Risoluzione per inadempimento e restituzioni: il problema

Articolo, 07/05/2012

Risoluzione per inadempimento e restituzioni: il problemaSommario: 1. Le restituzioni di prestazioni contrattuali nel quadro della ripetizione dell’indebito. – 2. Fondamento della tesi tradizionale e sue prime incrinature. – 3. Anche l’art. 1189 c.c. rinvia alla «ripetizione dell’indebito», eppure … – 4. Il problema dell’individuazione della buona o mala fede soggettiva nell’accipiens da contratto – 5. Il contraente inadempiente come accipiens in mala fede. Critica. – 6. I contraenti sono accipientes in buona fede. Critica. – 7. Le ragioni dell’incompatibilità tra risoluzione per inadempimento e indebito. – 8. Segue. Il problema delle restituzioni imperfette. – 9. Uno sguardo al diritto applicato: al di là delle massime, le corti non utilizzano l’indebito. – 10. Un recente compromesso: il modello “2033+2041”. – 11. Debolezze “interne” del nuovo indirizzo. – 12. Segue. Criticità nel rapporto tra arricchimento senza causa e retroattività. – 13. Impostazione dell’indagine.

1. Le restituzioni di prestazioni contrattuali nel quadro della ripetizione dell’indebito

Le disposizioni sul contratto in generale non contemplano una disciplina organica degli effetti restitutori conseguenti all’operare dei rimedi contrattuali[1].

Il problema delle restituzioni affiora – con formule diverse, e di cui non è semplice cogliere la logica sistematica – in tre norme: l’art. 1422 c.c. che, nello stabilire l’imprescrittibilità dell’azione di nullità, precisa che sono soggette a prescrizione le «azioni di ripetizione»[2]; l’art. 1443 c.c. che, con una soluzione gemella a quella indicata dall’art. 2039 c.c., prevede che l’incapace che abbia ottenuto l’annullamento del contratto «non è tenuto a restituire» alla controparte la prestazione ricevuta «se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio»; e l’art. 1463 c.c. secondo cui la parte liberata dal vincolo contrattuale per impossibilità sopravvenuta «deve restituire» la prestazione eventualmente ricevuta «secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito».

Constatata la mancanza di altri dati positivi e l’assenza di dibattiti nei lavori preparatori, gli interpreti hanno valorizzato l’art. 1463 c.c., unica disposizione apparentemente inequivoca, e per tramite del rinvio ivi contenuto hanno individuato nel pagamento dell’indebito l’istituto su cui modellare il regime delle obbligazioni restitutorie conseguenti all’intervento di rimedi contrattuali[3].

Sfogliando i repertori di giurisprudenza, già dai primi anni cinquanta si trova costantemente ribadito il principio di diritto secondo cui ogni qual volta nell’ambito di un rapporto contrattuale venga acclarata la mancanza ab initio o sopravvenuta della causa acquirendi – e dunque, tanto nei casi di nullità, annullamento, rescissione o risoluzione, quanto in qualsiasi altra ipotesi in cui venga meno un vincolo originariamente esistente – l’azione accordata dall’ordinamento per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto caducato[4] è quella di ripetizione di indebito oggettivo[5].

Negli studi monografici l’orientamento degli studiosi si è mostrato più articolato e merita qualche precisazione.

Da parte di alcuno si è visto nell’indebito il «punto di riferimento comune» capace di «abbracciare» i diversi casi in cui una prestazione risulti non sorretta da una «valida causa di attribuzione»[6]; secondo Moscati, in particolare, l’art. 2033 c.c. è la «clausola generale»[7] cui riferirsi in ogni ipotesi in cui non sia mai esistita, o venga successivamente a mancare, la ragione giustificativa dello spostamento patrimoniale.

Un altro autore[8], più cautamente, prende atto della visione giurisprudenziale dell’indebito quale «polo normativo»[9] al quale farebbero capo tutte le singole pretese restitutorie, ma si esprime in termini dubitativi; secondo Breccia, infatti, la generica formulazione dell’art. 2033 c.c. «non esclude» di per sé un’«interpretazione ampia», comprensiva delle ipotesi in cui l’attribuzione patrimoniale venga successivamente privata dell’originario fondamento[10].

Al di là di tali diversi accenti, i primi studi sistematici nella vigenza del nuovo codice offrono una comune proposta ricostruttiva che si può così schematizzare:

(i) l’effetto retroattivo che consegue all’esercizio dei rimedi estintivi[11] svolge la funzione di rimuovere alla radice il contratto, ma non è di per sé idoneo a governare la restituzione delle prestazioni (eventualmente) eseguite;

(ii) nello specifico le restituzioni sono disciplinate dalle norme relative alla ripetizione dell’indebito: ciò in virtù del richiamo testuale contenuto nell’art. 1463 c.c. che, al di là della sua collocazione sistematica, è disposizione idonea a porre le basi per una comune teoria delle restituzioni da contratto;

(iii) l’indebito, peraltro, è istituto capace di fondare la ripetizione non solamente di «somme di denaro» e «cose»[12] ma di ogni «prestazione» non più sorretta da una causa giustificatrice[13]: quando all’art. 2033 c.c. il codice utilizza il termine «pagamento» non ha, infatti, voluto limitare il campo di applicazione alle sole obbligazioni pecuniarie[14].

Per queste ragioni, secondo la dottrina[15], le regole dell’indebito rappresentano la fonte normativa di tutte le restituzioni da caducazione, essendo in grado di correggere lo squilibrio determinato dall’esecuzione di prestazioni non più dovute quale che sia il rimedio operante o la vicenda intervenuta.

2. Fondamento della tesi tradizionale e sue prime incrinature

Risulta ancora attuale l’interrogativo formulato più di quarant’anni fa da Breccia[16] se il rinvio contenuto nell’art. 1463 c.c. possa ritenersi operante per tutti i rimedi contrattuali o se sia, invece, necessaria una più puntuale verifica caso per caso[17].

Dinanzi a tale questione la dottrina ha osservato che, nell’unica occasione in cui si è occupato di regolare direttamente la restituzione di prestazioni rese in esecuzione di un contratto caducato, il codice ha richiamato la disciplina della ripetizione dell’indebito; ciò ha fatto supporre che quel medesimo richiamo sia in genere utilizzabile anche nei casi non espressamente previsti[18].

Con riferimento allo specifico ambito di osservazione di questa indagine – le restituzioni conseguenti a risoluzione per inadempimento – si è precisato inoltre che, ove la regola individuata dall’art. 1463 c.c. non fosse riferibile anche alle altre cause di scioglimento del contratto, la stessa risulterebbe «norma isolata» e «perderebbe qualsiasi senso»[19].

È su queste basi che si è sviluppata la tesi[20] secondo cui il legislatore si è servito talvolta della formula ellittica della retroattività (art. 1458 c.c.) e talaltra della via esplicita e non equivoca del rinvio (art. 1463 c.c.) per identificare nella ripetizione dell’indebito le norme che costituiscono il sostrato su cui ricostruire la disciplina delle obbligazioni restitutorie da risoluzione.

Non pare necessario anticipare le ragioni che nel corso di questa ricerca ci porteranno ad affermare che la formula di retroattività della risoluzione è portatrice di un autonomo significato, per osservare che questa ricostruzione presenta alcuni aspetti di criticità.

Anzitutto, l’argomento letterale non giustifica di per sé una generalizzazione del richiamo della disciplina dell’indebito agli altri casi di risoluzione: il codice, dopo aver indicato che la risoluzione per inadempimento ha «effetto retroattivo» e che quella per impossibilità sopravvenuta dà luogo alla restituzione della prestazione eventualmente ricevuta «secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito», all’art. 1467 c.c. sancisce che la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta produce «gli effetti stabiliti dall’art. 1458 c.c.». L’impressione che si ricava è, dunque, che la formula di retroattività vanta una spiccata autonomia rispetto al richiamo che compare nell’art. 1463 c.c.[21]

Tra le diverse cause di scioglimento del contratto, inoltre, è proprio la risoluzione per inadempimento a rappresentare il modello di riferimento; d’altronde, l’impossibilità sopravvenuta è, anzitutto, vicenda dell’obbligazione e, solo di riflesso, vicenda del contratto[22] di cui, a ben vedere, l’art. 1463 c.c. neppure menziona (almeno non espressamente) l’effetto risolutivo. Da qui la conclusione che l’art. 1458 c.c., oltre ad apparire ad un esame testuale regola autonoma, si presenta come il prototipo cui tendenzialmente riferirsi per individuare la disciplina degli effetti della risoluzione, quale che ne sia la causa[23].

Non può, infine, trascurarsi il fatto che l’impossibilità sopravvenuta, in quanto ipotesi di risoluzione automatica e di diritto[24], potrebbe aver suggerito un esplicito riferimento all’effetto restitutorio[25]: sciolto il contratto, non devono permanere prestazioni sine causa[26]. Secondo una parte della dottrina, ove si presti attenzione al fatto che la res ricevuta nella fase di costanza del rapporto potrebbe anche essere perita in tempo antecedente al verificarsi dell’impossibilità della controprestazione, emergono le ragioni della scelta del rinvio alla ripetizione dell’indebito: tale richiamo avrebbe, infatti, lo specifico compito di far sì che l’accipiens, soggetto su cui ricade il rischio del perimento della controprestazione, non risponda anche dell’eventuale perimento della res ricevuta, se non nei soli limiti dell’arricchimento eventualmente conseguito[27].

Già in base a questi primi riscontri, emergono ragioni che mettono in dubbio la ricostruzione unitaria e mostrano l’esigenza di una ricerca volta a valutare se nel panorama delle risoluzioni sia opportuno dilatare il ruolo dell’art. 1463 c.c. sino a fargli assumere una posizione di centralità che appare, invece, tutta da dimostrare[28].

3. Anche l’art. 1189 c.c. rinvia alla «ripetizione dell’indebito», eppure…

Come abbiamo visto, sembra manifestarsi un primo ordine di perplessità circa l’opportunità di utilizzare la disposizione in materia di impossibilità sopravvenuta quale base su cui ricostruire una disciplina unitaria degli effetti restitutori conseguenti alle diverse cause di risoluzione.

I segni di debolezza sono, però, stati trascurati a fronte dell’apparente linearità del dettato codicistico. In altre parole, il diretto e puntuale riferimento alle «regole stabilite per la ripetizione dell’indebito» ha in genere dissuaso la dottrina dal mettere in discussione la capacità espansiva del rinvio in esame, così come dal verificarne l’effettiva portata applicativa[29].

Eppure, che tale richiamo, da solo, non possa bastare, sembra attestarlo l’art. 1189 c.c. – unica altra disposizione, oltre al più volte ricordato art. 1463 c.c., in cui il codice civile rinvia in modo diretto alla disciplina della condictio.

Le regole sull’adempimento dell’obbligazione prevedono che il pagamento deve essere fatto al creditore, al suo rappresentante, ovvero ad un soggetto indicato dall’interessato o autorizzato dalla legge. L’art. 1189 c.c., al riguardo, dispone che il debitore che esegue un pagamento a chi, in base a circostanze univoche, appare legittimato, è liberato se prova di essere stato in buona fede; in tal caso – recita il secondo comma – l’accipiens sarà tenuto alla «restituzione» verso il vero creditore «secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito».

È utile osservare che, a dispetto dell’apparente nitidezza del richiamo che l’art. 1189 c.c. effettua agli artt. 2033 e ss. c.c., la dottrina ritiene che al vero creditore non spetta una condictio in senso tecnico[30].

Pur assumendo che l’obbligazione di restituzione non identifichi una fattispecie propria di applicazione delle regole sul pagamento dell’indebito, alcuni autori ritengono in ogni caso intatta la portata precettiva del rinvio, osservando che il meccanismo restitutorio identificato per relationem dall’art. 1189 c.c. non comporta deviazioni dai princìpi dell’istituto richiamato[31]; secondo questa ricostruzione, infatti, tale disposizione rappresenterebbe una figura autonoma di indebito soggettivo ex latere accipientis che, trovando fondamento nello stesso titolo che il creditore già vantava verso il debitore liberato, consentirebbe di non alterare la «natura personale» propria del rimedio restitutorio cui la norma rimanda[32].

Questa prospettiva rivela, tuttavia, due profili di criticità: anzitutto, il pagamento al creditore apparente, estinguendo il debito, sembra impedire che l’azione ex art. 1189, c. 2, c.c. possa ritenersi fondata sul titolo preesistente venuto meno[33]. Inoltre, se si considera che nella disciplina dell’indebito la fonte dell’obbligazione deriva dall’aver eseguito una prestazione (oggettivamente o soggettivamente) non dovuta, la disposizione in esame, che si caratterizza invece per il fatto di attribuire un’azione ad un soggetto (il creditore effettivo) che è rimasto estraneo alla fase solutoria, non sembra coordinabile con il carattere personale proprio della condictio[34].

Più convincente pare, dunque, la lettura proposta da altri autori che, negando che tra vero creditore e creditore apparente operino le regole del pagamento dell’indebito, propongono di superare il non coerente dato letterale[35] collocando la fattispecie in esame nell’ambito di un diverso istituto; più precisamente, secondo questa tesi, il riferimento alla normativa sull’indebito andrebbe colto «sul piano storico» in quanto «retaggio del codice abrogato», e l’azione ex art. 1189, c. 2, c.c., basandosi su una valutazione comparativa tra il patrimonio del creditore apparente (arricchito di un quid che non gli spetta) e il patrimonio del creditore effettivo (privato del proprio diritto alla prestazione), andrebbe qualificata come fattispecie di arricchimento senza causa[36].

Al di là degli specifici esiti cui hanno condotto le discussioni che si sono sviluppate intorno alla proprietà del riferimento testuale contenuto nell’art. 1189 c.c.[37], questa breve digressione conferma che l’esistenza di un rinvio testuale di per sé non è di ostacolo al superamento dell’argomento letterale da parte dell’interprete.

Di più: posto che le due norme menzionate risultano le sole nel panorama codicistico a richiamare espressamente le regole sulla ripetizione dell’indebito, non pare persuasiva la scelta di sovrastimare l’argomento letterale quasi ponendolo a sbarramento di ulteriori analisi (come nel caso dell’art. 1463 c.c.), quando, in una non dissimile situazione (è l’ipotesi dell’art. 1189 c.c.), una parte della dottrina, attraverso un’interpretazione sostanzialmente abrogante, preferisce sterilizzare la forza di quello stesso richiamo, ritenendolo frutto di una «sorta di inerzia della tradizione» risalente al codice previgente nel quale mancava la previsione dell’arricchimento ingiustificato[38].

Volendo tracciare qualche primo risultato dell’indagine, due sono i dati che emergono:

(i) per affermare un legame tra risoluzione per inadempimento e ripetizione dell’indebito non pare sufficiente un riferimento testuale contenuto in una disposizione i cui requisiti di somiglianza, ai fini dell’applicazione delle regole sull’analogia legis, risultano quantomeno controvertibili[39];

(ii) per capire se la disciplina dell’indebito svolga un ruolo, e quale, nelle restituzioni conseguenti a risoluzione per inadempimento è necessario procedere ad una verifica di compatibilità funzionale[40].

4. Il problema dell’individuazione della buona o mala fede soggettiva nell’accipiens da contratto

Vagliare da un punto di vista funzionale il rapporto tra risoluzione per inadempimento e indebito significa, anzitutto, chiedersi: è possibile identificare in un contraente che riceve una prestazione in forza di un valido ed efficace rapporto contrattuale (poi venuto meno) uno stato di buona o mala fede soggettiva[41]?

La domanda nasce dalla constatazione che nel pagamento dell’indebito la distinzione tra buona e mala fede rappresenta uno dei punti cardine dell’istituto su cui l’obbligazione restitutoria si modula e prende forma[42].

Nello specifico, lo stato soggettivo dell’accipiente:

(i) incide sugli accessori del diritto di credito[43]: la seconda proposizione dell’art. 2033 c.c. prevede, infatti, che il dies a quo per il computo di frutti ed interessi decorre, a seconda che l’accipiens sia in buona o mala fede, rispettivamente dal giorno della domanda giudiziale, ovvero dal giorno del pagamento[44];

(ii) determina l’oggetto della prestazione da restituire in caso di perimento o deterioramento: ai sensi dell’art. 2037 c.c., infatti, mentre l’accipiens in buona fede risponde – quand’anche la cosa perisca o si deteriori per fatto proprio – nei limiti dell’arricchimento, l’accipiens in mala fede è sempre tenuto a restituire il valore della res tradita, e ciò pure se il perimento dipende da caso fortuito[45];

(iii) determina l’oggetto della prestazione da restituire anche in caso di alienazione: l’art. 2038 c.c. prevede, infatti, che l’accipiens in buona fede che aliena la cosa ricevuta deve restituire il corrispettivo eventualmente ricevuto, e va esente da restituzioni ove l’alienazione sia a titolo gratuito; per converso, l’accipiens in mala fede è obbligato a restituire la cosa in natura o a corrispondere la maggior somma tra il valore di mercato e il corrispettivo conseguito, e rimane comunque obbligato nei limiti dell’arricchimento, se l’alienazione è a titolo gratuito.

La lettura di questi dati conferma che le regole della ripetizione dell’indebito sono strutturate secondo una logica bipartita. Consente, inoltre, di porre in risalto una caratteristica dell’istituto: la condictio è disciplina in grado di generare restituzioni senza che sia necessario il filtro di un giudizio dell’interprete del caso concreto solo ove la domanda abbia ad oggetto denaro o una res materialmente esistente in natura; in tutte le altre ipotesi – il terreno è ampio e spazia dalla restituzione di frutti e interessi, alla restituzione per equivalente di beni o, ancora, al rimborso di spese e miglioramenti[46] – la determinazione non solo del quantum ma persino dell’an dell’obbligazione restitutoria è subordinata, invece, alla previa individuazione dello stato soggettivo del contraente-accipiens[47].

L’operazione di qualificazione dello stato soggettivo, se riferita alla restituzione di prestazioni che consegue alla risoluzione per inadempimento del contratto, si rivela, però, tutt’altro che semplice[48].

Accipiens in mala fede è il soggetto che riceve una prestazione nella consapevolezza che la stessa non è dovuta. Se spostiamo questo stato soggettivo sul terreno dell’esecuzione del contratto, ci accorgiamo che – nella normalità dei casi, e dunque salvo intervengano altre patologie – i contraenti non sono in mala fede: avendo stipulato un contratto, essi ricevono una prestazione che sanno dovuta, e non certo indebita[49]. Peraltro, a stretto rigore, neppure può dirsi che i contraenti siano in buona fede[50]: tale è il soggetto che riceve una prestazione nell’erronea convinzione che la stessa sia dovuta. Ma quando causa del trasferimento è il contratto (valido), la prestazione (non solo è ritenuta ma) è effettivamente dovuta. [omissis, continua sul volume]

(Altalex, 7 maggio 2012. Articolo di Luca Guerrini, estratto dal volume Le restituzioni contrattuali)

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[1] Come osserva J. Gordley, Foundations of Private Law, Oxford, 2006, p. 417, il fenomeno delle restituzioni non rappresenta una «coherent entity» né si basa «on some coherent principle» ma nasce, piuttosto, «on the need in disparate cases to fill the gaps left by other branches of the law».

[2] Ancora di recente, G. Passagnoli, Invalidità del contratto e restituzioni, in Persona e Mercato, 2010, pp. 100-101 afferma che non deve stupire che il riferimento alla disciplina dell’indebito sia implicito: con riferimento al rimedio della nullità, l’ingresso della condictio è «dato per scontato» dal legislatore che lo ha considerato «corollario logico, ancor prima che giuridico».

[3] Cfr. E. Moscati, Indebito (pagamento dell’), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, p. 83 ss. poi ripreso ed ampliato in Id., in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 61 ss.; M. Libertini, Interessi, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, p. 115; U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, Milano, 1974, p. 236 ss., di cui vedi anche Id., Indebito (ripetizione dell’), in Enc. giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, p. 4. Più di recente, adde C.M. Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, p. 290; D. Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999, pp. 31-76; M. Rossetti, La risoluzione per inadempimento, in Il diritto nella giurisprudenza, a cura di P. Cendon, I contratti in generale, XIII, Torino, 2000, p. 181 ss.; A. Albanese, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, p. 419 ss.; G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, Artt. 1453-1459, in Il codice civile. Commentario, fondato e diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2007, p. 674.

Isolate invece, almeno fino alla fine degli anni ottanta, le voci contrarie: cfr. G. Stolfi, Teoria generale del negozio giuridico, Padova, 1961, p. 70, secondo cui l’ambito di applicazione della condictio andrebbe circoscritto alle sole ipotesi di pagamento non dovuto intercorso tra soggetti che non siano mai stati in rapporto tra di loro. Sul punto v. anche P. Barcellona, Note critiche in tema di rapporti tra negozio e giusta causa dell’attribuzione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1965, p. 32, nonché F. Benatti, Il pagamento con cose altrui, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, p. 495.

[4] La formula, pur atecnica, è sempre più in uso tra gli studiosi delle obbligazioni restitutorie: cfr., su tutti, E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto e pretese di restituzione, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 435.

[5] Cfr., tra le prime, Cass. civ., 10 febbraio 1953, n. 327, in Rep. Foro it., 1953, voce Indebito, n. 2, e, da ultimo, Cass. civ., 7 febbraio 2011, n. 2956, in Contratti, 2011, p. 677, con nota di M. Pirovano, Rilevabilità d’ufficio della nullità e giudizio di risoluzione.

[6] Così E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 119, secondo cui rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2033 c.c. sia le ipotesi di inesistenza originaria della causa solvendi (nullità) sia quelle di mancanza sopravvenuta (annullamento, rescissione, risoluzione). Altrove (p. 89, e già Id., Indebito (pagamento dell’), cit., p. 85) l’A. propone una lettura onnicomprensiva dell’art. 2033 c.c. che prescinde dalla natura privatistica del rapporto obbligatorio.

[7] Così E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 119, ove vedi, in particolare, la nota 6 per l’ampia ricostruzione casistica.

[8] U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 236 ss., tesi ripresa anche in Id., Indebito (ripetizione dell’), cit., p. 3.

[9] Cfr. U. Breccia, Indebito (ripetizione dell’), cit., p. 3, nonché Id., Il pagamento dell’indebito, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, IX, Obbligazioni e contratti, 1, Torino, 1999, p. 932.

[10] Così U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., pp. 236-238, il quale, peraltro, sin dall’Introduzione (p. 18) avverte la necessità di segnalare che la disciplina dell’indebito, apparentemente unitaria, «potrebbe presentare aspetti strutturali diversi a seconda che in origine esista o meno una (valida) causa giustificativa del vincolo». L’A., sviluppando il tema con particolare riferimento alle ipotesi di difetto sopravvenuto della causa, pone (pp. 241-242) due domande che risultano attuali: (i) «se in sede di individuazione della disciplina dell’obbligazione restitutoria sia consentito un rinvio all’istituto della ripetizione dell’indebito» e, in caso positivo, (ii) «se la normativa dell’indebito […] possa considerarsi operante automaticamente, ovvero debba subordinarsi ad un’attenta considerazione della peculiare dinamica funzionale dei singoli istituti di volta in volta contemplati». Sul punto, cfr. infra par. 2.

[11] Parla di rimedi estintivi, o di annientamento, V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, p. 681. Per la riconduzione dei singoli rimedi contrattuali ad un comune effetto retroattivo vedi, nello specifico, e con le opportune precisazioni, p. 817 (nullità), p. 819 (annullabilità), p. 840 (rescissione), e p. 885 e ss. (risoluzione).

[12] Così P. Rescigno, Ripetizione dell’indebito, in Noviss. dig. it., XV, Torino, 1968, p. 1226 (il cui pensiero è stato di recente sviluppato da D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, III, 15, Napoli, 2004, p. 231), secondo cui il nostro legislatore è rimasto fermo ad una concezione della condictio orientata alla cosa e perciò limitata alle prestazioni indebite di dare. Come meglio vedremo infra, par. 10, questa tesi, ripresa da numerosi autori, è oggi maggioritaria.

[13] Così U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 42.

[14] Gli elementi che, secondo la dottrina, inducono a ritenere che la condictio indebiti non si riferisca alle sole prestazioni pecuniarie sono molteplici: anzitutto l’art. 2033, c. 2, c.c. fa riferimento ai «frutti», così implicitamente estendendo la portata della norma alle prestazioni di dare in genere (cfr. D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, cit., p. 187). Ulteriori indici si ricavano dagli artt. 2034 e 2035 c.c. ove il legislatore si esprime genericamente in termini di ripetizione della «prestazione» (l’utilizzo di questa terminologia induce E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 166 ss. a sostenere che nell’ambito di applicazione degli artt. 2033 e ss. c.c. sono comprese anche le prestazioni di fare). U. Breccia, Indebito (ripetizione dell’), cit., p. 2 (così anche Id., Il pagamento dell’indebito, cit., p. 930), dato atto che in quasi tutti i casi in cui l’oggetto dell’istanza restitutoria sia costituito da un facere, «per una necessità prima ancora logica che giuridica» l’oggetto della pretesa è costituito da un indennizzo, afferma che un’interpretazione di carattere sistematico suggerisce di non trascurare l’esigenza primaria di assicurare al solvens «una tutela tendenzialmente uniforme per tutte le ipotesi di prestazione non dovuta» e, dunque, propone di ricondurre alla condictio anche la restituzione di queste prestazioni (E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 168 aggiunge che se la ratio dell’istituto è quella di rimuovere uno spostamento patrimoniale ingiustificato «l’elemento diversificatore […] non può dipendere dal contenuto della prestazione»).

In giurisprudenza, sposa apertamente questa linea Cass. civ., 2 aprile 1982, n. 2029, in Dir. e giur., 1985, p. 802 con nota di S. Selvaggi, Un presunto caso di errore sulla quantità e la dubbia interpretazione giurisprudenziale dell’art. 1430 c.c., secondo cui nel termine pagamento deve comprendersi non solo la corresponsione di una somma di denaro, ma anche l’effettuazione di ogni prestazione derivante da un vincolo obbligatorio che risulti a posteriori non dovuto. Secondo questo indirizzo sussiste, pertanto, una sostanziale coincidenza dell’oggetto della condictio sia che l’obbligazione da cui deriva l’indebito abbia per oggetto un dare, sia che abbia per oggetto un facere.

Utili riscontri, infine, già in R. Nicolò, Adempimento, in Enc. dir., I, 1957, p. 554, che, ragionando in un’ottica meramente contrattuale, propende per la «totale equiparazione» tra i termini pagamento e adempimento. Sul punto vedi anche A. di Majo, Pagamento, in Enc. dir., XXXI, 1981, p. 548, nonché U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 39 ss., ove l’A. ritiene «seriamente discutibile» che il legislatore con tale espressione abbia voluto designare una figura distinta dall’adempimento [opinione ripresa nella voce Indebito (ripetizione dell’), cit., p. 2, nonché in Id., Il pagamento dell’indebito, cit., p. 929] e che (p. 43), in ogni caso, prima di ragionare sull’eventuale applicazione di istituti diversi, andrebbe comunque verificata la possibilità di un’applicazione estensiva dell’istituto dell’indebito. Sul punto cfr. anche E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 155 ss.

[15] Per un riscontro del problema in chiave storica e comparatistica si veda l’ampio studio di E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, Milano, 2010, p. 46 ss.

[16] Cfr. U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 243.

[17] Come anticipato nel paragrafo precedente, la dottrina maggioritaria tratta indistintamente le obbligazioni restitutorie conseguenti a difetto originario e difetto sopravvenuto. Secondo E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 149, una volta accertato che l’obbligazione non sussiste, «poco importa» che la prestazione fosse volta a dare adempimento ad un rapporto poi caducato ovvero si presenti quale autonoma ed indebita attribuzione patrimoniale; la contrapposizione «sulla base dell’origine, negoziale o no, della pretesa del solvens» difetterebbe, infatti, di una ratio su cui ricostruire una simile diversificazione.

[18] Così U. Breccia, Indebito (ripetizione dell’), cit., p. 4, nonché Id., Il pagamento dell’indebito, cit., p. 932.

[19] Nuovamente U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 242. Contra A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, in Scritti in onore di Giuseppe Auletta, II, Milano, 1988, p. 247, secondo cui una simile interpretazione finisce con rimettere al lettore «l’ingrato compito di individuare le ragioni che avrebbero indotto il legislatore ad utilizzare due diversi enunciati (art. 1458: retroattività; art. 1463: rinvio alla disciplina dell’indebito) per dettare un’identica regola e a privilegiare poi, ai fini degli effetti della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, dinanzi al ben più chiaro enunciato dell’art. 1463 c.c., quello certamente più oscuro dell’art. 1458 c.c. (l’art. 1467, c. 1, c.c. rinvia, appunto, all’art. 1458 e non all’art. 1463 c.c.)».

[20] Sempre U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 243. Gli argomenti su cui si basa questa ricostruzione sono dunque quello letterale (il più volte menzionato rinvio contenuto nell’art. 1463 c.c.), quello sistematico (il riferimento all’art. 1422 c.c.) e quello logico (una diversa soluzione sarebbe priva di senso). E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 105 ss. dedica spazio anche all’argomento storico; contra, vedi però, C.A. Cannata, Riflessioni conclusive, in Caducazione degli effetti del contratto e pretese di restituzione, a cura di L. Vacca, Torino 2006, p. 177 ss., nonché, più ampiamente, B. Cortese, Indebiti solutio ed arricchimento ingiustificato, Padova, 2009, passim, spec. p. 191 ss.

[21] In questo senso A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, cit., p. 247, nota 3, e p. 320 ss. ove l’A. giunge alla radicale conclusione per cui la locuzione di retroattività «non può avere il compito di dare ingresso alla normativa della ripetizione dell’indebito». Segue questa linea anche C.G. Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, Artt. 1467-1469, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1995, p. 212 ss., secondo cui il richiamo operato dall’art. 1467 c.c. alla disciplina degli effetti della risoluzione per inadempimento, e non già a quella prevista dall’art. 1463 c.c., «pare dimostrare che la retroattività del rimedio in parola debba prescindere da ogni riferimento ai profili dell’indebito»; secondo l’A. alla sentenza di risoluzione per inadempimento, infatti, dovrebbe conseguire un «obbligo restitutorio di quanto ricevuto, o in idem corpus, o per tantundem, allorquando l’obbligato non sia più in grado di attuare la restituzione della res ricevuta, determinandosi la relativa somma con riferimento ai prezzi praticati al momento della pronuncia».

[22] Cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 936.

[23] Così V. Roppo, Il contratto, cit., p. 883, nonché G. Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, V, Rimedi-2, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, p. 10.

[24] Anche secondo P. Barcellona, Note critiche in tema di rapporti tra negozio e giusta causa dell’attribuzione, cit., pp. 42-43 la diversa formulazione della disposizione in materia di risoluzione per impossibilità sopravvenuta assume un senso in quanto ipotesi di risoluzione di diritto; l’A. precisa, infatti, che il pagamento è, al momento dell’esecuzione, «sicuramente dovuto» e che la qualifica di indebito «si può riferire soltanto all’attribuzione». In altri termini, «indebita, ingiustificata, sarà la ritenzione dell’acquisto da parte dell’altro contraente, nonostante che il trasferimento sia stato prodotto da una fattispecie perfettamente valida ed efficace».

[25] Così C. Castronovo, La risoluzione del contratto nel diritto italiano, in Il contratto inadempiuto. Realtà e tradizione nel diritto contrattuale europeo, a cura di L. Vacca, Torino, 1999, p. 210, nota 9. D’altra parte, come osserva G. Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, cit., p. 72, di fronte all’impossibilità l’inattuazione dello scambio diviene irreversibile e l’esito risolutorio comunque inevitabile.

In giurisprudenza, Cass. civ., 20 dicembre 2007, n. 26958, in Corriere giur., 2008, p. 921, con nota di F. Rolfi, Funzione concreta, interesse del creditore ed inutilità della prestazione: la Cassazione e la rielaborazione del concetto di causa del contratto, oltre a confermare che risoluzione per inadempimento e per impossibilità sopravvenuta operano in modo differente, prova a giustificare la funzione del richiamo alla ripetizione dell’indebito facendo forza sul fatto che la risoluzione ex art. 1463 c.c. può essere legittimamente invocata da entrambe le parti e cioè tanto da colui la cui prestazione rimane possibile, quanto da colui la cui prestazione sia divenuta impossibile: «non avrebbe altrimenti senso prevedere un rimedio restitutorio da indebito se non sulla premessa per cui la parte che abbia eseguito la propria prestazione (prestazione della quale, dunque, non avrebbe più senso discutere in termini di possibilità/impossibilità) può del tutto legittimamente richiedere alla controparte la restituzione a seguito dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione di controparte stessa».

[26] Sul punto L. Cabella Pisu, Delle obbligazioni, Art. 1463-1466, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 2002, p. 132 osserva: «è solo quando interviene una causa di impossibilità che il contratto si scioglie ed è solo in rapporto alle prestazioni divenute impossibili che le controprestazioni eventualmente già ricevute dalla parte impossibilitata vanno restituite. In questo caso, dunque, la risoluzione retroagisce alla data in cui è cessata la regolare esecuzione del contratto, non alla data della sua conclusione come accade per la risoluzione per inadempimento ai sensi dell’art. 1458 c.c.».

[27] In questi termini v. A. Nicolussi, Lesione del potere di disposizione e arricchimento, Milano, 1998, pp. 145-146, il quale precisa che il richiamo all’indebito andrebbe dunque letto come «un opportuno elemento riequilibratore del rapporto debitore-creditore sul piano del contenuto dell’obbligazione restitutoria imposta al debitore». In questo senso, già A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, cit., pp. 252-253, nota 10 osservava che, piuttosto che disciplinare il rapporto solvens-accipiens con riferimento alla «fase successiva al perfezionarsi della fattispecie risolutoria», l’art. 1463 c.c. detta una disciplina che concerne la «fase di costanza del rapporto successivamente risolto». Come non mancano di precisare i due autori, alcuni riscontri in tale senso si trovano anche nei lavori preparatori al codice civile: cfr. Osservazioni e proposte sul progetto del libro quarto, Roma, 1940, p. 259 e ss., nonché Osservazioni e proposte sulla seconda edizione del progetto di libro quarto, II, Roma, 1941 p. 532.

[28] Un’apertura in questo senso la si trova anche in G. Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, cit., p. 76 ss., il quale (p. 77) dubita che risoluzione per inadempimento e risoluzione per impossibilità possano considerarsi aspetti di uno stesso fenomeno.

[29] Della scarsa valenza dell’argomento letterale del richiamo che l’art. 1463 effettua all’indebito sembra convinto anche U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 242. D’altronde non è irrilevante osservare che da un esame dei lavori preparatori dell’attuale codice civile le ragioni di questo rinvio non risultano essere state approfondite. Il che fa concludere, come lo stesso Breccia ha osservato, che «è per lo meno eccessivo trarre da un inciso normativo, che non ha certamente impegnato in modo particolare il legislatore sul piano sistematico, conclusioni di sorta».

[30] Così E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 146, nota 8, ma già in Id., Indebito (pagamento dell’), cit., p. 89.

[31] In questo senso, cfr. E. Moscati, Indebito soggettivo e attuazione del rapporto obbligatorio, in Riv. dir. civ., 1974, I, p. 72 ss., in particolare p. 104. Tale interpretazione risulta già presente in Id., Indebito (pagamento dell’), cit., pp. 88-89, ed è stata successivamente ripresa in E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 146, nota 8. Sul punto v. anche U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 287.

[32] Al riguardo, E. Moscati, Indebito (pagamento dell’), cit., p. 89 precisa che il richiamo all’azione di ripetizione può giustificarsi in quanto «archetipo» su cui è modellato il rimedio a favore del creditore. Allo stesso modo, U. Breccia, Indebito (ripetizione dell’), cit., p. 5 ragiona in termini di «modello normativo» idoneo ad assicurare la piena tutela dell’interesse del creditore. In questo senso, vedi anche A. di Majo, Delle obbligazioni, Art. 1177-1200, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1992, pp. 284-285.

[33] Come, infatti, afferma F. Piraino, Il pagamento al creditore apparente nella prospettiva di un diritto europeo dell’obbligazione, in Europa e dir. privato, 2009, p. 286, è contraddittorio ritenere, da una parte, che il debitore pagando in buona fede estingue il debito, e, dall’altra, che l’azione del creditore continua a trovare fondamento nel diritto di credito originario.

[34] Di recente, nega natura personale all’azione ex art. 1189, c. 2, c.c. A. Albanese, Profili dell’adempimento non dovuto nei rapporti trilaterali: indebito soggettivo, pagamento al creditore apparente, adempimento al terzo e surrogazione reale, in Contratto e impr., 2006, p. 459 ss., che giunge però a qualificare la fattispecie in esame come un’ipotesi di «surrogazione legale» del creditore nel diritto di ripetizione del solvens.

[35] Cfr. A. Nicolussi, Lesione del potere di disposizione e arricchimento, cit., p. 563, il quale precisa che se non si tiene conto del processo di derivazione storica dell’arricchimento «il riferimento all’indebito rimane senza spiegazioni».

[36] Così nuovamente, A. Nicolussi, Lesione del potere di disposizione e arricchimento, cit., pp. 564-565.

[37] Per uno sguardo complessivo alle diverse opinioni sostenute dalla dottrina, si rinvia alla ragionata analisi di F. Piraino, Il pagamento al creditore apparente nella prospettiva di un diritto europeo dell’obbligazione, cit., p. 265 e ss., spec. pp. 282-288, il quale sviluppa una propria personale lettura secondo cui «il diritto nei confronti dell’accipiens si inserisce all’interno di un fenomeno che è di arricchimento ingiustificato del creditore apparente, per reagire al quale l’art. 1189 c.c. appresto lo strumento tecnico della condictio».

[38] Ancora A. Nicolussi, Lesione del potere di disposizione e arricchimento, cit., pp. 564-566.

[39] G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento. Artt. 1453-1459, cit., pp. 694 ss. sostiene che il rinvio alla disciplina dell’indebito contenuto nell’art. 1463 c.c. sarebbe applicabile, in via analogica, alla risoluzione per inadempimento poiché all’impossibilità indicata nell’art. 1463 c.c. corrisponderebbe l’impedimento dell’art. 1453 c.c. di mutatio libelli.

[40] Al termine della quale, per riprendere le parole di U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., p. 245, le iniziali perplessità, come vedremo, «persino si accentuano».

[41] P. Rescigno, Ripetizione dell’indebito, cit., p. 1233 definisce rispettivamente la buona e la mala fede soggettiva come «l’ignoranza del fatto che il pagamento non era dovuto» e «la conoscenza dell’inesistenza dell’obbligazione». V. anche U. Breccia, La buona fede nel pagamento dell’indebito, in Riv. dir. civ., 1974, I, p. 128 e ss., spec. pp. 161-173. In giurisprudenza, cfr. Cass. civ., 9 aprile 2003, n. 5575, in Arch. civ., 2004, p. 264, secondo cui in tema di indebito oggettivo, la mala fede ex art. 2033 c.c. si sostanzia in uno stato soggettivo di conoscenza dell’insussistenza di un diritto al pagamento da parte di chi riceve l’indebito.

[42] Cfr. E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 87. Da ultimo, v. anche M. Dellacasa, Gli effetti della risoluzione, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, V, Rimedi-2, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, p. 379, che si esprime in termini di «rilevanza decisiva» dello stato soggettivo dell’accipiens.

[43] E. Moscati, Tutela della buona fede e mala fede sopravveniente nella disciplina dell’indebito, in Raccolta di scritti in memoria di Raffaele Moschella, Perugia, 1985, p. 317, al riguardo afferma: «se l’obbligazione restitutoria ha la sua fonte nel fatto obiettivo del pagamento dell’indebito è proprio da tale momento che dovrebbe sorgere anche il diritto ai frutti ed agli interessi, che sono in fondo gli accessori della res oggetto della prestazione non dovuta. La restituzione dei frutti e degli interessi si inquadra in un concetto in senso lato di restituzione tanto più che solo recuperando il capitale con tutti gli accessori è possibile al solvens ripristinare nella sua pienezza la situazione patrimoniale preesistente al pagamento dell’indebito».

[44] E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 225 conferma che la «graduazione del quantum dei frutti e degli interessi» in funzione della buona o mala fede del percipiente prevista dall’art. 2033 c.c. costituisce «manifestazione dello stesso criterio» che presiede alle regole contenute negli artt. 2037 e 2038 c.c. (di cui infra immediatamente nel testo).

[45] Si applicherà, inoltre, la regola della corresponsione del valore anche in caso di deterioramento, salvo che il solvens non preferisca ottenere la restituzione del bene e un’indennità.

[46] In margine all’art. 2040 c.c. v. E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., p. 565 ss.

[47] Su questo fenomeno di aggravio ed alleggerimento del contenuto dell’obbligazione cfr. nuovamente E. Moscati, in L. Aru – E. Moscati – P. d’Onofrio, Delle obbligazioni, Art. 2028-2042, cit., pp. 87, 227 e 469. L’opinione è ribadita in Id., Tutela della buona fede e mala fede sopravveniente nella disciplina dell’indebito, cit., p. 309.

[48] Va ribadito, per quanto ovvio, che interessa, in questa sede, la buona fede (non oggettiva ma) soggettiva; sul punto cfr. C. Castronovo, La risoluzione del contratto nel diritto italiano, cit., p. 216, nonché A. Nicolussi, Appunti sulla buona fede soggettiva con particolare riferimento all’indebito, in Riv. critica dir. privato, 1995, p. 265 ss., spec. pp. 294-295, ove l’A. esamina buona fede soggettiva e buona fede oggettiva quali, rispettivamente, requisiti di scienza e qualificazione della condotta. Sulle connessioni tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva, cfr. R. Sacco, Cos’è la buona fede oggettiva?, in Il principio di buona fede, a cura di F.D. Busnelli, Milano, 1987, p. 45 ss.

[49] Il punto è pacifico in dottrina. Vedi, tuttavia, G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento. Artt. 1453-1459, cit., p. 697, secondo cui sarebbe ipotizzabile una situazione di mala fede soggettiva e (al tempo stesso) oggettiva nel caso in cui un contraente, ricevuta una prestazione inesatta, la consumi o la trasferisca a terzi e, contestualmente, agisca per ottenere la risoluzione del contratto.

[50] In questo senso v. C. Castronovo, La risoluzione del contratto nel diritto italiano, cit., p. 217, nonché A. Bruni, Contributo allo studio dei rapporti tra azioni di caducazione contrattuale e ripetizione dell’indebito, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, p. 181, secondo cui un’interpretazione diversa da quella sviluppata sopra nel testo condurrebbe a risultati «aberranti». In giurisprudenza per analoghe considerazioni v. Trib. Milano, 6 ottobre 1998, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 529 (s.m.), con nota di A. D’Adda, Gli obblighi conseguenti alla pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento tra restituzioni e risarcimento.

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