Il problema della legge applicabile al contratto internazionale

Articolo, 01/09/2005

Il problema della determinazione della legge applicabile al contratto internazionale

di Danilo Desiderio
(Avvocato in Avellino)

Quello della scelta della legge applicabile al contratto costituisce senza dubbio uno degli aspetti più delicati, ed allo stesso tempo più affascinanti della redazione di un contratto internazionale. Infatti, per quanto nel commercio internazionale vi sia la tendenza, di derivazione anglosassone, a redigere contratti cd. “self-regulatory”, ossia contenenti una disciplina particolarmente dettagliata, tale da contenere la risoluzione, in via preventiva, di ogni possibile lite e problema interpretativo che venga a determinarsi nel corso del rapporto, così da ridurre al minimo le possibilità di etero-integrazione del contenuto contrattuale ad opera della legge, va realisticamente riconosciuto come un contratto, per quanto elaborato, non può prevedere tutto1. Ecco perché il più delle volte, l’interprete (sia esso giudice od arbitro) dovrà individuare un diritto nazionale in base al quale, in caso di insorgenza di una controversia, poter colmare le lacune lasciate aperte dai contraenti. Nell’effettuare tale ricerca, egli farà riferimento ad un gruppo di norme, cd. di “diritto internazionale privato” (cd. “conflict rules”), le quali gli consentiranno di stabilire qual’è il diritto (od i diritti) applicabile al contratto. Questa soluzione però, come è evidente, può determinare delle conseguenze negative, in termini di “unpredictability” (imprevedibilità, incertezza) della soluzione finale. Le norme di diritto internazionale privato infatti, variano da ordinamento ad ordinamento (e quindi da Paese in Paese), per cui la legge che in definitiva verrà ritenuta applicabile al contratto sarà evidentemente diversa a seconda del giudice che per primo verrà adito, dato che quest’ultimo effettuerà la suddetta determinazione in base alle norme internazional-privatistiche del suo ordinamento giuridico. Ed in base al diritto applicato, cambierà ovviamente anche il risultato del giudizio2.

La prassi tuttavia, dimostra che le parti di un contratto internazionale raramente si preoccupano dell’individuazione del diritto sostanziale applicabile allo stesso, preferendo che tale questione venga risolta dai giudici (o dagli arbitri) al momento dell’insorgenza della controversia. Ma prima ancora di tale momento, è possibile controllare (od evitare) l’applicazione del diritto di un Paese attraverso l’esplicita previsione, all’interno del contratto, della legge che regolerà il contratto.3 Ciò avviene di norma tramite l’incorporazione, nel contratto internazionale, di un negozio giuridico (pactum de lege utenda), il quale si traduce in sostanza in una clausola la quale espressamente stabilisce che il contratto “è interamente sottoposto al diritto […], che ne regola la conclusione, esecuzione e cessazione, ed in base al quale esso sarà interpretato, anche al fine della risoluzione delle controversie da esso nascenti”.

La maggior parte dei Paesi al mondo infatti, (salvo alcune eccezioni rappresentate per lo più da alcuni Paesi in via di sviluppo od ex-socialisti4), ammette la possibilità che le parti di un contratto internazionale scelgano liberamente la legge ad esso applicabile. Tale libertà di scelta del diritto che regolerà il contratto è a sua volta espressione di un principio, quello dell’autonomia delle parti, il quale è ampiamente riconosciuto sia dalle legislazioni e codici dei principali Paesi di civil law, che da quelli di common law. Possiamo, a quest’ultimo proposito citare il Regno Unito e degli Stati Uniti. Nel primo ordinamento infatti, il principio di libertà di scelta della legge applicabile al contratto è riconosciuto dal “Contracts (Applicable Law) Act” del 1990, che ha ratificato la Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, siglata dal Regno Unito il 7 dicembre 1981, ed il quale sostituisce a partire dal 1° aprile 1991 le regole di determinazione della legge applicabile ai contratti sviluppate dal common law. Per i contratti conclusi prima di tale data, continuano pertanto ad applicarsi le regole del Common law. Il diritto inglese riconosce pertanto l’autonomia delle parti nella scelta della legge applicabile al contratto, anche se la legge individuata non presenta alcuna connessione con quest’ultimo purchè, come affermato nella decisione Vitafood Products v. Unus Shipping Co. (1939), “l’intenzione espressa costituisca manifestazione di buona fede e non vi siano ragioni fondate su motivi di ordine pubblico che impediscano tale scelta” 5.

Negli Stati Uniti, il principio di autonomia delle parti può essere rinvenuto sia nel “Restatement Second of Conflict of Laws” che nello Uniform Commercial Code (U.C.C.). In particolare, la Sezione 187 del primo atto, stabilisce che "Si applica la legge dello Stato che le parti hanno scelto come regolatrice dei loro diritti ed obblighi contrattuali". Ma il principio in questione è presente anche nelle disposizioni di diritto internazionale privato di molti paesi del Far East (quali ad es. la Cina6 ed il Giappone7).

Nell'ambito dell’Unione Europea, la materia della legge applicabile al contratto è regolata dalla Convenzione di Roma (1980) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, la quale detta regole uniformi a livello europeo sui conflitti di legge in materia di contratti, allo scopo di prevenire il fenomeno del cd. “forum shopping”. In Italia, l’art. 57 della legge 31 Maggio 1995, n. 218 di "Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato" rinvia espressamente alla Convenzione in questione, stabilendo che i contratti con elementi di internazionalità sono disciplinati “in ogni caso” dalla Convenzione di Roma del 1980 del 19 Giugno 1980.

L'art. 3 della Convenzione prevede, in linea di principio, che le parti siano libere di scegliere la legge applicabile al loro rapporto. Sebbene non venga richiesto che tale scelta sia espressa in forma scritta, è sempre opportuno farlo, in quanto in caso contrario, per essere fatta valere, dovrà risultare in modo ragionevolmente certo dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze del caso.

In assenza di scelta della legge applicabile, l’art. 4 della Convenzione di Roma stabilisce come criterio sussidiario l’applicazione al contratto della legge del paese con il quale il contratto presenta il “collegamento più stretto” (art. 4.1). Ai sensi del successivo comma, si presume che il collegamento più stretto si abbia con il Paese in cui la parte che deve fornire la “prestazione caratteristica” ha, al momento della conclusione del contratto, la propria residenza abituale o la propria amministrazione.

L’art. 3(1) della Convenzione di Roma prevede infine la possibilità, per le parti, di assoggettare il contratto a più leggi nazionali diverse. Questa tecnica, definita “depeçage” (“frazionamento”) o “morcellement”, che presuppone la scomposizione del contratto in più parti, con l’assoggettamento di ciascuna di esse a leggi nazionali diverse, incontra ovviamente un limite nella complessiva coerenza del quadro giuridico delineato dalle parti. La tecnica in questione ha sollevato molte critiche da parte dei giuristi di common law, dato che tale tradizione giuridica ha sempre dimostrato storicamente una certa riluttanza a permettere che due o più leggi disciplinino parti separate di un unico contratto8. Un altro aspetto della convenzione di Roma che è stato apertamente criticato dai giuristi di common law è dato dalla prescrizione contenuta all’art. 3 (2), in base alla quale le parti hanno la possibilità di modificare, di comune accordo, la legge precedentemente scelta come regolatrice del contratto, o di effettuare tale scelta anche in un momento successivo alla conclusione del contratto. Con riguardo a questo aspetto, la common law assume una posizione maggiormente rigida, dato che una volta effettuata la scelta del diritto applicabile, ritiene che non sia più possibile modificarla.

Non sempre, tuttavia, le parti riescono ad accordarsi sulla legge da applicare al contratto. Sempre più spesso accade infatti che, nei contratti conclusi tra parti di nazionalità diversa, i contraenti decidano di assoggettare il loro accordo agli usi del commercio internazionale, ossia alla cd. “lex mercatoria”, ossia ad un corpo “neutro” di regole a carattere extrastatuale, emerso prevalentemente dalla prassi, ed in particolare dalle decisioni di alcune importanti camere internazionali di arbitrato, il quale tende ad escludere l’applicazione delle leggi nazionali, proponendosi come soluzione alternativa alle stesse (da qui, appunto, la sua “neutralità”).9 Questa soluzione è però efficace solo se viene accompagnata dall’inserimento nel contratto di una clausola che affidi ad uno o più arbitri la gestione di eventuali controversie insorte tra le parti, dato che questi ultimi sono più inclini ad applicare la lex mercatoria dei giudici, i quali viceversa tendono a privilegiare l’uso delle norme di diritto internazionale privato dei propri ordinamenti nella determinazione la legge applicabile al contratto10. Sono sempre più numerosi infatti i lodi arbitrali che, nel risolvere le dispute internazionali applicano la lex mercatoria11, ed in particolare i principi UNIDROIT, considerati da molti come una tentativo di codificazione della lex mercatoria e fonte autorevole per la risoluzione delle dispute a carattere transnazionale, i quali possono venire applicati “quando le parti abbiano convenuto che il loro contratto sia regolato dai ‘principi generali del diritto’, dalla ‘lex mercatoria’ o simili.” (Principi UNIDROIT, Preambolo). Sempre nel Preambolo dei Principi si legge infine, che essi “possono fornire una soluzione a questioni controverse nei casi in cui si dimostri impossibile individuare la regola pertinente del diritto altrimenti applicabile”.

In mancanza di un’espressa scelta della legge applicabile al contratto internazionale, i criteri adottati nella determinazione della stessa possono essere differenti, soprattutto ad opera degli arbitri, essendo questi ultimi maggiormente svincolati dall’applicazione delle norme di diritto internazionale privato. Va detto che non esiste una vera e propria regola in proposito. Alcuni12 tenteranno di dedurre la legge applicabile in base alle norme di diritto internazionale privato, altri cercheranno di risalire all’intenzione delle parti, sulla base dell’esame degli altri elementi presenti nel contratto, quali il linguaggio o particolari termini giuridici utilizzati. Altri ancora, cercheranno di individuare riferimenti, all’interno del testo contrattuale, ad elementi che consentano di individuare l’ordinamento giuridico da applicare13.

Si è spesso verificato il caso in cui i giudici o gli arbitri hanno ritenuto gli elementi contenuti nel contratto insufficienti al fine di ricavarne una implicita scelta della legge applicabile ad opera delle parti. Nella causa Yoshizawa ed altri c. Deutsche Lufthansa AG, il Tribunale di Tokio si trovò ad esempio ad affrontare il problema della determinazione della legge applicabile ad un contratto di lavoro internazionale. Nel caso in questione, la compagnia aerea Lufthansa aveva concluso un contratto di lavoro con alcuni lavoratori di nazionalità giapponese, affinché fossero destinati ad una sua sede secondaria a Tokio. All’interno del contratto di lavoro, nessun cenno veniva fatto alla legge a questo applicabile. I dipendenti della sede in Giappone erano stati assunti mediante regolari contratti di lavoro stipulati a Francoforte, i quali prevedevano che la retribuzione fosse erogata in marchi tedeschi. Nel 1947, la Lufthansa decise di corrispondere un compenso aggiuntivo alla paga base dei dipendenti di Tokio, per allineare il loro livello retributivo con quello dei dipendenti della sede centrale in Germania. Quando, sedici anni dopo, la compagnia aerea decise di interrompere il pagamento di questo compenso extra, gli attori decisero di citarla davanti al Tribunale di Tokio, sostenendo che la legge che regolava il loro contratto di lavoro dovesse essere quella giapponese, essendo collocato in Giappone l’ufficio dove essi svolgevano prevalentemente la loro attività di routine. Il Tribunale distrettuale di Tokio tuttavia ritenne che la sede della Lufthansa a Tokyo giocasse un ruolo secondario nella determinazione della legge applicabile, rigettando la domanda degli attori e concludendo che non vi era, nel caso in esame, alcuna circostanza che consentisse di dedurre una volontà implicita delle parti di assoggettare il contratto al diritto giapponese14.

Esistono, per contro, alcuni casi in cui la determinazione del diritto applicabile viene effettuata sulla base della clausola di deroga alla giurisdizione inserita dalle parti nel proprio contratto o della apposizione in questo di una clausola arbitrale15. Nel primo caso infatti, il giudice, potrebbe desumere una volontà tacita delle parti di sottoporre il contratto alla legge del foro del giudice scelto (in virtú del principio qui eligit iudicem eligit ius), soluzione frequentemente utilizzata ai fini dell’individuazione della legge applicabile al contratto internazionale.

Altro criterio spesso adoperato da giudici ed arbitri nella determinazione del diritto applicabile, al quale si fa in genere ricorso quando la scelta della legge applicabile, oltre a mancare, non sia neanche desumibile dall’esame delle intenzioni delle parti, è rappresentato dal “collegamento più stretto”, che come abbiamo visto è il criterio accolto dalla Convenzione di Roma del 1980. Il concetto in questione, proposto per la prima volta dal giurista tedesco Friedrich Carl von Savigny, ha però un contenuto piuttosto vago, implicando la necessità di individuare nell’ambito del contratto uno o più fattori in base ai quali è possibile determinare quale, tra i più sistemi giuridici in conflitto, si applicherà al contratto, in quanto con esso presenta i legami più stretti. I fattori normalmente presi in considerazione sono la nazionalità, la residenza, il luogo di conclusione e di esecuzione del contratto. Non essendo però questi predefiniti in base alla legge od altro criterio normativo, la valutazione della loro scelta è rimessa alla discrezionalità del giudice o dell’arbitro, con ovvie conseguenze in termini di “unpredictability” della decisione finale. Proprio al fine ridurre tale incertezza, gli estensori della Convenzione di Roma hanno inserito una serie di presunzioni, quali ad esempio quella secondo cui nel contratto di vendita, si ritiene che la prestazione caratteristica consista nell’obbligo, da parte del venditore di consegnare il bene al compratore: di conseguenza, la legge applicabile è quella del venditore16.

Un esempio di applicazione da parte degli arbitri del criterio del collegamento più stretto, costituita dal caso n. 9117/1998 della Corte internazionale di Arbitrato della CCI, svoltosi a Zurigo. In tale giudizio gli arbitri hanno preso in considerazione, ai fini della determinazione del diritto applicabile ad un contratto di vendita internazionale concluso tra due parti, una svizzera e l’altra russa, il luogo in cui era localizzata l’attività del venditore (nel caso in esame, la Russia). Di conseguenza sono giunti alla conclusione che l’ordinamento giuridico al quale il contratto era più strettamente connesso era quello russo, e pertanto che era in base a questo diritto che doveva essere risolta ogni questione che non fosse espressamente regolata dai termini del contratto. Tuttavia il collegio arbitrale riteneva che fossero indirettamente applicabili anche i principi Unidroit, in quanto le parti avevano fatto espresso riferimento, all’interno del contratto, agli Incoterms della CCI ed. 1990. Di conseguenza veniva tratta la conclusione che i loro rapporti dovessero essere regolati anche dagli “usi commerciali”, come peraltro richiedeva la disposizione contenuta all’art. 13(5) del precedente regolamento arbitrale della CCI (1975/1988),17 secondo cui, appunto, ai fini del giudizio occorreva tenere conto degli usi commerciali vigenti. I principi Unidroit infatti, secondo gli arbitri, riflettevano usi generalmente condivisi relativi ad aspetti fondamentali dei contratti internazionali18.

_____________________________________________
1 Questa esigenza è diversamente sentita nei paesi di common law, rispetto a quelli di civil law. “I contratti del mondo anglosassone, per esigenze proprie del common law, assomigliano per dimensioni sempre più spesso a romanzi. Da noi, invece spesso sono sufficienti poche pagine, perché vige la regola dell’integrazione normativa (se non scrivo, si applica la legge); tuttavia, se non si scrive a sufficienza pare che il contratto non abbia la dignità di essere chiamato tale (non meno di dieci pagine, raccomandava uno), e così si ricopiano articoli del codice civile, o si usano espressioni proprie di altri ordinamenti, che spesso generano solo confusione.”, tratto daSUMMA”, n. 11, Maggio 2003, Anno XX, pag. 46 e ss. - Stefano Marchese, “Il diritto delle imprese nei mercati internazionali: limiti e necessità” - XXXI° Congresso Nazionale dei Ragionieri Commercialisti. Ed ancora “la ricerca spasmodica del dettaglio tipica dei contratti di ‘common law’ spinge le parti a regolamentare degli aspetti che non sono codificati neppure, ad esempio, in diritto svizzero, fornendo così delle risposte a delle domande che spesso il contrattualista di estrazione continentale non si pone neppure, dando per scontati troppi aspetti”, tratto da M. Pedrazzini, atti del seminario sugli “International Agreements” tenutosi a Lugano il 10 dicembre 1997.

2 Alcuni degli strumenti elaborati per ovviare, almeno in parte, a tale problema, sono rappresentati dalla convenzione internazionale di diritto internazionale privato e dal diritto materiale uniforme. Mediante il primo strumento si introducono nei singoli ordinamenti nazionali degli Stati-parte della convenzione criteri identici di risoluzione dei conflitti di legge, in modo da ottenere, a prescindere da quale sia il giudice che per primo è investito della questione, soluzioni identiche in termini di individuazione della legge regolatrice e di foro competente. Tali norme si limitano quindi ad individuare il diritto di uno Stato contraente della Convenzione stessa, il quale viene dichiarato applicabile alle questioni presentanti elementi di internazionalità (e quindi tali da determinare un conflitto di leggi) indicate dalla Convenzione stessa. A differenza delle Convenzioni di diritto internazionale privato, il diritto materiale uniforme invece disciplina direttamente diritti ed obblighi delle parti e reca norme che, per la loro specialità, prevalgono su qualsiasi norma di diritto internazionale privato. L’esempio tipico è dato dalla Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di cose mobili, che non si limita a rinviare al diritto di uno Stato contraente quale diritto applicabile, ma fornisce direttamente al giudice o all’arbitro i criteri per dirimere la controversia. [(“Le norme di diritto materiale sono da considerarsi speciali perché risolvono ‘direttamente’ le questioni sostanziali su cui verte la controversia, ossia evitando il doppio passaggio, consistente nell'individuazione del diritto applicabile prima e nell'applicazione poi dello stesso, che sempre si rende necessario quando si fa ricorso al diritto internazionale privato.), Tribunale Padova - Sez. Este, causa Ostroznik Savo v. La Faraona soc. coop. a.r.l., 11.01.2005].

3 Karla C. Shippey,”A short course in International Contracts” Ed. World Trade Press, pag. 5 e ss.

4 Molti di questi paesi prevedevano una doppia disciplina: una per i contratti tra parti entrambe residenti ed una per i contratti conclusi tra residenti e soggetti appartenenti ad ordinamenti stranieri. E’ stato il caso ad es. della Cina fino al 1° ottobre 2000, data di promulgazione della nuova legge sui contratti, che ha abrogato la disciplina previgente, basata su una regolamentazione diversificata dei contratti conclusi tra residenti e quelli conclusi tra persone fisiche e giuridiche cinesi e non residenti, regolati questi ultimi dalla "Foreign Economic Contract Law" (FECL).

5 Indira Carr, “Principles of International Trade Law”, Cavendish Publishing Ltd., London - 1999, pag. 314 e ss.

6 L’articolo 145 dei Principi generali di Diritto Civile della Repubblica popolare di Cina (promulgati con l’Ordine No. 37 del 12 aprile 1986, ed in vigore dal 1° gennaio 1987) afferma che “le parti di un contratto che coinvolge interessi stranieri possono scegliere la legge applicabile alla definizione delle loro dispute contrattuali, salvo la legge non disponga altrimenti".

7 Ai sensi dell’art. 7 (1) della legge di diritto internazionale privato giapponese (Law on the Application of Laws, 1898), è stabilito che: "Per quanto concerne la formazione e gli effetti di un atto giuridico, la questione relativa al diritto che li regola è determinata dall’intenzione delle parti ".

8 Lord Wilberforce, Lord Mackay of Clashfern, “Debate on the third reading of the Contracts (Applicable Law) Bill”, Londra, 24 aprile 1990.

9 Per un approfondimento, vedasi D. Desiderio “I concetti di 'soft law' e di 'lex mercatoria' nel diritto del commercio internazionale”, su sito Altalex (https://www.altalex.com/index.php?idnot=402&asnofrt=true )

10 Nella giurisprudenza italiana non si riscontrano precedenti di applicazione della lex mercatoria ad opera dei giudici (la nota sent. Cass. 08.02.1982, n. 122 riguarda il caso di riconoscimento in Italia di un lodo arbitrale emesso dall’Associazione per lo zucchero raffinato di Londra, e giunge in realtà a soluzioni completamente opposte allo spirito della lex mercatoria – per un approfondimento: F. Bortolotti, “Diritto dei contratti internazionali”, CEDAM, Padova, 1997, VOL I, pag. 61 e ss.). Anche nel caso dell’arbitrato non mancano le eccezioni. Si consideri ad esempio il giudizio arbitrale n. 9419/98 della Corte internazionale di arbitrato della Camera di Commercio Internazionale, svoltosi a Lugano, dove l’arbitro, trovatosi di fronte al problema della mancata specificazione, all’interno della clausola arbitrale, del diritto sostanziale applicabile al contratto internazionale concluso dalle parti, rifiuta di applicare la lex mercatoria. Questi infatti, sebbene riconosca l’autorevolezza della scuola di pensiero favorevole all’esistenza di tale corpus normativo, e sebbene consapevole del fatto che numerosi lodi di arbitrato commerciale internazionale vi fanno riferimento, ritiene la lex mercatoria non applicabile nel caso in esame. Egli infatti crede fermamente che la ricerca del diritto applicabile debba condurre necessariamente all’applicazione di un diritto nazionale. Pertanto, conformemente alla disposizione contenuta nell’art. 13.3 del Regolamento della CCI (1975/1988), ritiene di dover effettuare la scelta sulla base delle disposizioni di diritto internazionale privato applicabili, giungendo alla decisione che nel caso in questione deve applicarsi il diritto francese. Nonostante infatti egli riconosca l’esigenza di tener conto della volontà delle parti, nonché degli usi commerciali tra esse vigenti, ritiene comunque di dover individuare un quadro normativo applicabile al contratto da esse concluso. Di conseguenza, pur ammettendo la possibilità che le parti richiamino la lex mercatoria, ed in particolare i principi Unidroit, a regolazione del loro rapporto contrattuale, ritiene che tale corpo normativo non possa di per sè stesso sostituirsi ai diritti nazionali. Nel contratto in questione, le parti facevano riferimento ad un altro accordo precedente nel quale veniva espressamente scelta l’applicazione del diritto francese. L’arbitro ne trae la conclusione che tale diritto deve ritenersi incorporato anche nel secondo contratto, in quanto le parti con il suddetto richiamo avevano implicitamente espresso la volontà di assoggettare la loro relazione contrattuale allo stesso sistema di regole di diritto che aveva regolato il loro precedente rapporto.

11 Anche il richiamo, all’interno del regolamento contrattuale, degli Incoterms, delle norme Uniformi sui Crediti Documentari, o di altre norme di tipo pattizio incorporate nel contratto, è un elemento che spesso porta gli arbitri a desumere che le parti abbiano voluto assoggettare il loro contratto alla lex mercatoria.

12 La dottrina moderna sull’arbitrato internazionale è concorde nel ritenere che anche gli arbitri, nel decidere una questione, debbano applicare la legge specificamente scelta dalle parti o che queste si attendono possa essere applicata. Per un approfondimento: Fabrizio Marrella, “Choice of Law in Third-Millennium Arbitrations: The Relevance of the UNIDROIT Principles of International Commercial Contracts”, in Vanderbilt Journal of Transnational Law [Vol. 36:1137].

13 Ad esempio, la presenza di un riferimento ad un determinato articolo di legge di un certo ordinamento giuridico (es. del codice civile italiano), nell’ambito di un contratto concluso tra parti di nazionalità diversa, potrebbe essere interpretata come una designazione autonoma della legge applicabile al contratto. Altra ipotesi è quella di un contratto il quale, pur non contenendo alcuna espressa designazione della legge applicabile, è collegato ad un altro accordo, concluso dalle medesime parti, per il quale viceversa si era indicata la legge regolatrice (vedasi la nota n. 10, con riferimento al giudizio arbitrale n. 9419/98 della Corte internazionale di arbitrato della Camera di Commercio Internazionale, in cui avendo le parti richiamato nel contratto un altro accordo precedente contenente l’espressa designazione della legge francese quale diritto applicabile, si è ritenuto che le parti avessero implicitamente espresso la volontà di assoggettare la loro nuova relazione contrattuale allo stesso sistema di regole di diritto).


14 Prasit Pivavatnapanich, “Choice of Law in Contract and Thai Private International Law: A Comparative Study”, Law Journal of Thailand Bar Society, Dicembre 2002

15 Nel caso Tzortzis v. Monark Line, 1968, la definizione di Londra quale sede di svolgimento dell’arbitrato, portò la Corte a concludere che le parti avevano con ciò voluto intendere che fosse il diritto inglese regolare il contratto.

16 Vedasi ad es. Cass, Sez. Unite, 10-03-2000, n. 58. Nella specie, riguardo a un contratto di vendita di macchinari industriali il quale prevedeva a carico della ditta straniera fornitrice anche l'installazione mediante suoi tecnici presso lo stabilimento della ditta italiana e la garanzia di idoneità all'uso e di buon funzionamento, la S.C. ha ritenuto che il collegamento più stretto fosse con l'Italia.

17 Dal 1° gennaio 1998 è in vigore un nuovo regolamento di arbitrato della CCI.

18 Le decisioni arbitrali riportate sono tratte dal sito: www.unilex.info.

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