Responsabilità civile

Debito di valore, risarcimento danni, sussistenza, conseguenze

Cassazione civile, sez. III, sentenza 12/02/2008 n° 3268

Debito di valore – risarcimento danni – sussistenza – conseguenze

L’obbligo di risarcire il danno è un debito di valore, con la conseguenza che deve essere automaticamente rivalutato alla luce degli interessi compensativi. (1)

(1) In materia di inadempimento e debiti di valuta, si veda Cassazione civile 14573/2007.

(Fonte: Altalex Massimario 9/2008. Cfr. nota su Altalex Mese)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 12 ottobre 2007 – 12 febbraio 2008, n. 3268

(Presidente Di Nanni– Relatore Frasca)

Svolgimento del processo

p. 1. A seguito di ricorso proposto il 31 marzo 1993, il 1^ aprile 1993 R. P. otteneva dal Presiden­te del Tribunale di Salerno decreto ingiuntivo nei con­fronti della s.p.a. L'Italica Assicurazioni e Riassicurazioni per il pagamento della somma di L. 109.625.000 (oltre interessi legali dal 19 dicembre 1991 al soddisfo) a titolo di indennizzo dovuto in for­za di una polizza infortuni stipulata inter partes. Al decreto si opponeva l'ingiunta, dando fra l'altro atto di avere inviato in pagamento lo stesso giorno della sua notificazione due assegni circolari per l'importo capitale, che erano stati ricevuti il giorno successivo (8 aprile 1993) e sostenendo che gli interessi legali non competevano dalla data indicata nel decreto, in quanto secondo la polizza il credito indennitario era stato quantificato solo dopo la decisione del previsto collegio medico, che era intervenuta soltanto l'8 marzo 1993.

Nel contraddittorio del P. il Tribunale di Salerno, con sentenza del 3 dicembre 1998 revocava il decreto opposto in ragione della percezione della somma capitale ingiunta e condannava la società opposta - sul presupposto che l'assicurazione contro gli infortuni rientrasse nell'ambito di quella contro i danni e che il debito fosse di valore - al pagamento in favore dell'opposto della rivalutazione monetaria calcolata secondo gli indici ISTAT relativi all'incremento annua­le del costo della vita, sul capitale stesso, dal 19 dicembre 1991 all'8 marzo 1993, nonché al pagamento degli interessi legali sulla somma rivalutata dal 19 di­cembre 1991 all'8 marzo 1993 e sul capitale dal 9 marzo 1993 al soddisfo.

La sentenza veniva appellata dalla società assicuratrice che - dando atto di averla onorata con riserva al fine di evitare l'azione esecutiva - la censurava quanto alla qualificazione come debito di valore dell'indennizzo fino al momento dell'esito della peri­zia medica, che ne aveva determinato la trasformazione in debito di valuta; assumeva, altresì, che la previ­sione contrattuale del collegio medico comportava che essa deducente non potesse essere considerata inadem­piente, onde fino a quel momento Essa non versava in una situazione di illecito e, quindi, di debito di va­lore; soggiungeva ancora che in ogni caso il tasso di interessi assorbiva la rivalutazione e che gli uni non erano cumulabili con l'altra, perché si sarebbe altri­menti verificata una locupletazione. In forza di tali assunti, la società chiedeva che la sentenza impugnata fosse riformata dichiarandosi non dovuti la rivaluta­zione monetaria e gli interessi e che, inoltre, il P. fosse condannato alla restituzione di quanto pa­gato in ottemperanza ad essa.

Nella resistenza all'appello del P., la Corte d'Appello di Salerno, con sentenza del 19 luglio 2002, in parziale accoglimento dell'appello, riformando la sentenza di primo grado rideterminava il residuo credi­to dovuto al P. in forza di essa in Euro 5.607,10, compensava fra le parti un terzo delle spese di primo grado, poneva i residui due terzi a carico dell'appellante, condannava l'appellato alla restitu­zione alla società appellante della somma di Euro 13.742,78 e di altra somma per le spese precettate in forza della sentenza di primo grado, regolava in fine le spese del grado ponendole per due terzi a carico dell'appellante e compensando il terzo residuo.

p. 2. La sentenza impugnata ha anzitutto condiviso la qualificazione del debito come di valore già assunta dal Tribunale, osservando che, nell'ambito dell'assicurazione contro gli infortuni a favore di terzo (figura alla quale doveva ricondursi la polizza oggetto di lite), mentre potrebbe qualificarsi di valu­ta il debito indennitario per il rischio morte, dovreb­be qualificarsi di valore il debito indennitario per il rischio da invalidità temporanea e permanente fino al momento in cui in base ai patti contrattuali si pervie­ne alla determinazione dell'indennizzo. Ha, pertanto, ritenuto corretta l'affermazione del primo giudice che il credito del P. era stato di valore dal momento in cui si era verificato l'evento pregiudizievole fino al momento in cui si era pervenuti alla liquidazione dell'ammontare dell'indennizzo all'esito della perizia contrattuale eseguita dal collegio medico e sulla base dei coefficienti stabiliti in contratto e, quindi, fino all'8 marzo 1993, data alla quale il credito era dive­nuto, invece, di valuta.

Ha però dissentito la Corte territoriale dalla sen­tenza di primo grado, là dove essa, per il periodo in­tercorrente fra il sinistro (19 dicembre 1991) e la li­quidazione (8 marzo 1993), oltre alla rivalutazione mo­netaria, aveva riconosciuto anche gli interessi sul ca­pitale, in ragione della loro natura compensativa del mancato introito del numerario. Su questo punto, pre­mettendo che l'esame della sua correttezza si doveva intendere devoluto dall'appello della società assicuratrice, la Corte salernitana ha osservato che la quali­ficazione dell'indennizzo come debito di valore fino alla liquidazione non comportava l'attribuzione, oltre alla rivalutazione - accessorio deputato alla reinte­grazione del patrimonio del creditore proprio in ragio­ne della natura del debito - del riconoscimento automa­tico degli interessi legali. Ciò, perché di essi si do­vrebbe ritenere la funzione compensativa del patrimonio del danneggiato, ma pur sempre in dipendenza del ritar­do del debitore nell'adempimento dell'obbligazione. Al riguardo la Corte territoriale ha invocato l'insegnamento di Cass. sez. un. n. 1712 del 1995 ed ha concluso che "il dies a quo del mancato godimento dell'equivalente pecuniario corrispondente al capitale rivalutato è da individuarsi nella data in cui assume giuridico rilievo il ritardo dell'obbligato", poiché ai sensi dell'art. 1219 c.c. ai fini della mora sarebbe necessario che il debito pecuniario di cui si invochi l'inadempimento risulti, oltre che già quantificato, anche assoggettato a scadenza certa, conosciuta o cono­scibile dall'obbligato e considerato che, se è vero che la mora non presuppone la liquidità del credito, sareb­be del pari vero che, affinchè si configuri un ritardo colpevole, vi sia la certezza dell'ammontare del debi­to, secondo quanto determinato dalle parti oppure sia determinabile in base a criteri certi convenzionalmente o normativamente previsti (viene citata Cass. n. 13342 del 1999). Nella specie, fino alla liquidazione perita­le non era sussistita la possibilità di fissare la de­correnza degli interessi di mora, per non essere la condotta della società assicuratrice inquadrabile come colpevole inadempimento: infatti, se era vero che dopo il sinistro (avvenuto il 19 dicembre 1991), il P. aveva, tramite il suo difensore, in data 4-16 agosto 1992 sollecitato la formazione del collegio peritale medico per la determinazione, in forza della relativa previsione contrattuale, delle sue conseguenze, era altrettanto vero che né prima, né dopo tale comunicazione e fino al momento della quantificazione peritale si erano evidenziati comportamenti inadempienti o dilatori da parte della compagnia. In particolare, la Corte ter­ritoriale ha sostenuto tale conclusione osservando: che, come era emerso dalla perizia, l'invalidità prima totale e poi parziale era durata - decrescendo - per un periodo di centosettanta giorni; che all'inizio di ago­sto del 1992 il P. era stato visitato dal sanita­rio della compagnia; che il tempo cosi trascorso era da ritenere ragionevole, occorrendo che i postumi si sta­bilizzassero; che successivamente, essendo insorta di­scordanza sulla valutazione espressa il 7 settembre del 1992 dal sanitario della compagnia, le operazioni di nomina del collegio si erano articolate con la nomina del perito del P. il 20 ottobre successivo, di quello della compagnia l'il novembre 1992, con l'invio della terna di periti tra cui esercitare la scelta all'assicurato da parte della compagnia il 17 novembre e, quindi, con la scelta il 5-11 gennaio 1993; che i lavori peritali erano seguiti dall'1 febbraio 1993 all'8 marzo 1993. Ha, quindi, osservato che tale conse­cuzione di eventi rendeva evidente che il disposto contrattuale delle clausole 17 e 18 delle condizioni gene­rali era stato osservato anche dalla compagnia con cor­rettezza e buona fede, anche tenuto conto che l'esito della perizia si era collocato più vicino alla valutazione del sanitario di fiducia della compagnia che a quella del sanitario di fiducia del P..

Sulla base di tali complessive ragioni la Corte territoriale ha, dunque, escluso la debenza degli inte­ressi per il periodo dal 19 dicembre 1991 all'8 marzo 1993, ritenendo che solo da tale data fossero dovuti sul capitale rivalutato.

p. 2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cas­sazione il P. sulla base di tre motivi.

Ha resistito con controricorso, nel quale ha svolto un motivo di ricorso incidentale, la s.p.a. Riunione Adriatica di Sicurtà, assumendo di avere incorporato la s.p.a. L'italica Assicurazioni per atto di fusione del 29 novembre 1999.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

p. 1. Il ricorso incidentale, in quanto proposto nell'ambito di quello principale, va riunito ad esso.

p. 2. Con il primo motivo del ricorso principale si deduce "violazione dell'art. 360 n. 3 c.p.c. in rela­zione agli artt. 1882, 1905, 1360, 1224 e 1449 (rectius, 1499) c.c", censurandosi la decisione impugnata per avere escluso, pur affermata la natura di valore del debito indennitario, la cumulabilità degli interessi alla rivalutazione.

Il motivo viene illustrato assumendosi che l'art. 1882 c.c. prevede che l’obbligazione dell'assicuratore di rivalere l'assicurato del danno prodotto dal sini­stro scaturisce al verificarsi di un evento attinente alla vita umana e sostenendosi che la relativa obbliga­zione integrerebbe un debito di valore che sorge al mo­mento della stipula della polizza e diviene efficace al momento del verificarsi di quell'evento, che assumereb­be la natura di condizione sospensiva (ai sensi dell'art. 1360 c.c). Da tale momento l'assicuratore sarebbe tenuto alla rivalutazione ed agli interessi e non dal momento della determinazione peritale dell'indennizzo. Infatti, il diritto all'indennizzo sorgerebbe al momento della verificazione dell'evento dannoso e non a quello della liquidazione o della deci­sione. Essendo il debito indennitario di valore ne con­seguirebbe che quando tra il momento della causazione del danno e quello della liquidazione si è verificata una diminuzione del potere di acquisto della moneta il giudice, per rendere effettiva la reintegrazione patri­moniale dovrebbe tenere conto della svalutazione monetaria intervenuta medio tempore. La sentenza impugnata avrebbe erroneamente negato la debenza degli interessi qualificandoli come moratori, mentre essi nella specie, in ragione della natura di valore del debito, avrebbe­ro natura compensativa (come nel caso di cui all'art. 1499 c.c), cioè di interessi dovuti per remunerare il creditore del mancato godimento tempestivo di una somma di danaro e come tali non avrebbero come presupposto il ritardo colpevole del debitore nell'adempimento come quelli moratori e nemmeno la liquidità del credito come i cd. interessi compensativi.

Con il secondo motivo si denuncia "contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5 c.p.c", sotto il profilo che la Corte territoriale, pur qualificando gli interessi che in ipotesi sarebbero stati astrattamente dovuti per il pe­riodo fra il sinistro e, la liquidazione come compensa­tivi, avrebbe arbitrariamente ritenuto necessaria per la loro concreta debenza un colpevole ritardo del debi­tore, in tal modo trascurando che, come emergerebbe dall'art. 1499 c.c. quella tipologia di interessi prescinde dalla mora e dalla liquidità ed esigibilità del credito, mirando a compensare il creditore del mancato godimento di una somma di danaro. Sarebbe incorsa, dun­que, la Corte di merito in una contraddizione in termini.

Con il terzo motivo si deduce "violazione dell'art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all'art. 92 c.p.c", censurandosi la statuizione sulle spese.

p. 3. Con l'unico motivo di ricorso incidentale si denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1224 e 1919 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c", censurandosi la motivazione della sentenza im­pugnata per avere ritenuto che il debito indennitario nell'assicurazione contro gli infortuni fosse stato nel caso di specie di valore dal momento dell'evento danno­so fino alla liquidazione. La censura viene mossa alla stessa premessa che nell'assicurazione contro i danni il debito indennitario sia di valore, osservandosi che nell'assicurazione contro la responsabilità civile l'indennizzo al danneggiato conserverebbe natura di credito di valuta (vengono citate Cass. nn. 7532 del 2003 e n. 12239 del 1998 in tema di assicurazione per la responsabilità civile) e si conclude con l'invocazione di Cass. n. 15407 del 2000 e di Cass. n. 3088 del 1985 quali precedenti affermativi della natura di valuta del debito dell'assicuratore nell'assicurazione contro gli infortuni.

p. 4. E' logicamente preliminare l'esame del motivo di ricorso incidentale che postula la cassazione della sentenza impugnata per una ragione che si colloca logi­camente prima di quelle per le quali ne è chiesta la cassazione dal ricorrente principale.

Infatti, il motivo di ricorso incidentale chiede che la sentenza impugnata venga cassata per avere erro­neamente qualificato come debito di valore il debito indennitario dovuto dall'assicuratore nell'assicurazione contro gli infortuni nel periodo in­tercorrente fra il momento di verificazione dell'evento e quello della liquidazione dell'indennità dovuta con il procedimento peritale (perizia contrattuale) previ­sto dal contratto assicurativo.

Il primo ed il secondo motivo del ricorso principa­le, viceversa, vorrebbero cassata la sentenza impugnata per non avere tratto conseguenze a loro dire dovute proprio in conseguenza della qualificazione del debito indennitario come di valore e, quindi, è chiaro che, se fosse fondato il motivo il ricorso incidentale tali mo­tivi resterebbero automaticamente assorbiti per infon­datezza derivata in conseguenza del venir meno della sentenza per una ragione che ne costituiva la premessa.

p. 4.1. Il motivo di ricorso incidentale è ritenere infondato, in quanto - come non manca di avvertire la stessa ricorrente incidentale - la giurisprudenza di questa Sezione si è ormai attestata - con motivazioni che il Collegio condivide pienamente - nel senso che il debito indennitario nell'assicurazione contro gli in­fortuni, quando è previsto un procedimento di liquida­zione convenzionale per il tramite di una perizia con­trattuale, si connota come debito di valore dal momento del sinistro al verificarsi della liquidazione e solo successivamente a tale momento diventa obbligazione di valuta {in questo senso, da ultimo, Cass. n. 395 del 2007, la quale in motivazione si fa diffusamente carico del contrario orientamento ravvisandone il carattere minoritario).

Non essendosi i giudici del merito attenuti al principio di diritto ormai affermatosi è evidente che la sentenza impugnata, nella parte de qua, deve essere cassata ed il giudice di rinvio si uniformerà al se­guente principio di diritto: “in tema di assicurazione contro i danni, nel cui ambito deve essere ricondotta l'assicurazione contro gli infortuni, il debito di in­dennizzo dell'assicuratore, ancorché venga convenzio­nalmente contenuto, nella sua espressione monetaria, nei limiti di un massimale, configura debito di valore, non di valuta, in quanto assolve una funzione reinte­grativa della perdita subita dal patrimonio dell'assi­curato, e, pertanto, e suscettibile di automatico ade­guamento alla stregua della sopravvenuta svalutazione della moneta”

Il ricorso incidentale è, pertanto, rigettato in applicazione del principio di diritto affermato dalla decisione, alla cui motivazione il Collegio rimanda.

p. 4.2. Venendo all'esame del ricorso principale os­serva il Collegio che i primi due motivi possono essere trattati congiuntamente, previo rilievo che il secondo, pur dedotto alla stregua del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. si risolve nella riproposizione del primo, prospettando come contraddittorio non un ragionamento in fatto della sentenza impugnata, ma il ragionamento giuridico censurato con il primo motivo.

I due motivi così intesi in modo unitario come de­ducenti nella sostanza vizio di violazione di legge ai sensi del n. 3 dell'art. 360 c.p.c. sono fondati nei sensi che di seguito si esporranno.

Appare, infatti, erroneo il ragionamento con cui la Corte territoriale, pur assumendo correttamente la pre­messa qualificatoria dell'obbligazione di indennizzo di cui è processo nel senso del debito di valore, ha escluso la debenza degli interessi cd. compensativi.

Invero, come anche di recente è stato ribadito da questa Corte - nel solco dell'insegnamento della sen­tenza n. 1712 del 1995 resa dalle SS.UU., alla quale la Corte territoriale ha fatto riferimento - “nei debiti di valore i cosiddetti interessi compensativi costitui­scono una mera modalità liquidatoria del danno causato dal ritardato pagamento dell'equivalente monetario at­tuale della somma dovuta all'epoca dell'evento lesivo. Tale danno sussiste solo quando, dal confronto comparativo in unità di pezzi monetari tra la somma rivalutata riconosciuta al creditore al momento della liquidazione e quella di cui egli disporrebbe se (in ipotesi tempe­stivamente soddisfatto) avesse potuto utilizzare l'im­porto allora dovutogli secondo le forme considerate or­dinarie nella comune esperienza ovvero in impieghi più remunerativi, la seconda ipotetica somma sia maggiore della prima, solo in tal caso potendosi ravvisare un danno da ritardo, indennizzabile in vario modo, anche mediante il meccanismo degli interessi, mentre in ogni altro caso il danno va escluso” (così, da ultimo, Cass. n. 22347 del 2007). In base a tale orientamento, gli interessi compensativi, nell'obbligazione relativa a debito di valore, allorquando venga adottato come criterio di risarcimento del danno quello per equiva­lente (cioè della conversione in danaro, mediante aestimatio, del valore del bene perduto da reintegrarsi mediante l'obbligazione risarcitoria e, dunque, di una perdita patrimoniale non costituita essa stessa da una somma di danaro), assolvono la funzione di attribuire al creditore, a condizione che egli dia dimostrazione dei relativi fatti integratori, il risarcimento del danno derivante dal pregiudizio sofferto per non aver potuto comunque disporre della somma che all'epoca dell'insorgenza del debito sarebbe stata idonea a co­prire il valore e l'utilità del bene perduto e quindi dell'equivalente monetario del bene stesso, in modo da poterla reimpiegare per ottenere la massima remunerazione e redditività possibile: se questa remunerazione e redditività venga accertata come maggiore di quella coperta con la mera rivalutazione della somma stessa fino al momento della liquidazione, secondo l'orientamento avallato dalle SS.UU. nella citata sen­tenza, può essere liquidato un danno ulteriore rispetto a quello coperto dalla rivalutazione ed esso, in via equitativa, può commisurarsi agli interessi legali (se il giudice non ritenga di liquidarlo altrimenti).

In particolare, si è osservato, con motivazione che il Collegio condivide pienamente, che “nei debiti di valore è (...) senz'altro possibile che la mera rivalu­tazione monetaria dell'importo liquidato in relazione all'epoca dell'illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore, che va posto nella stessa con­dizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo. Ma occorrerà allora che il creditore alleghi e provi, anche in base a cri-teri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) è inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il paga­mento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo. Il che dipenderà, prevalentemente, dal rap­porto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ov­vio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non sarà normalmente configurabile. In termini più espliciti: se il danno era di 100 in relazione ai valori monetari dell'epoca del fatto (aestimatio) e quella somma equivalga a 150 alla data della sentenza taxatio), il creditore potrà (in via generale) sostenere di aver subito un danno da ritardo non assorbito dalla rivalutazione (ovvero dalla diretta liquidazione in valori monetari attuali) sol­tanto se sia presumibile che, ove avesse immediatamente conseguito 100, disporrebbe all'epoca della sentenza di una somma superiore a 150. In tutti i casi in cui così non sia in ragione di una redditività media del denaro inferiore al tasso di svalutazione nel periodo che vie­ne in considerazione, un danno da ritardo non può esse­re (in via generale) presunto. È allora chiaro come, per un verso, gli interessi cosiddetti compensativi costituiscano una mera modalità liquidatoria del danno da ritardo nei debiti di valore; e come, per altro verso, non sia configurabile alcun automatismo nel riconosci­mento degli stessi: sia perché il danno da ritardo che. con quella modalità liquidatoria si indennizza non ne­cessariamente esiste, sia perché può essere comunque già ricompresso nella somma liquidata in termini monetari attuali” (così Cass. n. 12452 del 2003).

Si tratta, in sostanza, di una tipologia di danno che si connota come danno da lucro cessante (secondo le categorie indicate dall'art. 1223 c.c) e che, del re­sto, potrebbe avere legittimazione (come non mancarono di registrare le SS.UU. nella citata sentenza, nel discutere dell'assonanza con il precipitato normativo dell'art. 1499 cc) anche qualora il risarcimento del debito di valore avvenisse in forma specifica, atteso che in tal caso alla reintegrazione del patrimonio me­diante lo stesso bene perduto potrebbe verosimilmente accompagnarsi l'esistenza di un danno da lucro cessante derivante dal non aver potuto fruire per il tempo ne­cessario alla attribuzione del bene sostitutivo delle potenzialità inerenti il suo godimento.

p. 4.3. Ora, poste queste premesse in ordine alla funzione dei ed, interessi compensativi (che si pongono esattamente nella linea interpretativa segnata da Casa. sez. un. n. 1712 del 1995), l'erroneità del ra­gionamento della Corte territoriale emerge per il fatto che, pur dando atto del carattere di valore del debito indennitario di cui è processo, Essa non ha attribuito - in applicazione dei principi emergenti dal ricordato e consolidato orientamento interpretativo di questa Corte - agli interessi cd. compensativi la funzione di risarcire il danno derivante dall'eventuale accertata differenza fra il lucro che la consecuzione dell'indennizzo al momento della verificazione dell'evento dannoso avrebbe potuto assicurare al Para-via tramite il suo reimpiego immediato fino al momento della liquidazione dell'ammontare rivalutato, e l'ammontare della rivalutazione monetaria della somma stessa.

La sentenza impugnata, infatti, ha ritenuto che il ritardo giustificativo della liquidazione degli inte­ressi in questione per un verso non potesse configurar­si prima delle operazioni di liquidazione tramite la perizia contrattuale prevista dalla polizza assicurati­va, in quanto anteriormente sarebbe mancata la determi­nazione convenzionale del debito, e, quindi, sarebbe mancata la mora, e, per altro verso, che si dovesse trattare di ritardo non dipendente dal tempo occorrente per le relative operazioni, bensì da un atteggiamento di mancata cooperazione dell'assicuratrice e, quindi, colpevole (che nella specie ha escluso esservi stato).

Questo ragionamento - che, peraltro, si muove su due binari argomentativi che non è chiaro se debbano operare in cumulo fra loro, in quanto il primo fa leva sulla necessità che, sia pure in via convenzionale, il danno fosse liquidato (il che, fra l'altro, potrebbe giustificare per coerenza almeno il riconoscere da quel momento gli interessi), e l'altro su un atteggiamento di colpevolezza del debitore nell'adempimento delle obbligazioni di liquidazione convenzionale del danno tra­mite la perizia contrattuale (cioè su un atteggiamento di mancata cooperazione) - si pone del tutto al di fuori della logica dell'insegnamento giurisprudenziale so­pra richiamato che pure dichiara di condividere rife­rendosi alla sentenza n. 1712 del 1995.

Dal tenore della motivazione si comprende che la Corte territoriale è pervenuta a questo approdo perché ha inteso erroneamente la nozione di ritardo nella per­cezione della somma da parte del titolare di un credito di valore che può dare luogo alla liquidazione degli interessi compensativi. Non ha, infatti, assunto questa nozione su un piano meramente oggettivo, cioè su quello della considerazione del fatto che il P. si sia trovato a percepire la somma liquidata per equivalente e rivalutata a far tempo dall'insorgenza del debito (cioè nella specie dell'obbligo di ripristinare il suo patrimonio, ristorandolo della perdita subita a distan­za di tempo da essa e, dunque, dell'esistenza di n las­so di tempo fra aestimatio e taxatio), e, che, conse­quenzialmente, la percezione dell'equivalente, pur accresciuto della rivalutazione, possa avere avuto un va­lore inferiore a quello che la consecuzione dell'equivalente della perdita all'atto della sua veri­ficazione avrebbe potuto assicurare in termini di po­tenziale reimpiego immediato fino al momento della li­quidazione in sede peritale.

Ha dato, invece, rilievo ad un ritardo non già oggettivo, bensì dipendente da un comportamento della debitrice e, quindi, connotato da un rilievo di caratte­re soggettivo: in tal modo ha configurato gli interessi in questione come giustificati da una sorta di funzione sanzionatoria di un inadempimento diverso da quello avente ad oggetto l'indennizzo e rappresentato dai do­veri di collaborazione in funzione della perizia con­trattuale, cioè della liquidazione convenzionale dell'indennizzo.

Inoltre, la sentenza impugnata, nell'esigere che si fosse verificata la liquidazione convenzionale del debito, ha contraddetto la natura dell'obbligazione in­dennitaria come debito di valore, in quanto ha ricolle­gato gli interessi compensativi non all'esigenza di ri­sarcire l'eventuale danno da lucro cessante da mancata disponibilità immediata dell'equivalente monetario di quel debito al momento della sua insorgenza e, quindi, dell'equivalente della perdita patrimoniale, bensì ad un'esigenza di risarcire il danno come convenzionalmen­te liquidato e, quindi, come oggetto ormai di un'obbligazione pecuniaria e, quindi, di valuta.

Viceversa, proprio in ragione della qualificazione del debito indennitario come di valore, la circostanza che il contratto prevedesse una perizia contrattuale per la determinazione convenzionale del debito, di per sé non vale ad escludere che tale perizia dovesse de­terminare il danno derivante dall'infortunio, conside­rando il relativo debito come di valore e, quindi, che, nello stabilire la somma dovuta per equivalente, doves­se farlo tenendo conto della svalutazione monetaria frattanto intervenuta, mentre, per escludere il poten­ziale rilievo della possibilità di un reimpiego imme­diato di essa e, quindi, di un risarcimento del relati­vo danno in difetto di copertura da parte della rivalu­tazione monetaria, sarebbe necessaria - in ipotesi co­me quelle di cui è processo - la previsione contrattuale di una dilazione del pagamento dell'indennizzo (pur rivalutato) fino al momento della liquidazione perita­le, in modo da rendere irrilevante, ma perché escluso dal danno garantito, il differenziale da mancata uti­lizzazione della somma dovuta per l'indennizzo rispetto alla rivalutazione monetaria.

In fine, con riguardo al riferimento della motiva­zione della sentenza impugnata all'art. 1219 cc., ove esso si dovesse interpretare nel senso che non vi sa­rebbe stata una costituzione in mora prima della liqui­dazione peritale in forza di una delle ipotesi da tale norma considerate, non varrebbe ad escludere automati­camente la configurabilità degli interessi compensati­vi, tenuto conto che essa non ha come presupposto l'esistenza della mora ai sensi di detta norma, ma solo il dato oggettivo che la somma riconosciuta per equiva­lente venga conseguita successivamente alla verifica­zione del danno (perdita del bene e nella specie di cui è causa evento dannoso, infortunio, assicurato) e che sussistano le condizioni in precedenza indicate secondo il richiamato orientamento. Il ritardo che rileva è, in sostanza, esclusivamente quello cui allude l'art. 1218 c.c. e non la mora: mora e ritardo sono, infatti, due concetti diversi. La prima, infatti, è necessaria per gli effetti indicati negli art. 1221 e - per le obbligazioni aventi ad oggetto somma di danaro - 1224 cc., il che può comportare, con riferimento ad un debito di valore per cui la costituzione in mora sia necessaria (non essendo esso riconducibile ad alcuna delle ecce­zioni di cui all'art. 1219 cc., come è, peraltro, quello di cui è causa) che, in sua mancanza non si pro­duca l'effetto di cui all'art. 1221 c.c.. Ma nessun ri­lievo la necessità della costituzione in mora può gio­care ai fini dell'eventuale riconoscimento dei ed, in­teressi compensativi nel senso in cui li ammette l’orientamento giurisprudenziale cui ci si è più volte richiamati.

p. 4.4. La sentenza impugnata dev'essere, dunque cas­sata con rinvio in accoglimento dei seguenti principi di diritto:

“quando il debito è di valore e la liquidazione del danno avvenga per equivalente mediante riconosci­mento della rivalutazione monetaria della relativa som­ma di danaro, ove il debitore dimostri la sussistenza di una perdita da lucro cessante per non avere conse­guito la disponibilità della somma di danaro non riva­lutata fino al momento della verificazione del danno ed averla potuta impiegare redditiziamente in modo tale che avrebbe assicurato un guadagno superiore a quanto sia stato liquidato a titolo di rivalutazione monetaria, il giudice deve riconoscere il danno corrisponden­te a tale lucro cessante e può farlo liquidandolo in via equitativa nei cd. interessi compensativi, e ciò indipendentemente da una costituzione in mora, ancorché il debito di valore non sia da fatto illecito e, quin­di, per i relativi effetti la costituzione in mora sia necessaria e senza che sia necessario una condotta del debitore di mancata collaborazione per l'adempimento dell'obbligazione risarcitoria”

“Nell'assicurazione contro gli infortuni, il debi­to indennitario, quando è previsto un procedimento di liquidazione convenzionale per il tramite di una peri­zia contrattuale, si connota come debito di valore dal momento del sinistro al verificarsi della liquidazione e solo successivamente a tale momento diventa obbligazione di valuta. Ne consegue che la somma riconosciuta a titolo di indennizzo dev'essere rivalutata al momento della liquidazione e che, qualora il danneggiato assi­curato alleghi e dimostri che la consecuzione della somma al netto della rivalutazione al momento del sini­stro assicurato gli avrebbe consentito, attraverso il reimpiego immediato, una redditività maggiore rispetto al valore della rivalutazione monetaria, può essere ri­conosciuto il danno da lucro cessante per la mancata consecuzione della differenza mediante i cd. interessi compensativi, senza che rilevi la mancanza di liquidità della somma fino all'esito della perizia contrattuale (a meno che la polizza non preveda che il pagamento dell'Indennizzo, salva la rivalutazione, sia dilaziona­to all'esito della perizia contrattuale, nel qual caso non è configurabile un danno da lucro cessante, perché il rischio assicurato non lo comprende) e senza che sia necessario l'inadempimento dell'assicuratore al dovere di collaborare all'espletamento della perizia”.

Il giudice di rinvio, che si ritiene opportuno de­signare nella Corte di Appello di Napoli, procederà, dunque, a valutare se nella specie competano gli inte­ressi compensativi alla stregua di tali principi.

Il terzo motivo resta assorbito.

Le spese del giudizio di cassazione si intendono rimesse alla decisione del giudice di rinvio.

P.Q.M.

La Corte riunisce il ricorso, rigetta il ricorso incidentale, accoglie i primi due motivi del ricorso principale e dichiara assorbito il terzo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione. Rinvia alla Cor­te d'Appello di Napoli che provvedere anche al regolamento delle spese del giudizio di cassazione.

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