L’affidamento quale principio generale del diritto

Articolo, 23/12/2011

L’affidamento quale principio generale del diritto1. Il principio di buona fede è esplicitamente contemplato nel codice civile agli articoli 1375 e 1175, ed anche se quest’ultimo articolo usa il termine “correttezza” esso può considerarsi un sinonimo, assieme ad altri termini, come solidarietà o leale cooperazione.

Bisogna pur dire che sebbene oggi in giurisprudenza se ne faccia largo uso, in passato si era dubitato che esso fosse un principio normativo generale ed autonomo, svincolato dalle particolari fattispecie disciplinate specificamente. In altre parole esso veniva considerato quasi come una norma programmatica e non come un principio o clausola generale dotato di propria autonomia e cogenza giuridica[1].

Certo, si può oggi constatare, alla luce della quotidiana prassi giurisprudenziale, che tale principio di strada ne abbia fatta!

Esso è pure richiamato nell’art. 1337 sulla responsabilità precontrattuale, nell’art. 1366 sull’interpretazione del contratto, nell’art. 1374 sull’integrazione delle norme contrattuali, in quanto richiamando la legge, esso richiama pure l’art. 1375 c. c. [2].

In questa sede ci occupiamo - con una breve carrellata data la enorme vastità dell’argomento - della applicabilità della buona fede, intesa nel particolare aspetto del legittimo affidamento, nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale e sovranazionale, soffermandoci in particolare in ambito amministrativo e contabile.

2. Analizziamo inizialmente la materia del diritto costituzionale ed in particolar modo se possa esistere tale principio nell’ambito della giurisprudenza della Corte costituzionale.

Sebbene l’art. 2 della Costituzione riconosca il principio di solidarietà, al quale la giurisprudenza civile ha ricollegato costituzionalmente il principio di buona fede, non può ritenersene consolidata la sua esistenza nell’ambito della giurisprudenza costituzionale[3], malgrado che tale affermazione cozzi apparentemente con il dato testuale della stessa.

In effetti, malgrado l’utilizzazione del concetto di legittimo affidamento a partire dalla sentenza n. 349/1985, la Corte Costituzionale ha seguito un percorso non sempre lineare, e se tale principio è stato confermato in termini favorevoli con la sentenza, n. 397/1994, n. 416/1999, n. 525/2000, n. 446/2002, n. 364/2007, tuttavia essa non è ancora riuscita a trovare un parametro di valutazione costante, visto che ha fatto ricorso contestualmente al principio di ragionevolezza. Inoltre si deve pure tenere conto della diversità delle fattispecie trattate,e per le quali non ha trovato un comune denominatore.

In effetti, una cosa è il sindacato sulle leggi retroattive, altra portata ha il sindacato sulle leggi non retroattive, che modificano comunque situazioni consolidate; tipico esempio si ha, ad esempio, con le decisioni n. 234/2007, 400/2007, 77/2008, ove si è affermato che “il fluire del tempo – il quale costituisce di per sé un elemento di versificatore che consente di trattare in modo differenziato le stesse categorie di soggetti, atteso che la demarcazione temporale consegue come effetto naturale alla generalità delle leggi- non comporta, di per sé, una lesione del principio di parità di trattamento sancito dall’art. 3 della Costituzione”.

Si deve quindi concludere che nell’ambito della giurisprudenza costituzionale rimane ancora incertezza su tale parametro di valutazione, dovuta al non formarsi di un orientamento consolidato. Pertanto, non si può affermare con sicurezza che esso sia ormai immanente nel sindacato di costituzionalità degli atti legislativi

3. Il principio del legittimo affidamento ha trovato sin dalle origini vastissima applicazione nell’ambito della giurisprudenza comunitaria quale principio generale comune a tutti gli stati membri; in effetti esso invece appartiene - come vedremo meglio in seguito - alla tradizione germanica, dalla quale la giurisprudenza la Corte di giustizia europea ha tratto ispirazione, ma che nel tempo essa ha rielaborato facendo acquisire al principio caratteristiche proprie ed una pluralità di sfaccettature tali che esistono, ormai, varie fattispecie e schemi di giudizio su di esso.

L’analisi della giurisprudenza comunitaria non può prescindere da una preliminare classificazione sulla tipologia del sindacato che la Corte esercita, distinguendo quello sugli atti normativi, dall’altro sugli atti più propriamente amministrativi. Poiché, la Corte di giustizia europea è al tempo stesso un giudice costituzionale ed amministrativo.

La Corte ha più volte applicato il principio del legittimo affidamento nell’ambito del proprio sindacato sui regolamenti e sulle direttive con effetto retroattivo. In tale contesto, dalle svariate sentenze si possono enucleare alcuni criteri che sostanzialmente si differenziano dal sindacato che ha effettuato la nostra Corte Costituzionale, la quale, ha nettamente dichiarato l’illegittimità di norme sostanzialmente retroattive[4].

In effetti la Corte di giustizia, pur negando in generale per il rispetto del principio di certezza del diritto, la retroattività degli atti normativi, ha ammesso in limitati casi la possibilità di emanazione di norme retroattive, sulla base di due presupposti; il primo è costituito dalla giustificazione del pubblico interesse, inteso come necessarietà dell’effetto retroattivo; il secondo, caratterizzato nella valutazione del legittimo affidamento degli interessati,[5] dalla prevedibilità dell’intervento normativo, individuabile attraverso svariati elementi, come ad esempio la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della proposta normativa, oppure desumibile dal preambolo motivazionale degli atti modificati da cui era deducibile una possibile successiva modifica retroattiva.

In particolare, in tale tipologia di sindacato la Corte ha annullato per la violazione del legittimo affidamento e della certezza del diritto dei regolamenti comunitari che, producendo effetti retroattivi, non consentivano agli interessati, per la loro immediata efficacia alla data di pubblicazione, di prendere le opportune scelte organizzative per adeguarsi tempestivamente, considerando, inoltre, che quelle dell’anno di riferimento erano già state realizzate, tenendo conto dell’affidamento nella previgente normativa[6].

Altra categoria di sentenze della Corte in ambito tributario, ha fatto a meno del primo presupposto ritenendo violato il legittimo affidamento e la certezza del diritto tout court [7].

Altro filone della giurisprudenza comunitaria sul legittimo affidamento è quello relativo ai rapporti di durata in corso, ovvero quella che la giurisprudenza costituzionale tedesca definisce come retroattività impropria. Con tale fattispecie si individua quella categoria di atti normativi che vanno ad incidere su rapporti di durata modificandone gli effetti futuri. In tali casi la giurisprudenza ha applicato il principio di non retroattività, precisando l’applicazione della nuova norma agli effetti futuri di situazioni nate con la vecchia normativa salvo specifica deroga[8]; ma in altri casi la Corte di giustizia ha tenuto conto del legittimo affidamento degli interessati in funzione degli impegni già assunti sulla base delle norme previgenti. [9]

Altra fattispecie, riconducibile al legittimo affidamento, è quella derivante da obblighi assunti dall’istituzione comunitaria da cui essa non può successivamente discostarsi senza adeguata motivazione. È da notare che il legame tra la motivazione dell’atto ed il sindacato sull’affidamento è una costante della giurisprudenza comunitaria[10]. In questo caso siamo peraltro fuori dall’ambito della retroattività ed interviene un giudizio sulla coerenza del comportamento dell’amministrazione che si è obbligata o autovincolata.

Nell’ambito più propriamente amministrativo, il principio del legittimo affidamento ha trovato applicazione sin dalle origini e dalle prime sentenze sulla revoca dell’atto amministrativo. Sono famose le sentenze Algera, Snupat, Simon, Hoogovens[11], a cui seguono negli anni successivi il caso Alpha-Steel[12] con l’introduzione della ragionevolezza del tempo trascorso tenendo conto della misura dell’affidamento del ricorrente.

A questi segue il caso De Compte[13] in cui si dà rilievo all’apparenza legittima dell’atto ed al comportamento dell’interessato che non ha indotto in errore l’amministrazione. Si deve aggiungere poi tutta quella giurisprudenza in materia di aiuti di stato e contributi comunitari in cui invece si dà importanza al rispetto delle regole procedimentali ed alla circostanza che l’amministrazione, attraverso comportamenti e/o atti univoci, abbia instaurato negli interessati il convincimento della legittimità degli atti compiuti[14].

Data la vastità dell’argomento e della casistica ma, al tempo stesso, la fondamentale importanza della giurisprudenza comunitaria, questa brevissima e non esaustiva sintesi ci serve per delineare, come vedremo di seguito, quegli aspetti applicativi ed interpretativi da riportare nell’ambito dell’ordinamento interno.

4. Ritornando per un attimo alla giurisprudenza costituzionale, ma nell’ottica del diritto penale, possiamo certamente affermare che la sentenza più importante e famosa sul legittimo affidamento è la n. 364/1988 sulla illegittimità costituzionale del principio ignorantia legis non exscusat , sancito dall’art. 5 del codice penale, ma estensibile alla totalità dell’ordinamento giuridico.

Per quanto qui ci interessa, in tale sentenza la Corte costituzionale riformulando l’art. 5 c. p. in termini di conoscibilità, ossia del dovere del cittadino di essere diligente nell’informarsi sulle norme giuridiche che lo riguardano, precisa che tale dovere di diligenza si ferma, concretizzandosi di fatto in una non responsabilità, nel caso in cui l’amministrazione con propri atti o comportamenti lo abbia indotto a ritenere corretto e conforme a legge il proprio operato, nell’interpretazione ed applicazione fattane da essa stessa, da qui è deducibile la connessione con il principio di certezza del diritto.

Questo può considerarsi a tutti gli effetti un tipico caso di legittimo affidamento che, come vedremo, ha avuto specifiche ricadute normative in altre materie.

5. Difatti, una specifica applicazione normativa dei principi dettati dalla suddetta pronuncia si è avuta nell’ambito dell’ordinamento tributario con l’emanazione della Legge 212/2000 (Statuto del contribuente) ove all’art. 10 si prevede che “i rapporti tra contribuente ed amministrazione sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede e che non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato ad indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorchè successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni ed errori dell’amministrazione.

Orbene, seppur la giurisprudenza ha più volte ribadito che le circolari dell’amministrazione non sono atti vincolanti neppure per la stessa amministrazione[15], si deve osservare che il contribuente, pur di non entrare in conflitto con l’amministrazione anche per averne un eventuale vantaggio fiscale, tende normalmente ad adeguarsi alla prassi interpretativa della stessa e quindi non può poi essere sanzionato qualora si sia adeguato ad una prassi successivamente disconosciuta.

Qualora, poi, l’amministrazione abbia archiviato un procedimento o effettuato un accordo con il contribuente, deve ritenersi illegittima per violazione del legittimo affidamento la successiva riapertura del procedimento e l’emanazione di un atto impositivo relativo al medesimo rapporto tributario senza adeguata motivazione[16].

Come si può osservare, da una analisi comparata con la giurisprudenza comunitaria si può ricavare un denominatore comune con i casi in cui l’istituzione abbia fornito con il proprio comportamento assicurazioni all’interessato sulla legittimità del proprio operato e sulla regolarità della sua posizione giuridica; in sintesi tale ragionamento si sintetizza nel principio non scritto nell’ordinamento italiano, ma ritenuto dalla giurisprudenza immanente e ricompreso nelle clausole generali di correttezza e buona fede del nemo venire contra factum proprium.

6. Il principio del legittimo affidamento è presente nel diritto internazionale privato ed in particolare contenuto nei principi UNIDROIT.

Tali principi rappresentano un insieme di norme internazionalmente accettate, comuni alle tradizioni civilistiche di molti stati, ed utilizzati nell’ambito dei contratti internazionali, ma la loro portata interpretativa grazie anche all’avallo della giurisprudenza ha assunto una notevole importanza tale da farle divenire anche norme di riferimento interpretative in ambito nazionale quando si possano verificare lacune interpretative[17].

Se l’art. 1.7 prevede espressamente il principio di buona fede, l’art. 1.8 ne costituisce una specificazione, si intitola: nemo venire contra factum proprium e recita: “Una parte non può agire in modo contraddittorio rispetto ad un intendimento che ha ingenerato nell’altra parte, e sul quale questa ha ragionevolmente fatto affidamento a proprio svantaggio.

Quindi, si può affermare che il legittimo affidamento sia un principio espressamente codificato, nella sua struttura tradizionale, derivante dall’ordinamento germanico, ove esso è conosciuto come Verwirkung.

Il problema che qui si pone è se tale principio esista o sia in qualche modo trasponibile nell’ordinamento italiano[18].

Si può affermare che esso, insieme all’abuso del diritto ed alla presupposizione, rappresenti un gruppo di principi non espressamente codificati nel codice civile, ma ritenuti dalla dottrina e dalla giurisprudenza ormai immanenti o comunque ricavabili dal codice attraverso una interpretazione estensiva della clausola generale di buona fede e correttezza.

7. A tal proposito, passando nell’ambito del diritto del lavoro ma con una portata ampiamente civilistica, non sono mancati casi nei quali la Corte di Cassazione ha applicato detto principio riallacciandolo alla clausola generale di buona fede.

Già a partire da una famosa sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione, ove si affermò contrario ai principi di buone fede e correttezza l’operato di una commissione di concorso che, non coerentemente, aveva applicato criteri di valutazione difformi da quelli stabiliti dal bando di concorso[19].

Ma, più recentemente, la stessa Cassazione, con la sentenza n. 9924/2009[20] è ritornata sull’argomento, affermando la sussistenza del principio nemo venire contra factum proprium determinante il legittimo affidamento, anche nell’ambito del nostro ordinamento, quale espressione delle clausole generali di correttezza e buona fede, arrivando a considerare assorbita in esso anche la Verwirkung, intesa come inerzia nell’esercizio del proprio diritto, tale da ingenerare un legittimo affidamento nella controparte.

Il passaggio della Corte è importante, poiché sottende necessariamente, per la sua interpretazione ed applicazione, la specifica previsione così come contenuta nell’art. 1. 8 dei principi UNIDROIT: “dall’art. 1175, che assoggetta il creditore alla regole della correttezza, e dall’art. 1375 c. c. , che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede, nonché dalla comparazione con ordinamenti prossimi al nostro, la giurisprudenza di questa Corte da tempo valuta il comportamento del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, come idoneo a determinare la perdita della situazione soggettiva. La dottrina tedesca parla in questi casi di Verwirkung come di una sorta di decadenza derivante dal divieto, più familiare agli ordinamenti latini, di venire contra factum proprium. Si ha così la preclusione di un’azione o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di stretto diritto, ma a causa del comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l’abbandono.

Il riferimento anche alle situazioni potestative è una conferma importante ai fini di una estensione del principio anche all’attività della pubblica amministrazione; difatti la stessa Corte, in una importante pronuncia, aveva superato definitivamente la vecchia concezione di inapplicabilità del principio di buona fede alla pubblica amministrazione, agganciandolo coerentemente con la giurisprudenza comunitaria sopra citata, a criteri oggettivi, ovvero al rispetto dei termini procedimentali; con la sentenza n. 14198/2004,ove essa ha affermato che “il rispetto dei principi di regolarità dell’azione amministrativa integra se del caso i canoni di correttezza e buona fede”. In parole povere, nel caso in questione, il mancato rispetto dei termini procedimentali e la mancata conclusione di un procedimento dovuto a favore dell’interessato ha comportato la violazione del principio dell’affidamento.

Questa pronuncia assume notevole rilevanza di principio, poiché essa collega il concetto di buona fede in senso oggettivo con il parametro certo ed affidabile del rispetto delle norme che disciplinano l’attività amministrativa, sia autoritativa che paritetica, disciplinate dalla Legge 241/1990 e si pone addirittura, come vedremo, un passo avanti anche rispetto alla giurisprudenza del giudice amministrativo.

8. Nel diritto amministrativo, in origine la dottrina, sulla scia di una concezione separatistica ed autonoma della scienza amministrativa, negava l’esistenza e la rilevanza del principio di buona fede, considerandolo interamente assorbito dall’interesse pubblico ed ammettendolo esclusivamente nell’ambito dei rapporti paritetici[21].

In realtà la giurisprudenza del giudice amministrativo, attraverso il sindacato sull’eccesso di potere sotto i profili della contraddittorietà, illogicità e disparità di trattamento, nei fatti aveva in concreto applicato detto principio, inteso come dovere di coerenza procedimentale e provvedi mentale. Tra i tanti arresti giurisprudenziali rilevanti si segnala, in particolare, quello secondo cui “è illegittimo per eccesso di potere il provvedimento contrastante con un precedente atto emesso dalla medesima amministrazione a breve distanza dal primo, ove il secondo non sia sorretto da una ampia e puntuale motivazione idonea a giustificare il diverso orientamento adottato; il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà è configurabile quando sussistano valutazioni tra loro incompatibili tra atti o comportamenti adottati dall’amministrazione in circostanze del tutto analoghe e nell’esercizio del medesimo potere e la diversità di determinazione non sia giustificabile in base al principio di coerenza logica[22].

Non mancano però pronunce che, rimanendo sul filone pubblicistico tradizionale, facciano tuttavia riferimento al suddetto principio in termini civilistici. Si legge ad esempio che “la impugnazione di un provvedimento richiesto ed ottenuto dall’amministrazione e conforme al suo modello legale, concreta una violazione del divieto di venire contra factum proprium che, nel processo amministrativo, incide negativamente sull’interesse a ricorrere” [23]; o ancora che “La validità di un decreto di annullamento di un’autorizzazione paesaggistica non è inficiata dalla circostanza per la quale l’amministrazione avrebbe valutato positivamente, sotto il profilo paesaggistico, un analogo intervento edilizio realizzato a poca distanza e ciò anche perché non è impedito all’amministrazione di venire contra factum proprium, purché vengano illustrate le ragioni sottese al nuovo indirizzo operativo da essa adottato[24].

Più recentemente il Consiglio di Stato, nell’ambito di un contenzioso ove l’amministrazione con i propri atti ha indotto in errore l’interessato in buona fede, ha affermato che“ nel rispetto dei principi fondamentali fissati dall’art. 97 della Costituzione, l’amministrazione è tenuta ad improntare la sua azione non solo agli specifici principi di legalità, imparzialità e buon andamento, ma anche al principio generale di comportamento secondo buona fede, cui corrisponde …l’onere di sopportare le conseguenze sfavorevoli del proprio comportamento che abbia ingenerato nel cittadino incolpevole un legittimo affidamento” [25].

Da queste pronunzie, benché eterogenee, si prende atto della conoscenza da parte della giurisprudenza amministrativa del principio del nemo venire contra factum proprium. D’altro canto, però, non esiste un’applicazione costante e coerente da parte della giurisprudenza amministrativa di questo principio, rispetto ai canoni dettati dalla giurisprudenza ordinaria e comunitaria sopra evidenziati,in effetti nella maggioranza dei casi il giudice amministrativo non lo ha realmente applicato. Ciò è avvenuto in materia di indebito, sull’applicabilità o meno del principio di buona fede nell’ambito del recupero delle somme indebitamente erogate dall’amministrazione. A tal proposito, sarebbero un punto fermo cinque famose pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[26] in cui si statuisce che “il recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione a un dipendente non costituisce un atto assolutamente vincolato, dovendo l’amministrazione medesima verificare se per effetto del recupero il nuovo effettivo importo della retribuzione si riduca ad entità tale da non assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, come imposto dall’art. 36 Cost.

L’atto di recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione ad un dipendente contiene per implicito e presuppone l’annullamento in via di autotutela del pregresso provvedimento recante la determinazione delle retribuzioni in misura maggiore a quella dovuta, il che comporta che l’amministrazione, al momento dell’annullamento, è tenuta a valutare gli effetti già prodotti dall’atto originario e le situazioni sulle quali ha inciso; pertanto, va ritenuta insufficiente la motivazione del recupero che si limita ad arginare un onere finanziario per la p. a. o di osservare la norma che prevede il recupero.

L’avvio del procedimento finalizzato alla emissione dell’atto di recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione ad un dipendente deve essere comunicato al dipendente ai sensi dell’art. 7, L. 7 agosto 1990, n. 241.

In sede di adozione del provvedimento di recupero di somme erroneamente corrisposte a un dipendente dall’amministrazione, questa è tenuta a valutare l’affidamento ingenerato nel lavoratore anche in relazione al tempo trascorso dall’originaria liquidazione del trattamento retributivo.

Il provvedimento di recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione a un dipendente deve contenere l’analitico conteggio di quanto erogato in più rispetto al dovuto, unitamente all’indicazione puntuale: a) degli atti che hanno costituito occasione di credito da parte della p. a. ,in relazione a determinate norme di legge; b) dell’epoca in cui è iniziato il non dovuto pagamento e di quella in cui si darà corso al recupero; c) della rateizzazione eventualmente accordata ; d) del numero dell’importo e delle singole rate. ”

Ed ancora, in motivazione il Consiglio di Stato si è affrettato a precisare che “ sembra ad ogni modo che si possa escludere la insorgenza della buona fede del dipendente allorché maggiorazioni retributive siano state erogate con la espressa avvertenza che trattavasi di acconti ( per loro natura approssimativi) a valere sui futuri miglioramenti”.

Quindi, la sussistenza di un legittimo affidamento ad avviso del giudice amministrativo non dovrebbe esistere ove l’interessato abbia una piena consapevolezza di una situazione di incertezza, con la possibilità di variazioni in peius del proprio status giuridico economico.

Tale indirizzo interpretativo è conforme all’orientamento della giurisprudenza comunitaria sopra accennata, in cui, parimenti, si esclude la sussistenza del legittimo affidamento in situazione aventi natura provvisoria o comunque suscettibili di cambiamenti, di cui l’interessato sia consapevole.

Tuttavia, come vedremo in seguito, la problematica deve essere affrontata in un’ottica diversa, essendo pacifico che nei casi suddetti non sussista uno stato di buona fede.

Vi sono altri passaggi importanti dell’Adunanza Plenaria, che diventano decisamente rilevanti: “l’Adunanza plenaria ritiene che l’elemento dell’affidamento, particolarmente allorchè sia decorso un periodo non breve, durante il quale la buona fede abbia avuto plurime e costanti occasioni di iterazione, debba ricevere la dovuta attenzione da parte dell’amministrazione. In questi casi, nulla è imputabile al dipendente, e, come si è accennato, l’improvvisa decurtazione della sua retribuzione, se pur conforme a determinate norme, può risultare sostanzialmente iniqua, anche in relazione alla sua entità……Ovviamente non si è in grado di fornire indicazioni di carattere generale, essendo compito esclusivo della amministrazione la valutazione, caso per caso, della incidenza del tempo decorso e della valenza della buona fede,……….. Ulteriore ipotesi, idonea ad escludere il consolidamento dell’affidamento e della situazione economico-retributiva, è quella in cui la p. a. , in un ragionevole e non lungo periodo di tempo annulli l’atto erogatore usando del potere di autotutela, poiché tempestivamente convinta dell’errore commesso” [27].

Da questo quadro complessivo si deduce che la giurisprudenza amministrativa, nella sua massima espressione, abbia effettivamente riconosciuto l’esistenza del legittimo affidamento, in ragione principalmente del decorso del tempo, ma non sia riuscita a fornire, come testualmente confermato dalla stessa motivazione testé citata, dei criteri oggettivi di parametrazione, né a quantificare un lasso temporale tale da poter con sicurezza determinare la sua insorgenza, addirittura rimettendo tale valutazione alla stessa amministrazione; la quale però, essendo comunque parte in causa, è difficile sostenere che possa agire imparzialmente, tenendo conto dell’affidamento ingenerato nell’interessato.

Ma una critica eccessiva sarebbe ingenerosa, solo ove si pensi che tali decisioni vennero emanate quasi all’indomani dell’entrata in vigore della Legge 241/1990, in una situazione ancora di insufficiente approfondimento sulla effettiva portata della legge; e quindi, in positivo, se ne deve apprezzare la rilevante portata, che aveva individuato come comunque tutelabile il legittimo affidamento dell’interessato.

Tuttavia la giurisprudenza successiva e più recente dello stesso Consiglio di Stato ha disconosciuto tale orientamento. Fra le tante, si legge in particolare che “la natura vincolata dell’atto di recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione esclude che la mancata comunicazione di avvio del procedimento integri un motivo di illegittimità… Il recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione ex art. 2033 c. c. è un atto dovuto, essendo l’interesse pubblico alla loro ripetizione prevalente rispetto alla posizione del percipiente, del quale non rileva la buona fede, che può essere considerata soltanto ai fini delle modalità di esecuzione del recupero, per non incidere con eccessiva onerosità sulle sue esigenze di vita”[28].

In realtà, il decorso del tempo è invece da ritenersi rilevante ai fini della formazione del legittimo affidamento; in effetti è perplessa se non errata la stretta applicazione dell’art. 2033 c. c. , per ragioni di natura normativa.

Vi è da osservare che, sebbene il rapporto giuridico quasi contrattuale che si instaura tra l’amministrazione e l’accipiens mantenga per giurisprudenza pacifica la sua natura formale civilistico-paritetica, l’amministrazione non si pone di fronte a quest’ultimo come un normale privato, ma ha degli specifici strumenti previsti dall’ordinamento, che gli consentono - in deroga alle normali prerogative di qualsiasi altro soggetto privato, che deve all’uopo instaurare un’azione processuale davanti ad un giudice - di trovare immediata soddisfazione delle sue ragioni, con strumenti quali ad es. il fermo amministrativo ex art. 69 R. D. 2440/1923, l’ingiunzione speciale ex R. D. 639/1910. Ciò mi pare coerente con quanto oggi previsto dall’art. 1 comma 1 bis della Legge 241/1990, che statuisce che “la pubblica amministrazione nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.

Attualmente il potere dell’amministrazione anche sotto il profilo temporale, sia nell’ambito di rapporti autoritativi che paritetici, è stato disciplinato per l’esercizio dell’attività di autotutela in termini più chiari; si pensi, seguendo l’ordine cronologico, all’art. 1 comma 136 della Legge 311/2004, ove si prevede che “al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.

Al successivo art. 21-nonies della Legge 241/1990, introdotto dalla Legge 15/2005, in cui si prevede che “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 21octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato o da altro organo previsto dalla legge”.

E per ultimo, ma non per importanza, all’art. 1 della medesima Legge 241, come integrato dalla Legge 15/2005, ove si prevede che l’attività amministrativa deve osservare anche “i principi dell’ordinamento comunitario, in cui è compreso anche il principio del legittimo affidamento.

Come è evidente, l’involuzione della citata giurisprudenza amministrativa oggi trova smentite sia sul fronte normativo, posto che le suddette norme hanno attribuito notevole rilevanza al tempo dell’azione amministrativa - e ciò dovrebbe comportare una revisione degli orientamenti negativi che nel tempo si sono consolidati, riempiendo la lacuna lasciata dalle Adunanze plenarie del 1992-93 sopra evidenziate - ma soprattutto giurisprudenziale, grazie anche ai contributi delle altre giurisdizioni, che in questa materia sono più avanti della giurisprudenza amministrativa.

9. In argomento, non si può che richiamare la giurisprudenza della Corte di Cassazione n. 14198/2004 sopra citata, ove si afferma che il comportamento secondo buona fede, ove sia parte una pubblica amministrazione viene integrato dalle norme procedimentali amministrative della Legge 241/1990. E questo a maggior ragione, visto che il caso in questione riguardava una attività iure privatorum, trattandosi di una revoca di incarico professionale; ma è importante anche la successiva pronunzia n. 9924/2009 sulla Verwirkung, ove si verteva in materia di rapporto di lavoro con una azienda pubblica.

Ma la più autorevole conferma sulla rilevanza del legittimo affidamento deriva - a mio parere - dalla giurisprudenza della Corte dei conti in materia pensionistica, con la sentenza delle Sezioni Riunite QM7/2007[29], ove si è riconosciuta (e sebbene senza riferimenti alla citata giurisprudenza civile) la sussistenza del legittimo affidamento dell’interessato, legata al decorso ed al mancato rispetto da parte della p. a. dei termini procedimentali previsti dall’art. 2 della Legge 241/1990.

La portata di tale decisione va al di là dello specifico settore ordinamentale, essendo estensibile in termini generali anche ad altri ambiti giuridici.

Per ragioni di chiarezza è opportuno richiamare brevemente i termini della questione; nell’ordinamento pensionistico pubblico, il principio del legittimo affidamento è specificamente tutelato dall’art. 206 del DPR 1092/1973, ove si prevede che in caso di revoca o modifica del provvedimento pensionistico definitivo non si procede al recupero in mancanza di fatto doloso dell’interessato.

Tuttavia, si è posta una specifica problematica, poiché la norma, facendo riferimento al solo provvedimento definitivo, non era testualmente estensibile ai casi in cui tra il provvedimento pensionistico provvisorio e quello definitivo comportante una reformatio in peius del primo, intercorressero termini procedimentali di fatto, addirittura più che decennali, per inerzia dell’amministrazione, determinando l’insorgere a carico dei pensionati incolpevoli per i ritardi della stessa, indebiti per somme rilevanti.

Era evidente che la violazione di qualsiasi ragionevole termine procedimentale non potesse ricadere sull’interessato, ignaro ed incolpevole. Sicché la Corte dei conti ha affermato che la tutela del legittimo affidamento è agganciata al rispetto da parte dell’amministrazione dei termini procedimentali previsti dall’art. 2 della Legge 241/1990, dichiarando che “in buona sostanza l’entrata in vigore delle disposizioni di cui alla Legge n. 241/1990 quali integrate dalle disposizioni di legge e regolamentari ex art. 2 della legge stessa ha innovato non con riguardo all’obbligo -già esistente- di portare a compimento atti dovuti, quanto rispetto alle modalità stesse dell’adempimento, per le quali ora vige il dovere di adottare un provvedimento espresso entro il termine univocamente applicabile…... Ciò che invece può rilevare ai fini della valutazione delle conseguenze derivanti dall’inosservanza del termine regolamentare è che proprio la reductio ad unum della consistenza dello spatium deliberandi che le amministrazioni debbono osservare per ciascuna tipologia di procedimento amministrativo di rispettiva competenza pone in risalto l’importanza dell’uniformità di trattamento e del rispetto del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini, i quali, in presenza di determinate e qualificate posizioni giuridiche soggettive, debbono poter legittimamente riporre nell’amministrazione l’affidamento nella effettiva conclusione dei procedimenti che li riguardano -entro l’univoco limite temporale di legge, ovvero autoimposto dall’amministrazione stessa- senza essere più indeterminatamente soggetti, in uno status di incertezza e di precarietà solo transitoriamente giustificabile, alla preesistente incoercibile variabilità di comportamenti dei vari uffici procedenti, peraltro già di per sé elusiva ed irrispettosa dei precetti costituzionali del corretto adempimento delle funzioni pubbliche e del buon andamento dell’amministrazione (artt. 54 e 97 Cost.).

L’affidamento “oggettivo” assume dunque connotazione diverse dallo stato soggettivo di buona fede per sua natura variabile in relazione alle mutevoli circostanze individuali di ciascun rapporto pensionistico, e, come tale, inidoneo a orientare con i necessari criteri di uniformità e di certezza sia le aspettative del privato, sia la condotta della p. a. , sia, infine, l’operato del giudice di tale rapporto (si confrontino, ad esempio, nella parallela materia del recupero di emolumenti retributivi indebitamente percepiti, le recenti, contrastanti pronunce del Consiglio di Stato: sez. IV 24 maggio 2007, n. 2651 e sez. VI, 28 giugno 2007, n. 3773).

L’affidamento nella sicurezza giuridica costituisce invero un valore fondamentale dello Stato di diritto, costituzionalmente protetto nel nostro ordinamento (cfr. Corte costituzionale, sentenze 17 dicembre 1985, n. 349, 14 luglio 1988, n. 822, 4 aprile 1990, n. 155, 10 febbraio 1993, n. 39), ora ancor più rilevante considerato che lo stesso legislatore prescrive che l’attività amministrativa sia retta (anche) dai principi dell’ordinamento comunitario (art. 1, primo comma, della legge 7 agosto 1990 n. 241 quale modificato dall’art. 1 della legge 11 febbraio 2005 n. 15), nel quale il principio di legittimo affidamento è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria in un’ottica di accentuata tutela dell’interesse privato nei confronti delle azioni normativa e amministrativa delle istituzioni europee (Corte di giustizia delle Comunità europee, 15 luglio 2004, causa C459/02; 14 febbraio 1990, causa C350/88; 3 maggio 1978, causa 112/77).

E’ peraltro evidente che l’affidamento di cui si discute, per essere definito legittimo e tutelabile, deve collocarsi nel contesto di una condotta del percettore connotata dall’assenza di qualsiasi violazione dolosa del dovere di correttezza, in tal caso venendo a mancare il presupposto stesso della tutelabilità della posizione soggettiva del pensionato che abbia personalmente concorso alla formazione dell’indebito e che non può dunque attribuire al comportamento dell’amministrazione in sede di recupero dell’indebito stesso alcuna censura di contraddittorietà e di incoerenza, né di penalizzante tardività”.

Da quanto sin qui evidenziato, possiamo concludere e ribadire che le argomentazioni delle Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno una valenza che si pone come un riferimento anche per gli altri plessi giurisdizionali, considerato che la ormai definitiva acquisizione e sussunzione del principio del legittimo affidamento di derivazione comunitaria, anche nell’ambito interno, grazie al rinvio dell’art. 1 della Legge 241/1990 ai principi dell’ordinamento comunitario, pone l’esigenza di una sua generale ed uniforme applicazione in tutte le sue espressioni, davanti a tutte le giurisdizioni, per garantire la certezza del diritto e l’uguaglianza sostanziale dei cittadini davanti alla legge, come previsto dall’art. 3 della Costituzione.

(Altalex, 23 dicembre 2011. Articolo di Giuseppe Grasso)

________________

[1] Cass. 357/1963, in Foro padano 1964,I,1283; si veda pure F. ROSELLI, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli 1983, in particolare 171 e segg..

[2] V. ROPPO, Il Contratto, in Trattato di diritto privato Iudica e Zatti, Milano, 2001, pag. 493.

[3] In effetti, nella vasta dottrina che ha analizzato la giurisprudenza costituzionale, si è rilevata la non esistenza di un criterio logico omogeneo, tale da far desumere con certezza nell’ambito dell’attività legislativa, la piena applicabilità di esso o quantomeno di fissare esatti confini per la sua applicazione, avendo essa anche utilizzato contestualmente a volte il principio di ragionevolezza, si veda ad es. D.U. GALETTA, Legittimo affidamento e leggi finanziarie, alla luce dell’esperienza comparata e comunitaria: riflessioni critiche e proposte per un nuovo approccio in materia di legittimo affidamento nei confronti dell’attività del legislatore, Foro amm. TAR n. 6/2008, pag 1912 e segg. ; ma altresì della medesima, La tutela dell’affidamento nella prospettiva del diritto amministrativo italiano, tedesco e comunitario: un’analisi comparata in Foro amministrativo TAR, 4/2008, pag. 757 ss.. M. GIGANTE, Mutamenti nella regolazione dei rapporti giuridici e legittimo affidamento, Milano 2008 pag. 12 e segg. ; in generale si veda: L. LORELLO, La tutela del legittimo affidamento del cittadino tra diritto interno e diritto comunitario, Torino 1998.

[4] I casi in cui la nostra Corte Costituzionale ha ritenuto di dichiarare l’incostituzionalità di norme sostanzialmente retroattive, riguardano la materia tributaria. Si vedano le fondamentali Corte cost. n. 44/1966 e 65/1969.

Con tali sentenze, ci sembra che la Corte pur non dichiarandolo esplicitamente e facendo riferimento al parametro dell’art. 53 della Cost. , in realtà abbia implicitamente applicato il principio del legittimo affidamento avendo riguardo alla retroattività remota degli effetti della norma e alla loro prevedibilità per consentire il formarsi della capacità contributiva dei soggetti passivi.

[5] C-98/78 Racke; C-276/80 Ferriera padana; C-110/81 Roquette Frères; C-114/81 Tunnel Refineries, C- 331/88 Fedesa; C-143/88-C92/89 Zuckerfabrik Suederditmarschen; C-459/02 Gereken; C-260- C-261/91 Diversinte ed Iberlacta; C-108/81 Amylum; C-84/81 Staple.

[6] Sentenza C-368/89 Crispoltoni.

[7] C-396/98 Schlosstrasse; C-62/00 Marks & Spencer.

[8] C-143/73 Sopad; C-270/84 Licata; C-278/84 Germania; C-162/00 Land Nordrhein Wesrtfalen.

[9] C-70/74 Cnta.

[10] C-81/72 Commissione c. Consiglio.

[11] C-7/56 Algera; C-42/59 Snupat; C-15/60 Simon; C-14/61 Hoogovens.

[12] C-14/81 Alpha Steel.

[13] C-90/95 De Compte.

[14] C-15/85 Consorzio cooperative d’Abruzzo.

[15] Cass. SS. UU. 23031/2007, in Rassegna Tributaria 6/2007, con nota di DI SIENA.

[16] Cass. 17576/2002 in Boll. Trib. 2003,777; Cass. 21513/2006 in Rivista. ssef. it n. 6/2006.

[17] A. COACCIOLI, Manuale di diritto internazionale privato e processuale, Milano 2011,pag. 49 e segg.

[18] Per due specifiche ricerche sul tema si veda: F. ASTONE, Venire contra factum proprium, Napoli 2006; F. FESTI, Il divieto di venire contro il fatto proprio, Milano 2007.

[19] Cass. sez. lav. 2067/1992, Mass. Giur. italiana, 1992.

[20] In Riv. it. dir. lav. n. 3/2010, pag. 593 con nota di Ratti.

[21] Per una completa disamina sull’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza rimane fondamentale: F. MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico,Milano 2001 ed ivi ci si riferisce a GUICCIARDI, recensione a Karl Schmitt, in Arch. Dir. Pubb. , 1936, 561 e segg. ed a M. S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell’interpretazione, Milano 1939, 142 e segg. ; ma di recente si veda nota 3, oltre a : S. ANTONIAZZI, La tutela del legittimo affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione, Torino 2005; F. GAFFURI, L’acquiescenza al provvedimento amministrativo e la tutela dell’affidamento, Milano 2006; L. GIANI, funzione amministrativa e obblighi di correttezza. Profili di tutela del privato, Napoli 2006.

[22] Cons. di Stato sez. IV 1090/1998; TAR Marche 115/1998, entrambe in Foro amministrativo 1998.

[23] TAR Campania NA 2389/2004, in Foro amministrativo TAR 2004 con nota di DE FALCO.

[24] TAR Campania SA 346/2006 In Foro amministrativo TAR 2006.

[25] Cons. di Stato sez. IV 3536/2008, in giustizia-amministrativa.it.

[26] Sono rispettivamente la n. 20,21,22,23/1992 in Foro amm. e Rass. C-ons. di Stato 1992 e la successiva n. 11/1993, in Rass. Cons. di Stato 1993 e Riv. Corte dei conti 1993.

[27] Consiglio di Stato AP ivi cit. nota prec.

[28] Consiglio di Stato, sez. VI, 3950/2009 in Foro amm. CDS 2009.

[29] In Rivista della Corte dei conti, 2007.

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