciale de quo.

Discorso diverso deve farsi con riferimento ai soggetti per i quali sia normativamente prevista la facoltà di non testimoniare e che rinuncino ad avvalersi della stessa, soggiacendo in conseguenza all'impegno connesso all'ufficio testimoniale e alle connesse responsabilità.

4. Elemento materiale

L'art. 372 c.p. prevede la realizzazione del reato attraverso una forma commissiva (l'affermazione del falso o la negazione del vero) e una forma omissiva (la reticenza). Le condotte descritte sono penalmente equivalenti, il che significa che è sufficiente l'integrazione anche di una sola di esse perché sussista il reato; l'unicità di quest'ultimo non viene tuttavia meno se, nel contesto di un'unica deposizione, il soggetto pone in essere più condotte tra quelle descritte nella norma.

Quanto alla forma commissiva, per la determinazione del concetto di falsità della testimonianza - sia nel suo aspetto positivo, come affermazione del falso, che nel suo aspetto negativo, come negazione del vero - appare ormai comunemente accolta tanto in dottrina quanto in giurisprudenza (cfr. ex plurimis: Cass. Pen. Sez. VI, 30.5.1995 n. 8639, Rossi, rv. 202563; Cass. Pen. Sez. VI,16.3.1998 n. 5571, Mezzetti, rv. 210649; Cass Pen. . Sez. VI, 20.1.2003 n. 5745, Carrozza, rv. 223568; Cass. Pen. Sez. VI, 26.1.2010 n. 7358, Tedeschi, rv. 246175) la teoria del c.d. vero soggettivo: secondo tale teoria, per la configurabilità della falsa testimonianza è dirimente non già il contrasto tra il fatto rappresentato dal soggetto e il fatto realmente accaduto, ma il contrasto tra la rappresentazione che il soggetto faccia della sua percezione di un dato fatto e la diversa percezione che in realtà il soggetto abbia avuto di quel fatto o addirittura la radicale mancanza di percezione in ordine a quel fatto. Tale concezione ebbe origine da Francesco Carrara, il quale affermò che “il criterio della falsità della testimonianza, non dipende dal rapporto tra il detto e la realtà delle cose, ma dal rapporto tra il detto e la scienza del testimonio” (CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, V, Lucca, 1881).

A supporto di tale teoria è facile rilevare come l'obbligo che la legge prescrive al testimone sia quello di riferire esattamente il risultato delle sue percezioni e non già la verità obiettiva. La principale obiezione che si muove alla teoria soggettivistica è quella per cui essa legittimerebbe le testimonianze create ad hoc per provare fatti veri. Orbene, non vi è dubbio che sia responsabile di falsità chi dichiara falsamente di aver visto un soggetto in un luogo determinato, essendo assolutamente certo che tale soggetto in quel luogo vi si trovava realmente. Ma, a ben vedere, in tale caso la dichiarazione apparentemente conforme al vero oggettivo, è falsa non solo soggettivamente ma anche oggettivamente poichè se il dichiarante afferma una diretta percezione di fatti in realtà non percepiti, la dichiarazione è comunque oggettivamente falsa, pur se essa conferma una circostanza vera.

5. Rilevanza della deposizione testimoniale falsa

Il delitto di falsa testimonianza è configurabile quando la falsità cade su circostanze rilevanti nel processo, cioè pertinenti rispetto all'oggetto dell'accertamento processuale, in quanto il delitto in esame è rivolto a tutelare il corretto svolgimento dell'attività giudiziaria sicchè il fatto commesso deve avere la possibilità di determinare un effetto fuorviante del corretto svolgimento della medesima attività. In ragione di ciò il reato va escluso qualora la testimonianza abbia ad oggetto fatti del tutto estranei al giudizio ovvero privi di efficacia probatoria, perché, avendo riguardo al principio di offensività, in tali casi la testimonianza si rivela inidonea ad alterare il convincimento del giudice e, conseguentemente, ad incidere sul normale funzionamento della giustizia. In altri termini, si rivela inidonea a ledere l'interesse tutelato dalla norma.

6. Elemento psicologico

Il delitto di falsa testimonianza è un reato a dolo generico, per il cui perfezionamento è sufficiente, nella forma commissiva, il cosciente intendimento di dichiarare fatti o condotte non rispondenti al vero o, più esattamente, alla conoscenza che degli stessi possieda il testimone dichiarante; nella forma omissiva, il cosciente intendimento di tacere su circostanze rilevanti per l'accertamento dei fatti.

Non rileva in alcun modo, nell'integrazione dell'elemento soggettivo del reato, la finalità per la quale il testimone si determini in un senso (dichiarazione falsa / negazione del vero) o nell'altro (reticenza).

7. Momento consumativo e tentativo

Il delitto in questione ha natura istantanea e unisussistente (unico actu perficitur) realizzandosi non appena sia stata resa la deposizione e il giudice ne abbia preso atto, nella sua duplice forma dichiarativa od omissiva (reticenza), a nulla rilevando la possibilità per il giudice di trarre da altre fonti di prova elementi per la conoscenza della verità o di quanto taciuto dal testimone.

Trattandosi di reato unisussistente e di pericolo lo stesso è incompatibile con la realizzazione in forma tentata.

Quanto alla reiterazione della condotta tipica in momenti diversi della stessa fase processuale o in gradi diversi dello stesso giudizio devono ritenersi integrati distinti reati, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione con il primo.

8. Circostanze aggravanti (art. 383 bis c.p.)

Al delitto di falsa testimonianza sono applicabili le circostanze aggravanti previste dall'art. 383 bis c.p.: si tratta di circostanze di natura oggettiva ai sensi dell'art. 70 comma 1 n. 1 c.p., come tali estensibili ad eventuali correi, configuranti tre diversi aumenti di pena in rapporto alla diversa entità della pena inflitta dalla sentenza di condanna scaturita dalla falsa testimonianza (trattasi pertanto di circostanze autonome o indipendenti): la pena è della reclusione da quattro a dieci anni se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non superiore a cinque anni; è della reclusione da sei a quattordici anni se dal fatto deriva una condanna superiore a cinque anni; è della reclusione da otto a venti anni se dal fatto deriva una condanna all'ergastolo. Ai fini dell'aumento è necessario tuttavia che la sentenza sia passata in giudicato e che l'esito nel senso della condanna sia causalmente riconducibile alla falsa testimonianza ovvero il mendacio abbia determinato la decisione.

9. Ritrattazione (art. 376 c.p.)

Al delitto di falsa testimonianza è applicabile la previsione di cui all'art. 376 c.p. che esclude la punibilità per colui che ritratti il falso e manifesti il vero, nel procedimento penale, prima della chiusura del dibattimento, nel procedimento civile, prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva anche se non irrevocabile.

La ritrattazione opera dunque come causa di esclusione della punibilità, purchè sia accompagnata dalla manifestazione del vero e intervenga nei termini indicati dalla norma.

La ritrattazione non è efficace ad escludere la punibilità del reato se effettuata in un processo diverso da quello in cui si è consumato il reato-presupposto, a nulla rilevando che la medesima sia venuta a conoscenza dell'autorità giudiziaria competente per quest'ultimo e che l'abbia utilizzata assieme ad altri elementi processuali. Nell'ipotesi di falsa testimonianza intervenuta in una causa civile, la ritrattazione può operativamente intervenire, con efficacia esclusiva della punibilità, anche nel processo penale per falsa testimonianza, alla condizione prevista dalla legge che sulla domanda giudiziale non sia ancora stata pronunciata sentenza definitiva, ancorché non irrevocabile: tale principio appare corrispondente a criteri di giustizia obiettiva, poiché parifica la ritrattazione resa nello stesso processo civile a quella resa nel processo penale per falsa testimonianza in pendenza del processo civile nel quale è utilizzabile.

Una questione di particolare interesse pratico, sulla quale si è registrato un persistente contrasto interpretativo è se la causa di non punibilità, prevista dall'art. 376 cod. pen. in caso di ritrattazione della falsa testimonianza, si estenda anche a beneficio del concorrente istigatore. A riguardo si sono contrapposti sostanzialmente due orientamenti interpretativi: l'uno diretto a configurare la ritrattazione come una causa soggettiva di esclusione della punibilità, in quanto fondata sull'emenda psicologica verificatasi nell'animo del falso testimone (Cass., Sez. III, 28.3.1957, ric. Masiero), con conseguente attribuibilità solo al suo autore e non anche all'istigatore, estraneo al processo psicolologico ed alla volontà riparatoria del testimone ritrattante; l'altro volto a configurare la ritrattazione come causa di cessazione della punibilità attinente all'oggetto del reato con connaturale necessaria estensione dell'effetto della non punibilità al correo istigatore ex art. 119 c.p.p.. Quest'ultimo indirizzo, recepito dalle Sezioni Unite una prima volta (sentenza n. 18 del 23 novembre 1985, ric. P.G. in proc. Cottone depositata il 10.4.1986) è stato poi abbandonato dallo stesso autorevole Consesso (Cass. Pen. Sez. Un., Sentenza 7 novembre 2002, n. 37503) per affermare il principio secondo il quale la causa sopravvenuta di non punibilità, prevista dall'art. 376 cod. pen. è circostanza di carattere soggettivo che può operare nei confronti dell'istigatore, concorrente nel reato di cui all'art. 372 cod. pen., esclusivamente qualora questi abbia arrecato un decisivo contributo causale alla neutralizzazione del fatto lesivo dell'interesse alla realizzazione del giusto processo. Ciò sull'assunto secondo cui la ritrattazione muove da un atto di volontà individuale e ha pertanto effetto soltanto riguardo alla persona che si è determinata alla riparazione mentre non può spiegare influenza sulla valutazione del fatto degli altri compartecipi. La stessa formulazione testuale delle norma, nell'affermare che taluno "non è punibile se ritratta ... il falso" manifestando il quale abbia commesso un certo reato, vuol significare che alla ritrattazione si deve l'estinguersi della punibilità derivante dalla commissione di quel reato. In conclusione la ritrattazione, qualora sia estranea alla condotta dell'istigatore o addirittura con essa confliggente, non può riverberare effetti sul medesimo concorrente morale proprio perché è un fatto del terzo e, sarebbe ingiusto che apportasse vantaggi a chi nulla ha fatto per suscitarlo. Diverso è, invece, il caso in cui la ritrattazione sia il risultato del comportamento attivo dell'istigatore, rivolto a sollecitarla per annullare gli effetti del falso commesso dall'autore materiale, in quanto si verifica in detta ipotesi una sorta di "concorso nella ritrattazione" che ben può legittimare l'estensione ad entrambi i soggetti dell'esenzione della punibilità.

10. Cause di non punibilità (art. 384 c.p.)

L'art. 384 c.p. contempla una causa speciale di non punibilità qualora la falsa testimonianza sia stata commessa da chi vi sia stato costretto per salvare sè stesso o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore (c. 1), ovvero da chi per legge non avrebbe dovuto essere assunto come testimone, o non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque rispondere, o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza (c. 2). Si tratta di ipotesi diverse in quanto mentre il comma 1 presuppone che l'escussione sia avvenuta legittimamente, il comma 2 dell'art. 384 c.p. riguarda ipotesi in cui la testimonianza è assunta non iure.

Sull'ipotesi contemplata dal comma 1 sono intervenute le Sezioni Unite a dirimere il contrasto giurisprudenziale registrato in ordine alla eventuale applicabilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p. al prossimo congiunto che, chiamato a deporre e ritualmente avvisato ex art. 199 c.p.p., non si sia avvalso della facoltà di non rispondere normativamente concessa e abbia reso dichiarazioni mendaci. Sul punto erano maturati due diversi orientamenti interpretativi: l'uno diretto ad escluderne l' applicazione nel caso in cui l'agente avesse volontariamente posto in essere la situazione di pericolo, atteso che la facoltà di astenersi concede al testimone una possibilità di scelta, facendo venir meno l'inevitabilità del nocumento derivante da una testimonianza non veritiera; l'altro volto a consentirne l'operatività trattandosi di un'ipotesi speciale di stato di necessità caratterizzata dalla non volontaria determinazione della situazione di pericolo e l'altrimenti evitabilità. Le Sezioni Unite riconoscendo, in linea con il primo dei suesposti indirizzi giurisprudenziali che alla base dell'art. 384 c.p. e dell'art. 199 c.p.p. sta il principio nemo tenetur se detergere e la salvaguardia dei vincoli di solidarietà familiare hanno statuito che «la causa di esclusione della punibilità per il delitto di falsa testimonianza, prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore, non opera nell'ipotesi in cui il testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito della facoltà di astenersi» (Cass. Pen., Sezione Unite, 14 febbraio 2008, n. 7208).

11. Profili procedimentali

Il delitto di falsa testimonianza è procedibile d'ufficio, è rimesso alla competenza del tribunale monocratico nell'ambito del procedimento ordinario con udienza preliminare e si prescrive nel termine ordinario di sei anni

12. Bibliografia essenziale

Fiandaca – Musco, Diritto penale, parte speciale, vol. I, ed. II, Zanichelli, p. 368 e la bibliografia ivi citata; Crespi-Stella-Zuccalà, Commentario breve al codice penale, Padova, Cedam, sub art. 372; AA. VV. Codice penale a cura di Padovani, Tomo II, Milano, 2014, sub. Art. 372 c.p. 2315 ss; Caringella -De Palma – Farini - Trinci, Manuale di Diritto penale, parte speciale, p.328 ss Roma, 2010

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