La retroattività in diritto amministrativo e del provvedimento amministrativo in particolare

Articolo, di Luca Scirman 24/09/2014

La retroattività in diritto amministrativo e del provvedimento amministrativo in particolare Il tema della retroattività in diritto amministrativo e, in particolare, degli effetti del provvedimento amministrativo, pur essendo argomento di rilievo e molto più diffuso nella pratica di quanto non si immagini, non è particolarmente trattato né in dottrina né in giurisprudenza.

La manualistica, ove introduca l’argomento, e gli studi di maggior approfondimento[1] inquadrano tradizionalmente la tematica in quella più ampia dell’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo.

Tale impostazione classica va rivisitata alla luce delle modifiche normative intervenute nel corso degli anni, che hanno codificato l’istituto del procedimento amministrativo e degli accordi cd pubblicistici e che hanno statuito la possibilità di impiego di un’ampia gamma di modalità di svolgimento dell’attività di cura e tutela degli interessi pubblici, soprattutto quando questi entrino in conflitto con gli interessi privati.

Le articolate novità normative succedutesi negli ultimi anni, corrispondenti ad un più complesso modo di intendere la realtà giuridica in cui opera la Pubblica Amministrazione, hanno portato – di fatto - ad un diverso modo di intendere e di utilizzare la funzione dell’istituto, che da mera eccezione ad una regola o ad un principio, potrebbe, a date condizioni, inquadrarsi tra le possibili tecniche di gestione degli interessi, coltivati dalla amministrazione nell’ambito delle funzioni ad essa attribuite.


Sommario


Tipologie di retroattività. Istituti analoghi

La regola dell’irretroattività degli atti permea l’intero ordinamento giuridico, trovando uno sbarramento costituzionale espresso solo per le norme penali incriminatrici in senso stretto (art. 25 Cost.) e per le altre norme afflittive[2]. In dottrina, si evidenzia come la regola generale, secondo cui la produzione di effetti del ‘provvedimento’ più importante nel nostro ordinamento, ossia la legge, decorre dal momento del perfezionamento dell’atto (art 11, preleggi al Codice Civile), sollevi il problema della retroattività del provvedimento amministrativo[3].

L’istituto non va confuso con altri simili ma diversi. Tra questi, si discute sulla retrodatazione dell’atto[4]. Qui l’atto è adottato ‘ora per allora’: accade, cioè, che la Pubblica Amministrazione avrebbe dovuto emanarlo in un contesto normativo e di circostanze diverso, ma senza riuscire ad adottarlo tempestivamente. Nella retrodatazione si esclude che la tardività dell’azione dia luogo ad un atteggiamento colpevole della Pubblica Amministrazione e si finge ‘ora’ che l’atto sia stato compiuto ‘allora’. In adempimento di disposizioni normative o giurisdizionali[5] o della stessa amministrazione, infatti, questa riporta la decorrenza degli effetti dell’atto al momento in cui avrebbero dovuto dispiegarsi (es., atto di promozione con cui si fa decorrere la promozione dalla data in cui avrebbe dovuto essere disposta)[6]. Per comprendere meglio la distinzione con le ipotesi di retroattività, si richiama l’esempio tratto da Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 novembre 2010, n. 8111[7]. L’art. 4, commi 8 e 9, l. 11/7/1980, n. 312, recante “nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato” aveva disposto, in via retroattiva, l’inquadramento nella settima qualifica funzionale con il profilo di collaboratore penitenziario, dei dipendenti dell’amministrazione penitenziaria ricorrenti. Ciò ha comportato un effetto ulteriore imponendo all’amministrazione l’obbligo di riliquidare un’indennità penitenziaria ad essi spettante e quindi ha imposto alla Amministrazione di far retroagire la decorrenza dell’atto di liquidazione dell’indennità già spettante ad essi. In tal caso la decorrenza retroattiva va considerata non fittizia, ma efficace anche ad ogni ulteriore fine (ad es., per conseguire i superiori e successivi inquadramenti). La retrodatazione, invece, si caratterizza per essere una fictio juris, che non può far considerare come avvenuta la prestazione del servizio, cui l’ordinamento ricollega il diritto alla retribuzione[8].

Allo stesso modo, almeno per parte della dottrina e della giurisprudenza, vi sono ipotesi apparentemente diverse ma che invece vanno accomunate. Si ritiene infatti che le ipotesi di invalidità sopravvenuta del provvedimento[9] vadano ricondotte alla tematica della retroattività dell’efficacia dell’atto, essendo, in tali ipotesi, l’invalidità un vizio sopravvenuto[10]. La tesi prevalente, tuttavia, contesta in radice l’esistenza della categoria dell’invalidità sopravvenuta, riconducendola a quella dell’inefficacia sopravvenuta e, quindi, disconosce la possibilità di far retroagire gli effetti: in tali casi l’atto diventa invalido sin dal momento della sua emanazione, perché, in applicazione del principio generale tempus regit actum, “l’esercizio delle funzioni amministrative è ancorato al rispetto delle norme in vigore al momento della adozione dei singoli atti”.[11]

L’atto retroattivo, invece, è quello che per legge (es., norme di legge interpretative[12]; la sentenza con riguardo al provvedimento cautelare e agli atti collegati che sono travolti dalla prima con effetti ex tunc; sentenze dichiarative di incostituzionalità delle leggi) o per sua natura (annullamento, anche parziale; decisione sui ricorsi amministrativi[13]; atti di controllo; convalida; ratifica) o per sua stessa determinazione produce effetti, facendoli retroagire nel tempo. Gli effetti, cioé, si producono ancor prima della data di perfezionamento dell’intera fattispecie giuridica, da cui essi derivano. In dati casi si può avere retroattività persino con riguardo al contenuto dispositivo del medesimo provvedimento amministrativo, allorché questo, durante la ‘pendenza’, produca effetti preliminari o prodromici, in attesa che si avveri il fatto attributivo di procedimento[14].

Per contro va osservato che esistono atti che, in via di principio, non possono essere retroattivi, come ad esempio gli atti relativi alla funzione consultiva[15].

Nei casi sopra indicati l’efficacia dell’atto è estesa oltre i confini temporali naturali dell’atto, in deroga al principio di simultaneità tra fatto ed effetto e del principio di condizionalità giuridica (o principio della condicio sine qua non), che postula una priorità giuridica del fatto rispetto all’atto. Inoltre, si configura anche un problema di certezza delle situazioni giuridiche disciplinate. Di qui l’affermazione usuale che la retroattività può ammettersi solo eccezionalmente[16].

Prima di proseguire, tuttavia occorre aggiungere una chiosa, volta a distinguere l’atto retroattivo per legge da quello retroattivo per natura. Le due ipotesi infatti potrebbero confondersi, poiché la ‘natura’ dell’atto è quella configurata dalla legge[17]. Di conseguenza, la retroattività per natura potrebbe farsi confluire in quella legale.

In realtà, il discorso è più complesso.

La retroattività per legge infatti discende direttamente dalla disposizione normativa e si traduce in una deroga, per lo più, alla legislazione ordinaria, che, come sappiamo, non la prevede. La retroattività per legge, dunque, non abbisogna di un apposito atto della amministrazione pubblica che disponga l’effetto principale (ma non esclude atti esecutivi o attuativi della Pubblica Amministrazione), ed, anzi, opera anche contro ogni contraria determinazione amministrativa. Ciò determina, a tacer d’altro, un abbassamento ovvero un’esclusione delle conseguenze di responsabilità a carico della Pubblica Amministrazione.

La retroattività per natura, invece, richiede pur sempre un’applicazione concreta, una scelta concreta della Pubblica Amministrazione che emana l’atto. Ciò consentirebbe, in dati casi e a talune condizioni, di modificare la disciplina della retroazione degli effetti, per escludere l’efficacia retroattiva o comunque per disciplinarla diversamente. Di conseguenza, sarebbe in tali casi registrabile un innalzamento delle conseguenze della responsabilità a carico della Pubblica Amministrazione.

In presenza di statuizioni provvedimentali con valenza regolamentare in quanto dirette a trovare applicazione ripetuta nel tempo ad un numero indeterminato di fattispecie, la regola di irretroattività degli atti a contenuto normativo discende dal combinato disposto degli artt. 4 e 11, preleggi. Detta regola può ricevere deroga per effetto di una disposizione di legge pari ordinata e non in sede di esercizio del potere regolamentare che è fonte normativa gerarchicamente subordinata. Perciò solo in presenza di una norma di legge che a ciò abiliti, gli atti amministrativi generali e regolamenti amministrativi, anche sub-statali, possono avere efficacia retroattiva.

L’affermazione, tuttavia, richiede una precisazione.

A seguito della riforma costituzionale del 2001, il legislatore costituzionale ha operato un riparto delle competenze legislative, a seconda delle materie indicate nell’art. 117, Cost., tra gli Enti che, ex art. 114 Cost., compongono oggi la nostra Repubblica. A parte il caso teorico dell’Ente sub-statale che legiferi monotematicamente in tema di retroattività.[18], potrebbe tuttavia accadere che un ente territoriale sub-statale disciplini, nell’ambito delle materie di carattere concorrente o residuale di propria competenza, un istituto o un ambito di attività autorizzando l’efficacia retroattiva degli stessi.

Nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato, l’Ente territoriale dovrà attendere la disciplina di legge statale; nelle materie concorrenti, l’autorizzazione all’esercizio in via retroattiva dell’azione amministrativa potrà dipendere da una legge statale o regionale (o della provincia autonoma); nelle materie di competenza esclusiva dell’ente territoriale (cd residuali), l’autorizzazione può essere contenuta in una legge regionale o della provincia autonoma, incontrando i limiti previsti.

La distinzione tra le varie forme di retroattività, inoltre, consente di individuare con maggior sicurezza le ragioni (e, conseguentemente, la relativa disciplina), che sono alla base della statuizione retroattiva, argomentandole e delimitandole a contrario sensu dalle ragioni che sono più spesso indicate a fondamento del divieto di retroattività.

La retroattività per legge, infatti, risponde ad esigenze diverse da quella stabilita per disposizione espressa o per natura.

Come detto, i limiti in genere richiamati a tutela contro leggi retroattive sono quelli della ragionevolezza e quelli per cui (Corte Cost., 19/3/1990, n.155; Id., 10/6/1993, n. 283) la certezza dei rapporti preteriti è alla base del principio di retroattività in quanto « costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini ». A questi limiti se ne possono aggiungere altri specifici che in realtà di quelli sono un’applicazione. La tesi tradizionale ritiene sufficiente che la norma retroattiva (in specie, quella interpretativa), per essere considerata costituzionalmente legittima, si limiti a chiarire la portata applicativa di una disposizione precedente; non integri il precetto di quest’ultima e infine non adotti un’opzione ermeneutica non desumibile dall’ordinaria esegesi della stessa. Fermo restando che l’efficacia retroattiva della legge di interpretazione autentica è soggetta al limite del rispetto del principio dell’affidamento dei consociati alla certezza dell’ordinamento giuridico, con la conseguente illegittimità costituzionale di una disposizione interpretativa che indichi una soluzione ermeneutica non prevedibile rispetto a quella affermatasi nella prassi[19].

Di recente, tuttavia la Corte Costituzionale ha ampliato il novero dei limiti posti al legislatore nazionale alle leggi retroattive. In particolare, il legislatore nazionale, che, come detto, in ambiti diversi da quello penale, può introdurre norme retroattive, è soggetto a diversi limiti, enucleabili sia rispetto al nostro contesto costituzionale, sia rispetto alla giurisprudenza comunitaria e alla salvaguardia delle norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

La giurisprudenza costituzionale e sovranazionale sviluppatasi in materia di leggi retroattive ha negli ultimi anni fatto riferimento, rispettivamente, all’art. 3 Cost. e all’art. 6 della CEDU, come richiamati dall’art. 117, primo comma, Cost., che costituiscono parametri del giudizio di costituzionalità delle leggi.

L’art. 6 CEDU, come applicato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, viene letto in rapporto alle altre disposizioni costituzionali e, nella specie, all’art. 3 Cost., secondo gli orientamenti seguiti dalla giurisprudenza costituzionale in tema di efficacia delle norme della CEDU, sin dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007. Infatti, la Corte Costituzionale ha affermato che «la norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza», affinché si realizzi la necessaria «integrazione delle tutele» (sentenza n. 264 del 2012), le quali spetta alla Corte assicurare nello svolgimento del proprio infungibile ruolo. Pertanto, anche quando vengono in rilievo ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., norme della CEDU, la valutazione di legittimità costituzionale «deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate», in quanto «un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative […] rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela» (sentenza n. 1 del 2013). La Corte quindi opera una valutazione «sistemica e non frazionata» dei diritti coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, effettuando il necessario bilanciamento in modo da assicurare la «massima espansione delle garanzie» di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca (sentenze n. 85 del 2013 e n. 264 del 2012).

Il legislatore – nel rispetto di tale previsione – può emanare norme con efficacia retroattiva, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della CEDU (ex plurimis, sentenza n. 78 del 2012).

Tuttavia, occorre che la retroattività non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis, sentenze nn. 93 e 41 del 2011) e, pertanto, la Corte Costituzionale ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali e di altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono ricompresi «il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (ex multis sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).

In particolare, la Corte ebbe già modo di precisare che la norma retroattiva non può tradire l’affidamento del privato, specie se maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, pur se la disposizione retroattiva sia dettata dalla necessità di contenere la spesa pubblica o di far fronte ad evenienze eccezionali (ex plurimis, sentenze n. 24 del 2009, n. 374 del 2002 e n. 419 del 2000).

Del tutto affini sono i principi in tema di leggi retroattive sviluppati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento all’art. 6 della CEDU[20]. La Corte di Strasburgo, infatti, ha ripetutamente affermato, con specifico riguardo a leggi retroattive del nostro ordinamento, che in linea di principio non è vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una regolamentazione innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’art. 6 della CEDU, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia (pronunce 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 14 febbraio 2012, Arras contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi contro Italia; Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino contro Italia).

La Corte di Strasburgo ha altresì rimarcato che le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere intese in senso restrittivo (pronuncia 14 febbraio 2012, Arras contro Italia) e che il solo interesse finanziario dello Stato non consente di giustificare l’intervento retroattivo (pronunce 25 novembre 2010, Lilly France contro Francia; 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais contro Francia; 16 gennaio 2007, Chiesi S.A. contro Francia; 9 gennaio 2007, Arnolin contro Francia; 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia).

Viceversa, lo stato del giudizio e il grado di consolidamento dell’accertamento, l’imprevedibilità dell’intervento legislativo e la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia, sono tutti elementi considerati dalla Corte europea per verificare se una legge retroattiva determini una violazione dell’art. 6 della CEDU: sentenze 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas contro Francia; 26 ottobre 1997, Papageorgiou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society contro Regno Unito.

Le suddette riflessioni sono state espresse dalla stessa Corte Costituzionale con riguardo ad una normativa sottoposta al suo giudizio che, ampliando il novero dei crediti erariali assistiti dal privilegio nell’ambito delle procedure fallimentari, regolava rapporti di natura privata tra creditori concorrenti di uno stesso debitore, con effetti retroattivi, fino ad influire sullo stato passivo esecutivo già divenuto definitivo, superando così anche il limite del giudicato “endo-fallimentare”.

La Corte ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, attribuendo rilievo alle seguenti circostanze: il consolidamento, conseguito con il cd giudicato “endo-fallimentare”, delle aspettative dei creditori incise dalla disposizione retroattiva; l’imprevedibilità dell’innovazione legislativa; l’alterazione a favore dello Stato – parte della procedura concorsuale – del rapporto tra creditori concorrenti, determinata dalle norme in discussione; l’assenza di adeguati motivi che giustifichino la retroattività della legge.

In ordine a quest’ultimo aspetto, è opportuno sottolineare che, a differenza di altre discipline retroattive recentemente scrutinate dalla Corte costituzionale (sentenza n. 264 del 2012), la giurisprudenza costituzionale evidenzia come le disposizioni censurate non sono volte a perseguire interessi di rango costituzionale, che possano giustificarne la retroattività. L’unico interesse è rappresentato da quello economico dello Stato, parte del procedimento concorsuale. Tuttavia, un simile interesse è inidoneo di per sé a legittimare un intervento normativo come quello suddetto, che determina una disparità di trattamento, a scapito dei creditori concorrenti con lo Stato, i quali vedono ingiustamente frustrate le aspettative di riparto del credito che essi avevano legittimamente maturato.

Pertanto, la disciplina di legge retroattiva può palesare la sua illegittimità sia per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., sia per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, in considerazione del pregiudizio arrecato alla tutela dell’affidamento legittimo e della certezza delle situazioni giuridiche, in assenza di motivi imperativi di interesse generale costituzionalmente rilevanti.

Retroattività e struttura del provvedimento

La retroattività incide sull’efficacia dell’atto, non anche sulla sua validità.

Si è soliti distinguere tra atti amministrativi ad efficacia istantanea (es., una sovvenzione, l’espropriazione) ed atti ad efficacia durevole o prolungata (es., un’autorizzazione commerciale)[21]. La distinzione rileva sotto diversi profili, come quelli relativi al realizzarsi di condiciones facti, di estinzione dell’oggetto, o di un termine finale, ecc.

Di qui, la retroattività potrebbe evidenziare qualche influenza anche sulla struttura dell’atto. Di regola, infatti, il provvedimento amministrativo retroattivo possiede tutti gli elementi sostanziali e strutturali di un ordinario provvedimento amministrativo con efficacia ex nunc o comunque produttivo di effetti per il futuro.

Nondimeno, può accadere che la retroattività si manifesti sub specie di elemento accidentale dell’atto[22]. Sicché l’atto retroattivo assume talora la struttura di atto interamente condizionato o sottoposto ad un termine, per lo più iniziale (es., gli effetti decorrono anticipatamente a far data da…). A questo riguardo in dottrina si parla anche di “clausola di retroattività” apposta al provvedimento che statuisce sull’efficacia anticipata dell’atto[23].

L’atto retroattivo, tuttavia, ove sfavorevole al destinatario, può contenere un’ulteriore clausola volta ad escludere la necessità di una comunicazione personale (art. 21bis l. 241/90: la cd fase procedimentale integrativa dell’efficacia del provvedimento amministrativo), ad eccezione dei provvedimenti sanzionatori che devono sempre essere comunicati personalmente. Ma, come affermato, il provvedimento sanzionatorio non ha comunque efficacia retroattiva.

Come si evidenzierà in seguito, non sarebbe legittimo, inoltre, l’atto retroattivo immotivato, con la conseguenza che tale tipo di atto deve sempre riportare, anche in via relazionale, un’apposita ‘motivazione’.

Tutto ciò potrebbe influire sul tipo di rimedi esperibili o sulle modalità di tutela giurisdizionale avverso l’atto.

Il principio della retroattività della condizione costituirebbe la necessaria conseguenza del fatto che i diritti sottoposti a condizione possono circolare ed essere opposti ai terzi. La struttura di atto condizionato potrebbe influire anche a ulteriori fini (ad es., a fini di trascrizione dell’atto nei registri immobiliari, importando una specifica ‘annotazione’).

Occorre comunque osservare che, benché la condizione operi, di norma, retroattivamente (art. 1360, codice civile)[24], nondimeno numerose sono le sue eccezioni tanto da far dubitare, ad alcuni studiosi, che esista un vero principio di retroattività della condizione. A giudizio di chi scrive, l’istituto della retroattività non si rispecchia integralmente nell’istituto della condicio facti. La retroattività, infatti, opera - di regola - rispetto all’intero plesso di effetti che derivano direttamente dal provvedimento. La condicio facti, invece, può operare non solo, come l’atto retroattivo, in presenza di un atto già formato e perfezionato, ma anche in parte già produttivo di effetti immediati (quanto meno l’effetto obbligatorio che impone alle parti l’attesa dell’evento futuro ed incerto, al cui verificarsi si produrranno dati effetti). Inoltre gli effetti retroattivi della condizione sono circoscritti alla condizione di tipo sospensivo e vanno ricondotti, per gli amanti delle categorizzazioni, alla cd retroattività per natura e reale, perché, pur essendo la retroattività configurata per legge, tuttavia essa è volontariamente apponibile e le parti, nell’ambito della propria autonomia negoziale o discrezionalità, potrebbero disciplinare la decorrenza degli effetti in modo diverso. Anche il provvedimento amministrativo potrebbe contenere prescrizioni volte a far retroagire tutti i propri effetti ad un momento precedente la costituzione della fattispecie ovvero contenere solo alcune prescrizioni retroattive. In quest’ultimo caso, non può – a rigore – parlarsi di provvedimento amministrativo retroattivo tout court, in quanto è possibile che la massima o la maggior parte dei suoi effetti si producano immediatamente. Decisiva, pertanto, sarà l’interpretazione del contenuto dispositivo dell’atto, con riguardo al tipo e alla ‘quantità’ e alla ‘qualità’ degli effetti che si vogliono far retroagire. Ciò inciderà, per conseguenza, sulle forme di tutela esperibili, non tutte collegate ad azioni meramente conservative o cautelari, come invece accade in presenza di atto interamente condizionato.

Retroattività e attività negoziale della PA

Come noto, la Pubblica Amministrazione può agire in via amministrativa autoritativa e non autoritativa ovvero utilizzando mezzi e strumenti di diritto privato, in funzione dello scopo perseguito (art. 1, comma1bis, l. n. 241/90, e s.m.i.)[25].

Tale versatilità dell’azione amministrativa impone una verifica, di volta in volta, delle regole di retroattività onde accertare se dovranno applicarsi quelle di tipo pubblicistico ovvero quelle di tipo privatistico.

Il dilemma diviene evidente nelle ipotesi peculiari di cui all’art. 11 e 15, l. 241/90, in materia di accordi ad oggetto pubblico, ossia in presenza di attività amministrativa non autoritativa di tipo convenzionale o negoziale. In particolare, l’art. 11, che ha subito diverse modifiche nel tempo, configura i cd accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento amministrativo[26]; l’art. 15, rubricato ‘accordi fra pubbliche amministrazioni’, configura quelli che la dottrina chiama i cd accordi orizzontali[27], in contrapposto ai precedenti annoverati tra gli ‘accordi verticali’, cioè tra pubblica amministrazione e privati. Ma i dubbi permangono anche in altri settori dell’attività pubblica, come, ad esempio, quella relativa ai rapporti di servizio, ed in specie agli incarichi di tipo onorario.

Trattandosi di contratti di diritto privato, la disciplina civilistica sarà direttamente ed integralmente applicabile; trattandosi di attività convenzionale (accordi ad oggetto pubblico), occorre fare applicazione dei “principi in materia obbligazionaria e contrattuale” e, quindi, occorre verificare, caso per caso, se trovino applicazione, in tutto o in parte, le regole civilistiche o amministrative, a seconda della tesi che si vuol seguire circa la loro natura giuridica. Salva, in ogni caso, la diversa disciplina specifica (es., art. 34, commi 2 e 7, TUEL).

Si pensi, ad es., all’annullamento d’ufficio di una cd concessione-contratto ovvero alla possibilità che la stessa sia oggetto di risoluzione negoziale. Nel primo caso, troverà applicazione la disciplina di cui al capo IV bis della l. n. 241/90, ed in particolare la parte concernente le condizioni di cui all’art. 21nonies. In tale ipotesi, la pubblica amministrazione può unilateralmente decidere di annullare il provvedimento iniziale, ove ne ricorrano le condizioni, travolgendo retroattivamente il rapporto medio tempore instaurato con la controparte e con effetti erga omnes (cd retroattività reale); nel secondo caso, si applicano le regole generali ex art. 1458 Codice Civile, per cui la retroattività è sempre obbligatoria (valevole, cioè, solo tra le parti e non opponibile a terzi, che faranno salvi i propri acquisti).

Diversi più in generale i rimedi esperibili avverso contratti e accordi amministrativi: nel 1° caso, un’impugnativa negoziale (ad es., un’azione di risoluzione volontaria; un’azione di annullamento negoziale ex art. 1445, da combinare con quanto dispone l’art. 2652, n. 6, Codice Civile, per i beni immobili); nel secondo caso, anche una delle azioni di cui all’art. 29ss., cpa in sede giurisdizionale ovvero le forme di tutela di giustizia amministrativa (ad es., un ricorso straordinario al Capo dello Stato), di cui ricorrano condizioni e presupposti.

L’atto privato non è assoggettato alle regole formali dell’atto amministrativo e la sua formazione esula da un contesto procedimentale. Di conseguenza, non è possibile fare esclusiva applicazione, con riguardo all’atto privato, delle regole di imparzialità e buona amministrazione (e dei loro numerosi corollari) in quanto afferenti all’esercizio di un’attività amministrativa, ma, piuttosto, delle regole civilistiche inter partes (es., diligenza ex art. 1175, cc; buona fede ex artt. 1337-8, CC).

Diverse anche le regole di responsabilità civile: se il danno derivante da una disposizione retroattiva ha natura contrattuale, troveranno applicazione le relative regole (in tema di onere della prova; di prevedibilità; di quantificazione; ecc.); se il danno è cagionato da una disposizione amministrativa retroattiva, occorre stabilire la natura della responsabilità in cui incorre la Pubblica Amministrazione per lesione di interessi legittimi, che, come noto, è oggetto di discussione (contrattuale, extracontrattuale, speciale), e poi applicare le relative regole.

In dati casi, peraltro, l’accordo risulta soggetto a regole tipicamente pubblicistiche anche in fase esecutiva, come quelle in tema di controlli, che sono annoverati tra gli atti retroattivi per natura (con tutte le conseguenze che tali atti comportano, in specie, sul piano della tutela, su cui si veda infra). In particolare, lo strumento convenzionale, ove si ponga come fonte di spesa, comporterà anche l’assoggettamento alle regole economico-contabili o finanziario-contabili dei soggetti che vi ricorrono.

Rispetto alla tutela dei terzi, va osservato che, come in diritto civile vige il principio di relatività dei contratti per cui questi non possono né nuocere né giovare ai terzi (argumenta ex artt. 1372 e 1411, Codice Civile), allo stesso modo vige in diritto amministrativo il principio che l’atto amministrativo è res inter alios acta. La regola è in genere addotta per delimitare i casi in cui il provvedimento amministrativo disponga per il futuro (es., un’autorizzazione o una concessione a svolgere una data attività non può limitare o escludere senza ragione le posizioni acquisite da soggetti finitimi o che svolgano la medesima attività), ma tale principio può estendersi anche all’ipotesi in cui gli effetti dell’atto vengano fatti retroagire incidendo sulle situazioni giuridiche di terzi posti nelle medesime condizioni.

Diversa infine la giurisdizione, a seconda del cd petitum sostanziale e della causa petendi, con ripercussioni di vario tipo (es., in tema di termine, prescrizionale o decadenziale, per agire). Bisogna considerare, peraltro, che, secondo le note indicazioni della Corte Costituzionale, ove si agitino solo diritti soggettivi e non vi è alcun tratto di esercizio di potere amministrativo autoritativo, neanche mediato, può esservi solo giurisdizione del giudice ordinario, mentre, negli altri casi, occorre che il giudice adito (e le parti) valuti di volta in volta in sede di giurisdizione amministrazione di legittimità ovvero, in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva, prevista sempre dalla legge.

Incidentalmente si osservi che una disciplina processuale peculiare, invece, è prevista per la differente ipotesi dei contratti ad evidenza pubblica. Per questi sussiste la giurisdizione del Giudice amministrativo solo con riferimento alla formazione del contratto, mentre la fase esecutiva è devoluta alla cognizione del Giudice ordinario, trattandosi di controversia di diritto civile in cui vengono in rilievo diritti soggettivi (rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario in base al tradizionale criterio di riparto); per gli accordi ex art. 11 e 15 della l. n. 241/1990 non esiste invece alcun problema di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, in quanto tutte le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi in esame sono riservate alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo (art. 11, comma 5, della l. n. 241/1990 ed, attualmente, art. 133, comma 1, lett. a), punto 2, del c.p.a.).

In definitiva la disciplina privatistica risulterà compatibile con quella dell’atto amministrativo, venendosi a giustapporre in modo integrativo o complementare (art. 11, l. 241/90) ovvero in quanto compatibile (art. 15, comma 2, l. 241/90). Ne segue che, per fare un esempio, se l’accordo avesse ad oggetto l’accertamento di una res dubia dovrà stabilirsi in via interpretativa se farsi applicazione delle regole in materia di retroattività civilistica o amministrativa.

Tale interpretazione dovrebbe avere riguardo non tanto agli aspetti formali o soggettivi del rapporto, ma nasce altresì il dubbio che, con riferimento alla retroattività, debba farsi riferimento ad altri elementi quale, in particolar modo, l’elemento funzionale (causa) del rapporto in base agli interessi concreti da tutelare. La retroattività, infatti, riguardando gli ‘effetti’ del rapporto, sembra non avere attinenza con gli aspetti causali deliberati a monte che, ove mancanti o claudicanti o viziati, dovrebbero incidere, almeno di regola, sulla validità del rapporto, travolgendolo integralmente.

Perciò, la scelta (discrezionale) di far retroagire gli effetti del rapporto o dell’accordo, se anche fossero collegati alla corretta gestione concreta degli interessi pubblici o privati, potrebbe dipendere da esigenze diverse, ed in particolare da quelle derivanti dall’oggetto del rapporto, da intendersi sotto il profilo delle prestazioni obbligatorie o reali concordate.

Di conseguenza, i vizi o gli errori legati alla scelta di far retroagire gli effetti del rapporto vanno valutati in relazione al tipo e alla entità della prestazione a cui il soggetto debitore sarà tenuto. Se questa incide sfavorevolmente sulla sua sfera giuridica, la lesione sarà quanto meno produttiva di danno.

La ragione di tale impostazione andrebbe ricercata proprio nella recentemente ritenuta non incompatibilità tra potere amministrativo e contratto: l’atto dell’amministrazione, che esprime l’adesione alla procedura negoziata, è un atto soggetto alle regole proprie del regime pubblicistico esercitabile con atti unilaterali; non è unilaterale, invece, la fonte di produzione degli effetti giuridici, che deriva dalla convergenza di due diverse manifestazioni di volontà aventi ognuno le proprie regole di formazione e valutazione[28].

Ciò importa un arretramento delle scelte autoritative (in specie traducentisi in atti retroattivi per disposizione unilaterale) a vantaggio delle scelte convenzionali, che sono mezzo di governo del ‘disordine organizzativo’ in cui versa l’attuale Stato pluriclasse[29] e strumento che possiede in sé la garanzia della sua attuazione, in quanto posto in essere dai soggetti che l’hanno voluto.

Paradossalmente, sembra aprirsi uno spettro di possibilità di gestione degli interessi pubblici grazie allo strumento convenzionale maggiore di quanta se ne avrebbe utilizzando l’atto amministrativo autoritativo ed unilaterale o l’atto privatistico tout court.

Complici di tali possibilità sono la sempre più pressante spinta dell’ordinamento comunitario ad imporre modelli nuovi e, oseremmo dire, una strisciante propensione al passaggio o all’interscambio tra esigenze proprie della civil law o della administrative law, fondate su necessità codicistiche o legalistiche, e quelle della common law, fondate sul ricorso al precedente, alla pratica giurisprudenziale.

Si pensi, in particolare, ai cd atti di accertamento. La disciplina è diversa in diritto civile e in diritto pubblico. In diritto civile, infatti, tali atti, sub specie di negozi bilaterali, sono oggetto di discussione, in quanto non ricavabili dalle funzioni indicate dall’art. 1321 Codice Civile ed in quanto la funzione accertativa si ritiene essere propria solo ed esclusivamente dell’Autorità Giudiziaria[30]. In diritto pubblico, invece, la funzione certativa, volta a creare certezze giuridiche valevoli erga omnes, è senza fallo riconosciuta alla pubblica amministrazione, che può esercitarla in via unilaterale, ed anche ad opera di soggetti privati a cui è stata eccezionalmente demandato l’esercizio di funzioni amministrative.

La dottrina, inoltre, ritiene di poter distinguere, sia in diritto civile che in diritto pubblico, tra gli accertamenti costitutivi e gli accertamenti con effetti dichiarativi: solo questi ultimi hanno efficacia retroattiva. In tal caso, la pubblica amministrazione svolge un accertamento che cade su una situazione pregressa e quindi opera in via retroattiva[31].

Accogliendo tale impostazione potrebbe ammettersi che ciò che la pubblica amministrazione non può fare in via contrattuale privatistica, ove opera su un piede di parità con la controparte, né in via unilaterale, cioè autoritativa se non nei casi tipicamente previsti dalla legge e nei limiti dell’ordinamento, potrebbe invece farlo in via convenzionale. Ammettendo infatti che la funzione di accertamento retroattiva possa esercitarsi anche per accordi pubblicistici, in tal caso essa è attivabile, con maggiore ampiezza di contenuti, previo consenso delle parti, salvi i casi di divieti espressi o di iniquità manifesta.

Ciò che caratterizza gli accordi ad oggetto pubblico, infatti, almeno secondo una data impostazione, è in via generale l’assenza di patrimonialità, cioè la circostanza che le relative prestazioni non sono necessariamente suscettibili di valutazione economica.

Si potrebbe richiamare, ad ulteriore esempio, la possibilità di disciplinare diversamente gli effetti dell’annullamento discrezionale, laddove si aderisca all’orientamento recente che, in un’ottica sostanzialistica e di effettività della tutela, consente all’interprete, non solo giurisdizionale, di effettuare una più efficiente, efficace ed economica gestione degli interessi pubblici e privati (su tali aspetti si veda, in dettaglio, il paragrafo dedicato agli atti di secondo grado).

Aderendo invece alla tesi privatistica in materia di accertamento, prevalente anche in giurisprudenza[32], e ritenendola applicabile agli accordi pubblicistici, in quanto espressiva di un principio in ambito obbligazionario, la convenzione di accertamento sarebbe ammissibile solo ove abbia ad oggetto diritti disponibili e fatti salvi i diritti dei terzi, per i quali il contratto o il negozio si pongono sempre di regola come res inter alios acta. Tale negozio ha, peraltro, un’efficacia dichiarativa, accertando il contenuto di una situazione giuridica precedente. Esso non costituisce fonte autonoma degli effetti giuridici ivi previsti, ma rende definitive ed immutabili situazioni effettuali già in stato di obiettiva incertezza, vincolando le parti ad attribuire al rapporto precedente gli effetti che risultano dall’accertamento e precludendo loro ogni pretesa, ragione od azione di contrasto con esso.

Retroattività discrezionale. Limiti

Come detto, è possibile che lo stesso provvedimento fissi termini retroattivi per determinazione discrezionale. Per parte dottrina, è questa la retroattività in senso proprio, in quanto non proveniente da norme giuridiche, siano esse scritte o non scritte (cd retroattività per disposizione espressa). Tale retroattività incontra tuttavia diversi limiti.

La regola generale è che il provvedimento amministrativo non è retroattivo non solo in base agli argomenti già addotti (art. 11, preleggi), ma anche in base all’art. 2, l. 241/90, che, fissando termini certi di conclusione del procedimento, presuppone logicamente l’irretroattività degli effetti dell’atto amministrativo, salvo che vi sia una norma che la disponga. Tradizionalmente, sono individuati tre limiti naturali[33]: a) le posizioni soggettive dei terzi; b) la preesistenza dei presupposti di fatto e di diritto richiesti per l’emanazione dell’atto fin dalla data a cui si vogliono far risalire gli effetti; c) i fatti già avvenuti in epoca anteriore, che non possono venir meno (factum infectum fieri nequit). Ad esempio, la retroattività non è ammessa per gli atti ablatori che incidono sfavorevolmente nella sfera giuridica del destinatario e comunque la retroattività non può mai ammettersi prima del verificarsi dei presupposti di fatto che condizionano l’efficacia di quell’atto.

La retroattività discrezionale può quindi ammettersi solo per gli atti favorevoli alla sfera del destinatario su cui incidono[34]. La giurisprudenza trae tale argomento per analogia dagli artt. 1399 e 1445 Codice Civile, che tutelano la buona fede del destinatario[35]. La retroattività è legittima, inoltre, in quanto assicuri il soddisfacimento dell’interesse con riguardo alla data della sua costituzione. L’affermazione in tema di retroattività di atti favorevoli va comunque circoscritta. L’atto infatti potrebbe essere favorevole ma nondimeno presentare profili di illegittimità[36].

Un problema peculiare riguarda i limiti di fatto per l’operatività della retroattività di dati atti ove essa si scontri con effetti già prodotti, con situazioni già consolidate. Ad es., si annulla un concorso pubblico con cui sono stati assunti funzionari alle dipendenze di una pubblica amministrazione. I soggetti hanno assunto servizio, hanno prestato attività lavorativa (di cui la pubblica amministrazione si è giovata) e han percepito la retribuzione.

La giurisprudenza amministrativa ha più volte posto in rilievo che la regola di irretroattività dell’ azione amministrativa è espressione dell’esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, oltreché del principio di legalità che, segnatamente in presenza di provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato (quali quelli introduttivi di prestazioni imposte: es., obblighi tariffari), impedisce di incidere unilateralmente e con effetto “ex ante” sulle situazioni soggettive del privato[37]. Alla categoria in parola possono ascriversi i cd rapporti esauriti, quali quelli derivanti da giudicato, da un atto amministrativo non più impugnabile, ovvero da una prescrizione o da una decadenza[38]

Le suddette conclusioni trovano codifica nell’art. 21 bis della legge n. 241/1990, introdotto dall’art. 14 della l. n. 15/2005. In base a tale disciplina, infatti, l’efficacia del provvedimento limitativo inizia a decorrere normalmente ex nunc dal momento della comunicazione personale al destinatario e comunque con la piena conoscenza dell’atto, sia esso favorevole che sfavorevole, come si ricava dal regime del ricorso al Giudice Amministrativo.

Tra i limiti di fatto della retroattività, vanno annoverati anche quelli derivanti dal necessario coordinamento con le previsioni di bilancio.

In tema di erogazione di contributi finanziari correlati alla programmazione di spesa, ad esempio, deve ritenersi che, in mancanza di apposite previsioni normative atte ad estendere retroattivamente la nuova disciplina anche alle domande pregresse, non possa legittimamente operarsi tale estensione, ponendosi, altrimenti, gravi problemi di copertura di bilancio relativi alle pratiche istruite, ma non ancora definitivamente formalizzate[39]. Il problema si rannoda, eventualmente, alla estensione degli effetti (favorevoli) del giudicato di annullamento del provvedimento amministrativo a soggetti che non sono stati parti del giudizio, su cui si veda il paragrafo relativo ai rapporti con gli atti di secondo grado. La relativa condotta pertanto potrebbe rilevare, se illecita, anche ai fini della configurazione di un pregiudizio erariale.

Ma, come già detto, la retroattività del provvedimento amministrativo è disciplinata anche da altri due principi generali.

Il primo si fonda sul brocardo che factum infectum fieri nequit (il fatto non compiuto non può considerarsi come avvenuto: quindi, il fatto che invece è stato compiuto resiste alla sua rimozione, i suoi effetti non sono eliminabili)[40]. Tale regola opera tuttavia non sul piano del diritto, ma sul piano fattuale. Il secondo si fonda su un generale principio di buona fede oggettiva o di affidamento, volto a tutelare i terzi che in buona fede hanno appunto dato esecuzione all’atto successivamente travolto. Il primo principio trova applicazione in tutti quei casi in cui dati fatti rispondono ad un preminente interesse pubblico, tanto che non possono essere rimossi, anche se si sono verificati ‘injure’.

Per es., realizzata ed aperta una strada pubblica, essa diviene vincolata alla sua destinazione non rimuovibile per fatti di diritto comune (art. 828, Codice Civile). Perciò, se è annullato il provvedimento di espropriazione in base a cui è stata realizzata la strada, la strada non può comunque essere rimossa né il proprietario può ottenerne la restituzione.

Nondimeno, è stata prospettata anche una diversa soluzione (A.P., Cons. St., 29/4/2005, n. 2).

In passato, la giurisprudenza amministrativa più risalente (ex multis: Cons St., IV, 17/1/1978 n. 14 e 19/12/1975, n. 1327) conosceva l’istituto dell’espropriazione in sanatoria, rivolta ad assicurare ad opere pubbliche realizzate in virtù di occupazione d’urgenza scaduta o di occupazione abusiva la possibilità di sanatoria, appunto, in forza di un decreto di espropriazione emesso ex post, dotato di efficacia retroattiva. Tale giurisprudenza, idonea per un verso a “regolarizzare” la situazione proprietaria del bene in capo all’amministrazione, palesava peraltro, proprio a causa dei suoi effetti retroattivi, limiti sul versante della tutela del privato, soprattutto sotto il profilo dei rapporti tra risarcimento del danno e indennità di espropriazione. La Corte di cassazione fu, pertanto, indotta a elaborare un istituto volto a contemperare i problemi legati alla perdita della proprietà con il riconoscimento di un’adeguata riparazione sul piano economico del proprietario. Così, con una “inversione” della fattispecie civilistica dell’accessione, intesa come modo di acquisto della proprietà, fu elaborata la figura pretoria dell’occupazione appropriativa (o accessione invertita) (Cass. Civ., Sez. Unite, 26/2/983, n. 1464), che lega tra loro acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione e realizzazione dell’opera pubblica; mentre gli ulteriori successivi sviluppi giurisprudenziali hanno consentito di distinguere da tale ipotesi e assoggettare a diversa disciplina quelle che sono state definite occupazioni usurpative (Cass. Civ.,18/2/2000, n. 1814; Cass. Civ., 28/3/2001, n. 4451), caratterizzate dalla radicale mancanza di un titolo pubblicistico legittimante. L’elaborazione giurisprudenziale in esame, sostanzialmente condivisa anche dalla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, oltre a manifestare non pochi punti di incertezza in diritto (si pensi solo alla tematica del rapporto tra risarcimento e indennizzo e ai problemi inerenti alla prescrizione), presentava e presenta aspetti problematici anche con riferimento alla individuazione del momento in cui l’opera pubblica possa ritenersi realizzata (e conseguentemente ed irreversibilmente acquisito il suolo alla proprietà pubblica). E’ proprio da casi italiani - concernenti due diverse fattispecie, in cui l’apprensione materiale del terreno, legittima ab initio, era divenuta illegittima, nell’un caso per scadenza dei termini nell’altro per annullamento giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità - che trae origine la nota vicenda che ha condotto la Corte europea dei diritti dell’uomo a ritenere il nostro quadro normativo non aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n.1 (sentt. 30 maggio 2000, rich.n.24638/94, Carbonara e Ventura, e 30 maggio 2000, rich. n. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera, resa in relazione alla decisione dell’Adunanza plenaria 7 febbraio 1996 n.1). Nell’ambito del nostro ordinamento le idee affermate dalla Corte dei Diritti dell’Uomo hanno trovato attuazione nella disciplina alla quale si è dato vita con il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (T.U. sulle espropriazioni). A seguito di apposita dichiarazione di incostituzionalità, è stato introdotto, allo scopo di disciplinare la situazione “in assenza di valido ed efficace provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità”, l’art. 42bis nel dpr citato, il quale esclude espressamente l’effetto retroattivo dell’acquisizione. L’articolo 43 del testo unico, nel disciplinare la “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, stabilisce inoltre che “valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di espropriazione o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni”. Ciò, vuol dire, in definitiva, che l’annullamento potrebbe anche comportare un obbligo di restituzione, ove l’amministrazione non abbia scelto di acquisire al proprio patrimonio il bene in base alla detta disciplina.

In definitiva, comunque, ciò che si vuol mettere in evidenza è che, in tale ipotesi, la retroattività dell’atto di annullamento ha un limite insuperabile e necessariamente importa la sua sostituzione con rimedi alternativi a carattere autonomo, quali la restituzione o il risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale[41].

Quanto al principio di buona fede, qui occorre specificare meglio le impostazioni della giurisprudenza tradizionale, che richiama la disciplina degli artt. 1399 e 1445 cc[42]. Esso viene articolato nella versione oggettiva, fondandosi su una clausola generale di correttezza e lealtà nei comportamenti che si specifica nelle obbligazioni e nei contratti (artt. 1175 e 1375 Codice Civile), ma che trova applicazione in via generale a tutti i consociati, in base all’art. 2, Cost.

Da tali regole discende una determinata situazione giuridica soggettiva, detta legittimo affidamento, già nota alle fonti comunitarie e che è stata anche da noi recepita ai sensi dell’art. 1, comma 1bis, l. 241/90, per effetto del richiamo ai principi di diritto comunitario ivi contenuto[43]. Per autorevole opinione, il legittimo affidamento trova più esattamente fondamento nel cd divieto del venire contra factum proprium. Esso infatti opera allorché taluno, la pubblica amministrazione in particolare, abbia agito in modo scorretto, utilizzando, in particolare, un comportamento contraddittorio.

Quindi si potrebbe dire che il legittimo affidamento si fondi sulla altrui scorrettezza/correttezza, a seconda della prospettiva usata.

Inoltre, chi ha dato esecuzione ad un provvedimento amministrativo ha agito nella presunzione della legittimità dell’atto, con la conseguenza che non gli si può opporre l’annullamento dell’atto al fine di rimuovere effetti già prodottosi nella sua sfera giuridica, soprattutto se favorevoli. Così, il funzionario assunto con concorso poi annullato non deve restituire le somme percepite e la pubblica amministrazione non avrebbe azione di ripetizione contro costui, applicandosi la disciplina di cui all’art. 2126, Codice Civile (Cons St., 27/3/2009, n. 1834, in www.giustizia-amministrativa.it). Per quanto concerne gli atti compiuti dal funzionario che ha perduto la propria legittimazione, essi sono validi ed efficaci, in base alla teorica del funzionario di fatto volta alla conservazione degli atti compiuti. Ciò costituisce un’ulteriore limite alla retroattività dell’atto.

Alle suddette osservazioni occorre aggiungere anche qualche riflessione ulteriore circa gli aspetti procedimentali e formali del provvedimento discrezionale retroattivo[44].

Gli effetti della R., infatti, possono riflettersi anche nella forma dell’atto ovvero nella sua motivazione ovvero ancora nel procedimento amministrativo in cui l’atto è formato.

Quanto alla forma, risulta necessaria la forma scritta o equiparata, dal momento che l’atto amministrativo potrebbe incidere sulla sfera giuridica altrui. Particolare risalto dovranno avere gli oneri motivazionali, che subiranno un rafforzamento[45]. Anche sul piano procedimentale sarà necessaria un’adeguata istruttoria, nei limiti del divieto di aggravamento, e alcuni oneri peculiari, come quelli relativi alla comunicazione di avvio del procedimento.

La differenza può cogliersi in confronto, in particolare, con l’attività privatistica della pubblica amministrazione, laddove sia stipulato un contratto ad effetti retroattivi: in tal caso non rileva l’onere motivazionale né quello procedimentale, rilevando invece l’autonomia negoziale delle parti. Ma la differenza potrebbe cogliersi anche rispetto ai cd contratti ad oggetto pubblico (di cui supra). Qui come visto si discute se siamo in presenza di ipotesi contrattuali o di rapporti convenzionali a cui si applicano esclusivamente i principi in materia obbligazionaria e contrattuale. In tali casi, si pone il diverso dubbio di come inquadrare giuridicamente le ragioni che stanno alla base della volontà di far retroagire gli effetti del rapporto giuridico. In particolare, bisogna chiedersi se, anziché di motivazione, possa parlarsi di ‘motivi’ rilevanti (tradizionalmente, invece, ritenuti irrilevanti) ovvero dare rilievo ad un dato atteggiamento in concreto della causa negoziale.

A questo riguardo sembra opportuno evidenziare l’esistenza di un particolare limite alla retroattività, se non altro perché ne parla autorevole dottrina[46]. Secondo tale dottrina, si ammettono due sole eccezioni alla regola della irretroattività: quando vi è il consenso degli interessati e quando il provvedimento produce situazioni di vantaggio senza ledere gli interessi dei terzi. Sulla seconda si è già detto. Sulla prima, occorre invece spendere qualche riflessione in quanto, secondo la detta dottrina, essa non richiederebbe illustrazione. In realtà, il consenso degli interessati incontra a sua volta vari limiti, non essendo riscontrabile, di norma, né nella retroattività per legge né in quella per natura. Il consenso inoltre non può riguardare i diritti o gli interessi indisponibili né trovare applicazione, per incompatibilità naturale, in dati ambiti dell’attività amministrativa (ad es., nelle ipotesi degli atti ablatori personali, stante la natura iussiva dell’atto). Va poi sottolineato che il termine consenso può avere, per quanto ci riguarda, due principali significati impiegabili. Il primo è consenso inteso come autorizzazione (si pensi, ad esempio, al cd consenso informato); il secondo è il consensus in senso negoziale. Perciò, potrebbe trovare applicazione sia nei casi di provvedimenti amministrativi dal contenuto dispositivo discrezionale (specie nel primo significato); sia nell’attività convenzionale o negoziale della pubblica amministrazione.

Retroattività dei tetti di spesa sanitaria

Vediamo ora un’applicazione particolare della materia in esame. Un argomento di rilievo riguarda la retroattività in materia di programmazione sanitaria ad opera delle Regioni. L’ipotesi va ricondotta alla cd retroattività per disposizione espressa o discrezionale. Ci si chiede se siano legittime le determinazioni dell’Ente Regione che, emanate spesso in corso d’anno, stabiliscano i tetti massimi di spesa applicabili, in via retroattiva, anche alle prestazioni già rese dalle strutture private accreditate (art. 8, comma 7, dlgs 30/12/1992, n. 502).

Le Regioni, nell'esercitare tale potestà programmatoria, godono di ampio potere discrezionale, onde bilanciare interessi diversi: l’interesse pubblico al contenimento della spesa, il diritto degli assistiti alla fruizione di prestazioni sanitarie adeguate e quindi la tutela del loro diritto alla salute (art. 32 Cost.), le legittime aspettative degli operatori privati che ispirano le loro condotte ad una logica imprenditoriale e l’assicurazione dell'efficienza delle strutture pubbliche, che costituiscono un pilastro del nostro sistema sanitario di tipo universalistico e non più mutualistico, come era in passato.

Il principio della necessaria programmazione sanitaria è attuato con l'adozione di un piano annuale preventivo, finalizzato ad un controllo tendenziale sul volume complessivo della domanda quantitativa delle prestazioni mediante la fissazione dei livelli uniformi di assistenza sanitaria e l’elaborazione di protocolli diagnostici e terapeutici, ai quali i medici di base sono tenuti ad attenersi, nella prescrizione delle prestazioni. Tale piano preventivo, previsto inizialmente per le sole aziende ospedaliere (articolo 6, comma 5, l. 23/12/94, n. 724), è stato esteso dall'articolo 2, comma 8, della l. finanziaria 28/12/95, n. 549 a tutti i soggetti, pubblici e privati, accreditati.

Il principio della pianificazione preventiva è stato poi confermato, con significative modifiche, dall'art. 1, comma 32, della l. finanziaria 23/12/1996, n. 662. Peraltro, il modello di programmazione sanitaria vigente è bifasico. In una prima fase, la pubblica amministrazione esercita la potestà programmatoria mediante un atto obbligatorio, a carattere generale ed autoritativo; in una seconda fase, segue una negoziazione su base territoriale (art. 8bis, e 8quinquies, dlgs n. 502/92 cit.).

Come detto, il problema importa in primo luogo la necessità di coniugare il diritto alla salute degli individui e la prescritta programmazione economica del settore. In giurisprudenza costituzionale, si afferma che il diritto alle prestazioni sanitarie si presenta finanziariamente condizionato perché: il costo delle prestazioni è posto a carico dell’erario pubblico e sono limitate le risorse per far fronte alla domanda di cure da parte degli assistiti dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN)[47]. L’autonomia dei vari soggetti operanti nel SSN deve necessariamente tener conto delle risorse esistenti e delle esigenze di risanamento del debito pubblico[48], prestabilendo i volumi massimi di prestazioni erogabili[49]. Nondimeno il diritto alla salute può essere condizionato purché non se ne scalfisca il nucleo essenziale[50]. A causa dei sempre maggiori vincoli di spesa, il carattere autoritativo della programmazione sanitaria si è progressivamente inasprito, giustificando la determinazione tardiva e perciò retroattiva del budget di spesa. Ciò importa l’ulteriore problematica della tutela dei diritti relativi di credito delle imprese accreditate a titolo provvisorio.

Per un primo indirizzo giurisprudenziale[51], la fissazione tardiva e retroattiva dei tetti di spesa è illegittima, perché impedisce agli operatori del SSN di programmare la propria attività. La retroattività che modifichi in pejus la disciplina dell’anno precedente finisce per ledere l’autonomia e l’integrità delle scelte d’impresa, ed in definitiva il loro legittimo affidamento. Ne risulterebbe alterato l’intera sistema concorrenziale in tema di sanità. In definitiva sarebbe illegittimo l’atto retroattivo che riduca i limiti di rimborso annuali a molta distanza dalla entrata in vigore della disciplina di riferimento.

Per altro indirizzo prevalente[52], la fissazione tardiva e retroattiva di limiti di spesa e quindi al rimborso non è illegittima, anche se effettuata in fase avanzata dell’anno, perché non impedisce agli interessati di disporre comunque di una disciplina regolatrice della loro attività. Le strutture private, che erogano prestazioni per il SSN nell’esercizio di una libera scelta, potranno aver riguardo - finché non sia adottato un provvedimento definitivo dei tetti – all’entità delle somme contemplate per le prestazioni dei professionisti o delle strutture sanitarie dell’anno precedente, diminuite della riduzione della spesa sanitaria effettuata dalle norme finanziarie relative all’anno in corso.

La tutela dell’affidamento degli operatori privati richiede che le decurtazioni imposte al tetto dell’anno precedente, ove retroattive, siano contenute, salvo congrua istruttoria e adeguata esplicitazione all’esito di una valutazione comparativa, nei limiti imposti dai tagli stabiliti dalle disp.ni finanziarie conoscibili dalle strutture private all’inizio e nel corso dell’anno.

Più in generale, la fissazione di tetti retroagenti impone l’osservanza di un percorso istruttorio, ispirato al principio della partecipazione, che assicuri l’equilibrato contemperamento degli interessi in rilievo, ed esige una motivazione tanto più approfondita quanto maggiore è il distacco dalla prevista percentuale di tagli[53].

Retroattività e atti conseguenziali

Altro problema riguarda l’operatività dell’efficacia retroattiva rispetto agli atti conseguenziali di quello successivamente travolto[54].

E’ annullato il concorso pubblico per entrare alle dipendenze di una pubblica amministrazione, ma nel frattempo sono emessi altri atti (es., graduatoria di nomina dei vincitori) perfetti ed efficaci. Ci si chiede se decadano automaticamente o se invece vadano impugnati o se ricorra un’altra soluzione. O ancora: è annullato il piano urbanistico, ma nel frattempo sono emanati i piani attuativi e, in base a questi, le concessioni e le autorizzazioni edilizie.

Si tratta di questioni alquanto discusse che rilevano anche in sede di invalidità degli atti. In giurisprudenza, si ritiene che l’annullamento dell’atto presupposto comporti la caducazione degli atti conseguenziali[55]. Questo accade in particolare se l’atto conseguenziale non è autonomo ed è di mera esecuzione: esso viene certamente travolto[56]; o se l’atto annullato non solo è un presupposto di validità dell’atto successivo, ma di esistenza.

Laddove invece tale effetto non può prodursi data la minore intensità del nesso ovvero quando fra l’atto presupposto e conseguenziale si frapponga un terzo atto che sia frutto di scelta discrezionale della pubblica amministrazione[57], l’annullamento di tali atti può avvenire solo d’ufficio[58] ovvero richiedere un’autonoma impugnativa giurisdizionale da parte del soggetto che assume di essere leso. In tali ipotesi si tende a preferire la soluzione di una doppia impugnativa (dell’atto presupposto e conseguenziale), pena l’acquiescenza circa l’atto viziante presupposto e la conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso contro l’atto conseguenziale.

In tali casi, si suole quindi escludere un effetto retroattivo reale ricorrendo un caso di retroattività obbligatoria, che in genere si traduce in un obbligo di risarcimento a carico del beneficiario della situazione costituitasi medio tempore e che il fatto o atto ulteriore non riesce a cancellare integralmente. Si pensi all’annullamento dell’aggiudicazione a cui il giudice amministrativo non fa seguire anche la dichiarazione di inefficacia del contratto nel frattempo stipulato: il ricorrente vincitore nel giudizio non può sostituirsi all’originario aggiudicatario come contraente ma può soddisfarsi solo attraverso il risarcimento del danno subito e provato[59] (art. 124, dlgs n. 104/10 e s.m.i.).

Un’ulteriore manifestazione tipica di retroattività obbligatoria si ha quando l’effetto retroattivo è subordinato ad una serie di adempimenti procedimentali complessi (annullamento di atti già efficaci; adozioni di atti volti a sistemare situazioni rimosse; atti di impegno di spesa, ecc.). Tali adempimenti possono essere affidati, ove ne ricorrano le condizioni, ad un commissario ad acta.

Retroattività e atti di controllo

Tra gli atti retroattivi per natura meritano attenzione particolare gli atti di controllo amministrativo. Secondo l’impostazione tradizionale[60], gli atti di controllo rientrano nella categoria residuale e strumentale (cd accessività degli atti di controllo) degli atti che non sono provvedimenti amministrativi, con la conseguenza di non essere, di norma, dotati di esecutorietà, di autoritarietà e, talora, di tipicità e nominatività. Tali atti infatti, essendo per lo più dichiarativi, non incidono direttamente sulla sfera giuridica altrui: quindi, o hanno natura giuridica vincolata o, non rilevando lo scopo della loro emanazione, sono meri atti giuridici. L’affermazione, tuttavia, va presa cum grano salis, stante l’ampiezza delle ipotesi riconducibili alle procedure di controllo.

Il termine controllo nelle discipline giuspubblicistiche significa verifica, raffronto tra un dato oggetto (in genere un atto o un’attività) ed un dato parametro o classe di parametri al fine di accertare la conformità del primo ai secondi e di adottare eventualmente misure in relazione all’esito del controllo[61].

La verifica può essere di legittimità o di merito e può cadere su atti o attività o su soggetti o organi. I controlli possono essere ordinari o straordinari nonché interni od esterni[62] rispetto all’amministrazione.

Si discute sulla natura dell’atto degli atti di controllo amministrativi, prevalendo la tesi che siano una manifestazione di giudizio e di volontà ad un tempo. Agli atti di controllo corrisponde dunque una funzione di controllo della PA, stabilita per la necessità di vigilare che gli organi preposti alla cura dell’interesse pubblico realizzino l’interesse stesso in modo corretto, imparziale, efficiente ed efficace. Tale funzione è tradizionalmente distinta da quelle di amministrazione attiva e consultiva, secondo l’opinione di autorevole dottrina, ora peraltro non più attuale, ma comunque utile per illustrare la problematica, al pari di tutte le classificazioni dottrinali o giurisprudenziali.

L’atto di controllo può distinguersi, tra l’altro, a seconda del momento in cui il controllo interviene rispetto all’acquisto dell’efficacia da parte dell’atto controllato. A tal fine i controlli sono preventivi se intervengono su un atto già formato (perfetto) ma prima che produca i suoi effetti, condizionandone l’efficacia. E possono essere di legittimità (es., visto) o di merito (es., approvazione) o di entrambi i tipi (es., autorizzazione; omologazione). Essi, secondo l’opinione prevalente, hanno efficacia retroattiva.

I controlli possono essere anche successivi se intervengono dopo che l’atto è divenuto efficace: es., l’annullamento dovuto in sede di controllo (da non confondere con l’annullamento in sede di autotutela, che ha natura discrezionale). Anche tali controlli, per l’opinione prevalente, hanno efficacia retroattiva.

Infine possono essere sostitutivi, quando l’autorità dotata del potere gerarchicamente superiore accerta l’inerzia dell’autorità inferiore e si sostituisce, anche attraverso un commissario ad acta, ad essa nell’emanazione del relativo provvedimento. In tali casi l’Autorità controllante emana l’atto che l’altra non ha emanato. Qui il controllo cade su un’attività mai svolta in passato, ma non ricorre sempre e necessariamente la retroattività dell’atto emanato in sostituzione.

Esiste peraltro un’ulteriore possibilità, a cui non necessariamente corrisponde un’ulteriore categoria di atti di controllo: si tratta dei controlli contestuali o, mutuando l’espressione usata dal legislatore a proposito di dati controlli esterni, rimessi alla Corte dei Conti, concomitanti. Tali controlli possono svolgersi in contemporanea all’attività in corso di svolgimento, ma non necessariamente (es., le ispezioni amministrative). In tal caso potrebbe dubitarsi della retroattività dell’atto di controllo.

Va anche messo in evidenza che l’atto di controllo retroattivo non deve confondersi col provvedimento che, all’esito dello stesso, può essere adottato (ad es., una sanzione amministrativa). Si tratta infatti di poteri fondati su un diverso plesso di norme attributive e, dunque, aventi uno scopo affatto differente. In genere, tale differenza si manifesta con diverse procedure o, in dati casi, procedimenti amministrativi che, per quanto possibilmente connessi o coordinati e vicini nel tempo, seguono regole e discipline diverse e, soprattutto, si traducono in provvedimenti finali di diverso contenuto.

Si parla tuttavia di controlli sostitutivi o repressivi con riguardo alle corrispondenti attività (es. scioglimento del consiglio comunale e provinciale ex art. 141 Tuel), in cui si evidenzia non la necessità di far retroagire nel tempo gli effetti del provvedimento che si pone in essere ma la determinazione ex nunc di sanzionare determinati atti o comportamenti contrari alla legge, anche a mezzo della nomina di date figure commissariali.

In dettaglio, inoltre, i primi due tipi di controllo (preventivo e successivo) possono essere ad esito positivo o negativo. Autorevole dottrina[63] evidenzia che solo gli atti di controllo positivo sono di regola retroattivi (per natura).

Secondo chi scrive, occorre effettuare alcune precisazioni.

Il controllo preventivo ad esito positivo comporta che l’atto controllato divenga efficace ex tunc, cioè dal momento della sua emanazione. In questo caso pertanto la retroattività riguarda più esattamente l’atto oggetto di controllo, mentre l’atto di controllo è un atto ordinario con efficacia ex nunc. Aderendo all’impostazione preferibile che l’atto di controllo è manifestazione di giudizio e di volontà, si può affermare infatti che l’atto di controllo (es., il visto o l’approvazione) voglia, disponga (ora) che l’atto verificato (mai efficace) produca dalla sua emanazione (allora) effetti giuridici. Detto altrimenti, l’atto di controllo non produce esso stesso gli effetti giuridici dalla data di emanazione dell’atto controllato (tali effetti peraltro possono essere affatto diversi, riguardando atti con strutture e attività procedimentali completamente diversi), in quanto esso svolge la funzione di rimuovere un ostacolo attuale o di far divenire certo l’evento che questo atto produca i suoi effetti, verificando che l’atto che ne è oggetto risponda ai parametri di legittimità o di merito esistenti al momento del controllo. Si tratterebbe, quindi, per riprendere la terminologia già vista in tema di leggi interpretative retroattive, di un caso di retroattività apparente[64] dell’atto di controllo, ma effettiva per l’atto controllato.

Se inoltre il controllo è preventivo e dà un esito negativo (cioè ritiene che l’atto controllato non rispecchi i parametri di legittimità e/o di merito), l’atto controllato (già perfetto ma mai divenuto efficace) non acquisterà mai efficacia. Né tanto meno potrà parlarsi di retroattività dell’atto di controllo, che non fa retroagire nel tempo i suoi effetti, ma dispone ex nunc che l’atto sottoposto al controllo non diverrà mai in futuro efficace, poiché, al momento della verifica, i parametri di legittimità o di merito non erano conformi. Anche in questo caso, pertanto, occorre parlare di “retrospettività”[65].

Si aggiunga inoltre che anche l’atto di controllo segue un proprio iter amministrativo, che può avere una sua durata. Nondimeno, durante la fase istruttoria, in cui è sottoposto a verifica l’atto controllato, non può parlarsi di retroattività, poiché siamo in presenza di attività endoprocedimentali (che sovente non danno vita neanche ad atti autonomi).

Nel caso di controllo successivo, invece, di retroattività può parlarsi, semmai, solo con riguardo al controllo ad esito negativo[66].

In tal caso, infatti, all’atto già perfetto ed efficace è disconosciuta l’idoneità a produrre i suoi effetti a far data dalla sua emanazione. In definitiva, in caso di controllo successivo, se l’esito è positivo, l’atto controllato continua a produrre i suoi effetti già manifestati sin dal momento della sua emanazione, senza che occorra riconoscere efficacia retroattiva all’atto di controllo[67]; se l’esito è negativo, l’atto controllato non produce più i suoi effetti con retroazione dal momento della sua emanazione.

Va anche affermato che le suddette riflessioni appaiono calibrate più che altro sul controllo che cade sugli atti di tipo amministrativo. Ma il controllo può essere esercitato anche su atti, attività o soggetti aventi natura privatistica.

A voler mantenere l’impostazione tradizionale, il controllo che cade su atti o attività pregresse conserva natura retroattiva.

Sappiamo però che la pubblica amministrazione opera anche mediante atti negoziali o convenzionali. In tal caso, l’attività di controllo potrebbe avere essa stessa natura negoziale, oggetto di consenso di entrambe le parti e di specifica previsione contrattuale. In tale evenienza, non solo non si pone un problema di applicabilità delle norme di tipo pubblicistico, ma non si pone neanche un problema di retroattività in senso amministrativo, in quanto, salvo specifiche norme di legge (es., in tema di approvazione dei contratti ad evidenza pubblica ex art. 19, r.d. 18/11/1923, n. 2440), siamo nell’ambito dell’attività contrattuale o negoziale della pubblica amministrazione. Ne segue che la disciplina della retroattività dovrà essere sottoposta ai limiti e alle condizioni già illustrate per le attività privatistiche: in particolare avrà carattere meramente obbligatorio, dovrà essere espressamente prevista dalle parti e avere ad oggetto diritti disponibili. Il dubbio della concreta applicabilità delle regole pubblicistiche in tema di controlli, semmai, riguarderà l’attività relativa agli accordi di diritto pubblico, che, stante la loro ritenuta natura pubblicistica, non sono esclusi, ai sensi degli artt. 11, comma 3, e 15, comma 2, l. 241/90, dall’attività di controllo propria delle pubbliche amministrazioni.

Può poi accadere che la pubblica amministrazione effettui un’attività di controllo su atti o attività meramente privatistici a carattere né negoziale né convenzionale, svolte da soggetti privati. In tal caso, non vi è incompatibilità col potere pubblicistico di controllo (come segnala anche la sovente correlata previsione di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), ma l’esercizio dello stesso non si traduce, di regola, nella retroazione di effetti giuridici dell’atto amministrativo di controllo né nella cancellazione ex tunc degli effetti già prodotti dall’attività del privato, quanto nell’accertamento delle condizioni che legittimano la pubblica amministrazione ad esercitare, in caso di riscontrate violazioni, la potestà di vietare o sanzionare con efficacia ex nunc l’attività svolta o in corso di svolgimento, in quanto illegittima o illecita.

Si pensi, per fare un esempio, alla materia di cui all’art. 19, l. 241/90. Qui il controllo che la pubblica amministrazione può esercitare è un tipo di controllo ‘inibitorio’ o di repressione dell’abuso[68]. Altro è invece l’esercizio del potere di autotutela, che non consiste in un’attività di controllo e che è esercitabile come potere generale spettante alla pubblica amministrazione, al di fuori delle ipotesi di controllo. In altri termini, se l’attività del privato è verificata come illegittima, essa lo di per sé è ab origine, sicché il controllo successivo o contestuale ad esito negativo ha effetti dichiarativi della detta illegittimità, ma costitutivi ex nunc con riguardo al provvedimento inibitorio e/o di repressione. Al riguardo, inoltre, occorre affermare che la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato in adunanza plenaria[69] ha escluso l’ipotesi della retroattività con riguardo all’istituto di cui all’art. 19 cit.

Problema ulteriore riguarda il sindacato sugli atti di controllo, anche a tutela dei terzi. Gli atti di controllo sono a loro volta sottoposti al vaglio di appositi organi. La tesi tradizionale[70] fissa alcuni principi. In primo luogo, il potere di controllo, una volta esercitato nel dato caso, si estingue: non è possibile un ripensamento dell’organo controllante. Un autoannullamento o un’autorevoca sarebbero inammissibili. In secondo luogo, l’atto di controllo ad esito positivo, poiché di natura endoprocedimentale, non è impugnabile autonomamente: può solo proporsi ricorso avverso l’atto controllato in quanto i vizi dell’atto di controllo si trasformano in vizi dell’atto controllato. Gli atti di controllo ad esito negativo sono invece autonomamente impugnabili, perché, impedendo all’atto di amministrazione attiva di acquistare efficacia, sono idonei a creare una lesione nella sfera giuridica altrui. Legittimati a proporre l’impugnativa sono l’ente che ha emanato l’atto soggetto a controllo e i terzi interessati. L’organo di amministrazione attiva può proporre ricorso contro l’atto di controllo negativo (diniego) solo in caso di controllo intersoggettivo, non essendo, di regola, ammissibile alcun ricorso giurisdizionale in caso di controllo interorganico. Sono salvi i diversi rimedi eventualmente previsti (es., ricorso gerarchico amministrativo).

Sugli atti di controllo negativo (cd dinieghi), tuttavia, occorre spendere qualche riflessione in più. Il problema attiene alla decisione di rinnovo a seguito dell’annullamento dell’atto di controllo ad esito negativo e al suo inquadramento nell’ipotesi dell’atto amministrativo retroattivo.

Sul punto, l’orientamento tradizionale[71] stabilisce che l’annullamento (in sede giurisdizionale) di una decisione negativa di controllo comporta che l’organo di controllo debba ripronunciarsi in ordine alla legittimità dell’atto controllato (salvo il caso in cui il giudice amministrativo abbia annullato la decisione di controllo per il superamento del termine perentorio previsto dalla legge). Ciò si evince dal principio per il quale l’ordinamento, mediante una fictio iuris, attribuisce valore di dichiarazione tacita di controllo positivo solo quando il potere di controllo non e` esercitato entro il termine perentorio previsto dalla legge. La legge (in ossequio ad un principio risalente fin da quando le leggi di unificazione del 1865 disciplinarono i casi in cui il prefetto esercitava il controllo sulle deliberazioni comunali) ha equiparato all’atto espresso di controllo positivo (avente la natura di requisito di efficacia dell’atto controllato) solo il mancato esercizio del potere di controllo, entro il termine da essa fissato.

Tale equiparazione, in base ad una fictio iuris, determina un effetto sostanziale, e cioé il conseguimento dell’efficacia della delibera sottoposta al controllo. In tale ipotesi: a) l’inutile decorso dello spatium deliberandi dell’organo di controllo e il superamento del prescritto termine comportano che ipso iure, e sulla base di espresse norme di legge, diventa efficace la delibera soggetta al controllo; b) la tardiva decisione negativa di controllo determina l’annullamento di un atto che già era divenuto efficace; c) quando il giudice amministrativo annulla la tardiva decisione negativa di controllo (in accoglimento del ricorso proposto dall’ente controllato o dal soggetto beneficiario dell’atto annullato), si verifica la reviviscenza dell’atto tardivamente annullato in sede di controllo e si ripristina quindi la sua efficacia (già conseguita prima dell’illegittima adozione della decisione negativa di controllo, divenuta tamquam non esset a seguito del suo annullamento in sede giurisdizionale).

In tal caso, dopo il giudicato di annullamento dell’atto di controllo, l’organo di controllo non può emanare in ordine all’originario atto controllato alcun provvedimento ulteriore, poiché il relativo potere si è « originariamente consumato » a causa del suo mancato esercizio, accertato dal giudice, entro il termine sancito dalla legge.

Ben diversa è l’ipotesi in cui il giudice amministrativo abbia annullato una decisione negativa di controllo per una ragione che non sia quella della tardività dell’atto di controllo.

Bisogna infatti tener conto delle peculiarità del caso, tenendo conto: dei princıpi sostanziali che regolano l’esercizio del controllo e dei princıpi processuali riguardanti la portata delle decisioni del giudice amministrativo.

Sotto il profilo sostanziale, si deve ritenere che: l’illegittimo ma tempestivo atto negativo di controllo (che annulla l’atto controllato) esclude sotto il profilo sostanziale l’applicabilità delle norme di legge che dispongono il conseguimento dell’efficacia dell’atto controllato per l’inutile decorso del termine; prima della proposizione del giudizio amministrativo avverso la tempestiva decisione di controllo, mai e` divenuto efficace l’atto controllato; l’annullamento della decisione negativa di controllo determina la reviviscenza dell’atto controllato ma non può far « ridiventare » efficace l’atto controllato, proprio perché in precedenza questo non lo è mai stato.

In altri termini non possono essere equiparati tra loro, sotto il profilo sostanziale, due fenomeni del tutto distinti, e cioè l’inutile decorso del termine entro cui va esercitato il controllo (preso in espressa considerazione dalla legge mediante una fictio iuris) e l’annullamento in sede giurisdizionale di un tempestivo atto negativo di controllo. Nel prevedere l’acquisto dell’esecutività dell’atto controllato nel caso di inerzia dell’organo di controllo, la legge ha tenuto conto dell’autonomia dell’ente controllato e dell’esigenza di celerità che deve caratterizzare la fase del controllo.

Quando invece entro il prescritto termine è emanata la decisione negativa di controllo, viene meno ogni ragione di applicare la disciplina che in base ad una fictio iuris ha assimilato al controllo positivo l’inutile decorso del termine. Anche il potere di controllo (che, quando attiene alla legittimità dell’atto controllato, mira a riaffermare il principio di legalità , che rientra tra quelli posti a fondamento dello Stato) ha un supporto costituzionale[72]. Ciò comporta che l’organo di controllo non può più esercitare i suoi poteri istituzionali nei soli casi previsti dalla legge e nei limiti sanciti da questa.

Non può equipararsi all’ipotesi dell’inutile decorso del termine (entro cui va emanato l’atto di controllo) quella ben diversa in cui l’atto di controllo e` stato emanato tempestivamente, ma per vizi propri è stato annullato dal giudice amministrativo.

Sotto tale aspetto, basta aggiungere che le norme che prevedono casi di silenzio assenso (o comunque di silenzio significativo) vanno ad incidere sul generale principio per cui i poteri sono esercitabili tramite (espressi) provvedimenti amministrativi: esse, dunque, hanno carattere eccezionale e non sono suscettibili di applicazione analogica.

Sotto il profilo processuale, la titolarità dei poteri dell’organo di controllo (pur dopo che il giudice amministrativo abbia annullato l’illegittima ma tempestiva decisione negativa di controllo) deriva dall’esame dei princıpi che riguardano la portata (retroattiva) delle decisioni di annullamento del giudice amministrativo.

In primo luogo va osservato che nessuna norma ha previsto che la decisione del giudice amministrativo, di annullamento della decisione negativa di controllo, precluda all’autorità di controllo di esercitare nuovamente i propri poteri a seguito dell’annullamento del suo atto.

Del resto, se una norma di tale portata fosse presente nell’ordinamento, si dovrebbe dubitare della sua conformità ai princıpi costituzionali.

Il principio del buon andamento dell’Amministrazione (art. 97 Cost.) e quello di legalità (espresso anche dall’art. 101, Cost.) non consentono che un atto sottoposto al controllo e già annullato possa divenire efficace, sol perché la decisione negativa di controllo sia a sua volta ritenuta illegittima dal giudice amministrativo.

In secondo luogo, il potere dell’organo di controllo di ripronunciarsi sulla legittimità dell’atto già illegittimamente annullato discende dai princıpi generali che riguardano gli effetti (retroattivi) delle pronunce del giudice amministrativo di annullamento di un atto amministrativo.

In passato, il Consiglio di Stato ha osservato che la portata generalissima dell’art. 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (riproduttivo dell’art. 45 del t.u. 26 giugno 1924, n. 1054, a sua volta formulato sulla base dell’art. 38 del t.u. 2 giugno 1889, n. 6166) attribuiva all’Amministrazione soccombente nel giudizio amministrativo il potere di emanare i «provvedimenti ulteriori», senza distinguere se il giudice abbia annullato un atto di amministrazione attiva ovvero di controllo. L’abrogata disciplina non è peraltro ripetuta espressamente nel nuovo cpa (cfr art. 34), ma la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha sempre ammesso che un provvedimento da emanare entro un certo termine perentorio possa essere riemanato, se l’atto tempestivo sia stato annullato dal giudice amministrativo.

Risulta infatti dai princıpi generali che anche gli atti che devono essere emanati entro un termine perentorio possano essere riadottati, qualora siano stati annullati a seguito dell’« accoglimento di un ricorso giurisdizionale o straordinario e la decisione non escluda la facoltà dell’Amministrazione di rinnovare in tutto o in parte il procedimento » (v. art. 119, primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, concernente il rapporto tra il procedimento disciplinare e il giudicato amministrativo).

Questa norma e` una sicura espressione di princıpi generali concernenti l’annullamento di atti da emanare entro termini perentori. Essa ha infatti riaffermato una regola ab antiquo enunciata dal Consiglio di Stato, per la quale già in base all’art. 38 del t.u. 2 giugno 1889, n. 6166, e all’art. 45 del t.u. 26 giugno 1924, n. 1054 (e prima ancora dell’entrata in vigore del citato art. 119 del d.P.R. n. 3 del 1957 e dell’art. 26 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034) andava considerato sussistente il potere di riemanare un provvedimento, nella fattispecie, un provvedimento disciplinare, dopo che il precedente atto (pur se adottabile entro un certo termine perentorio) era stato annullato in sede giurisdizionale per vizi inerenti al procedimento (v. Cons St., IV, 31/12/1906, ric. Priolo).

Tale principio si e` consolidato nella giurisprudenza amministrativa, per la quale: il potere di emanare i provvedimenti ulteriori sussiste anche se una tale riserva non sia espressamente stata enunciata nella decisione, giacche´ tale potere e` attribuito direttamente dall’ordinamento all’Amministrazione soccombente (Cons St., VI, 16/11/1955, n. 819); a seguito del giudicato di annullamento, possono essere riadottati provvedimenti disciplinari sia nei confronti di dipendenti civili (Cons St., IV, 1/12/1936, n. 506; Ad. gen., 27/8/1940, n. 314) che nei confronti di quelli militari (Cons St., IV, 7/12/1937, n. 502; Id., IV, 25/3/1936, n. 130; Id., IV, 13/9/1929, n. 504; Id., IV, 12/4/1929, n. 201).

Il principio della possibilità di riesercitare un potere pubblico, anche nel caso in cui il giudice amministrativo abbia annullato l’atto illegittimo emanato entro il prescritto termine perentorio, trova ulteriore conferma nell’esame della giurisprudenza concernente l’annullamento dei dinieghi di concessione edilizia.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato non ha mai dubitato (né risulta che sia stata ipotizzata in giurisprudenza o in dottrina la soluzione contraria) che, quando in sede giurisdizionale e` stato annullato un diniego di concessione edilizia (oggi ‘permesso di costruire’ o titolo edilizio), l’originaria istanza debba essere riesaminata dal Sindaco (che deve tener conto delle statuizioni derivanti dal giudicato), anche quando nel corso del giudizio di legittimità sia stato accertato che non vi erano ragioni impeditive del rilascio della concessione.

E` evidente che il silenzio serbato dal Sindaco su una istanza di concessione edilizia/permesso ne comporta l’accoglimento nei soli casi previsti dalla legge; nessun effetto sostanziale si produce invece quando il relativo diniego, adottato tempestivamente, sia stato poi annullato in sede giurisdizionale.

La non reiterabilità delle decisioni di controllo neppure si basa su princıpi concernenti l’esercizio della funzione di controllo: non si è mai dubitato, neppure in dottrina, che, se è annullato in sede giurisdizionale un atto di controllo, per la cui adozione non è prescritto alcun termine perentorio, l’autorità di controllo debba ripronunciarsi, alla stregua dei princıpi enunciati dal giudice amministrativo.

Pertanto, a parte l’ipotesi in cui il giudice amministrativo abbia annullato un atto di controllo per il superamento del prescritto termine, l’organo di controllo (entro il rinnovato termine previsto dalla legge, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa o dalla previa notifica della decisione del giudice amministrativo) deve ripronunciarsi ora per allora in ordine alla legittimità dell’atto controllato, che non ha ancora acquistato efficacia, quando la propria decisione negativa e` stata annullata in sede giurisdizionale (o evidentemente quando è annullata in sede di accoglimento di un ricorso straordinario).

La pronuncia del giudice amministrativo, dunque, va tenuta presente dall’organo di controllo, il quale come é ovvio non può annullare l’atto controllato per le stesse ragioni gia` espresse ma ritenute insussistenti dal giudice, ma può annullare il provvedimento per una ragione diversa da quella oggetto della statuizione giudiziale.

Non si può sostenere in contrario che l’ammettere il riesercizio del potere di controllo comprima l’autonomia dell’ente controllato.

Basta al riguardo osservare che: a) la stessa Costituzione prevede, tra l’altro, per la salvaguardia della legalità, il potere di controllo sugli atti; b) è incongruo discutere se il riesercizio del potere di controllo incida negativamente sugli atti del soggetto controllato, in quanto si deve ritenere che tale riesercizio (pur quando, come nella specie, la pronuncia giurisdizionale restringa notevolmente l’ambito delle questioni sollevabili in sede di riesercizio dei poteri di controllo) costituisce diretta conseguenza della pronuncia del giudice amministrativo, quale organo di « tutela della giustizia nell’amministrazione » (v. art. 100, primo comma, Cost.); c) l’eventuale uso distorto del potere di riesercizio del controllo può dar luogo ai consueti rimedi di tutela previsti dall’ordinamento ogni volta che dal giudicato amministrativo sorga l’obbligo di adottare i provvedimenti ulteriori (non dissimilmente dai casi in cui il giudice amministrativo abbia annullato un diniego di autorizzazione o di concessione, e l’Amministrazione pretestuosamente abbia nuovamente respinto la domanda).

Bisogna dunque fare applicazione del principio più volte affermato dal Consiglio di Stato (ex plurimis, Cons St., V, 31/3/1994, n. 242; Id., V, 8/2/1991, n. 118), per il quale l’annullamento giudiziale dell’atto di controllo di per sé non implica né il riconoscimento della legittimità del contenuto del provvedimento così annullato, né l’accertamento dei diritti che da quello derivano al beneficiario, ma solo la fondatezza delle censure di illegittimità dedotte contro il provvedimento negativo di controllo.

Infatti, quando e` impugnata in sede giurisdizionale una decisione negativa di controllo, l’oggetto del giudizio e` solo tale decisione e non può omissio medio verificarsi se l’atto controllato sia o meno conforme a legge, ad esempio quando la decisione negativa di controllo non abbia colto una o più ragioni di illegittimità dell’atto controllato (Cons St., V, 3/5/1995, n. 682; Id., V, 13/7/1994, n. 750; Id., V, 31/3/1994, n. 242; Id., V, 30/3/1994, n. 194).

Del resto, é noto che l’ordinamento non impone che l’organo di controllo esponga nella propria decisione negativa tutte le ragioni di illegittimità da cui è affetto l’atto controllato.

Se l’organo di controllo ne individua una (non evidenziando questioni ulteriori), e questa é però ritenuta insussistente dal giudice amministrativo, non può escludersi (e ciò non è infrequente nella prassi) che l’atto controllato sia illegittimo per una ragione diversa non evidenziata dall’organo di controllo.

Infine un cenno sul controllo esterno della Corte dei Conti[73]. I controlli della Corte in via generale non sono impugnabili, poiché non sono atti amministrativi, ma, provenendo da un’autorità giudiziaria, sono atti adottati nell’esercizio di una funzione giurisdizionale[74]. In caso di rifiuto di visto, ad es., i terzi lesi potranno impugnare per i noti vizi non il diniego, ma l’atto che l’organo di amministrazione attiva andrà ad emettere in luogo di quello non approvato.

Retroattività e provvedimenti di 2° grado

Come noto, la pubblica amministrazione può utilizzare poteri di secondo grado (cd autotutela decisoria) così detti perché hanno ad oggetto altri e precedenti provvedimenti o fatti equipollenti (casi di silenzio significativo)[75]. Nell’ambito di tali poteri si distinguono quelli di riesame ad effetto demolitorio (annullamento, revoca, riforma) o conservativo, che incidono sulla validità di atti o fatti equipollenti; e poteri di revisione, che riguardano l’efficacia di altri atti (sospensione, proroga, revoca, ritiro del provvedimento).

Con i provvedimenti di riesame e di revisione la pubblica amministrazione non tutela se stessa né si fa giustizia da sé, ma cura l’interesse pubblico che le è affidato dalla legge. La tesi tradizionale vuole che gli atti di riesame abbiano effetti retroattivi, in quanto incidano su situazioni già prodottesi.

Si tratta di un’ipotesi ulteriore di retroattività per natura. Parte dottrina[76] nota tuttavia che la l. n. 15/05, modificativa della l. 241/90, ha introdotto per la prima volta disposizioni su tali atti di riesame. Istituti che fino a quella data non avevano altra disciplina se non quella elaborata in dottrina e giurisprudenza, sono oggi regolati dalla legge, che ha codificato le dette elaborazioni con alcune varianti significative.

Il giudice amministrativo ha sempre ritenuto, in particolare, che l’atto di annullamento avesse effetti retroattivi, togliendo di mezzo gli effetti prodotti medio tempore dall’atto annullato (cd efficacia ex tunc). Tale convinzione, fondata su un parallelismo con l’azione di annullamento giurisdizionale, è stata messa in discussione di recente.

Dopo la l. n. 15/05, che nulla dice sugli effetti nel tempo dei provvedimenti di annullamento d’ufficio, si è osservato che il contemperamento degli interessi pubblici e privati imposto dalla legge può richiedere alla pubblica amministrazione di graduare quegli effetti: in particolare, di farli decorrere dal momento in cui l’atto è annullato (cd efficacia ex nunc) o da un momento intermedio tra i 2 atti.

La dottrina richiama anche un parallelismo col diritto civile, ove l’annullamento giurisdizionale del contratto non pregiudica i diritti dei terzi in buona fede acquistati a titolo oneroso (art. 1445, Codice Civile). Un parallelismo potrebbe farsi anche con riguardo a quell’indirizzo giurisprudenziale (Cons. St., n. 2755/11) che, sulla scia della giurisprudenza comunitaria, ha demolito il mito dell’efficacia retroattiva dell’annullamento giurisdizionale. Secondo tale indirizzo, infatti, il GA può escludere, per ragioni di effettività di tutela, la retroattività anche solo di alcuni degli effetti della sentenza di annullamento. Quando la sua applicazione risulti incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale, la regola dell’annullamento con effetti ex tunc dell’atto impugnato a seconda delle circostanze deve trovare una deroga, o con la limitazione parziale della retroattività degli effetti (Cons St., n. 1488/11), o con la loro decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti dell’annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi. Peraltro nessuna norma dispone espressamente la retroattività dell’annullamento amministrativo o giurisdizionale, essendo una regola fondata su ragioni di giustizia e di effettività di tutela concreta, in quanto volta ad eliminare integralmente gli effetti dell’atto lesivo. Di regola, in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa, l’accoglimento della azione di annullamento comporta l’annullamento con effetti ex tunc del provvedimento risultato illegittimo, con salvezza degli ulteriori provvedimenti della autorità amministrativa, che può anche retroattivamente disporre con un atto avente effetti ‘ora per allora’.

Tale regola fondamentale è stata affermata ab antiquo et antiquissimo tempore dal Consiglio (come ineluttabile corollario del principio di effettività della tutela), poiché la misura tipica dello Stato di diritto – come affermatosi con la legge fondamentale del 1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato – non può che essere quella della eliminazione integrale degli effetti dell’atto lesivo per il ricorrente, risultato difforme dal principio di legalità

Secondo chi scrive, è questo un caso che non solo conferma la differenza tra retroattività per legge e retroattività per natura, da alcuni negata, ma che induce altresì a riflettere sulla effettiva funzione della retroattività intesa sempre e comunque come deroga ad un principio o ad una norma di legge.

A ciò si aggiunga un’ulteriore considerazione, in quanto la presente problematica si intreccia con quella dell’esercizio doveroso o meno del potere di autotutela nelle ipotesi di annullamento di un atto o di un provvedimento amministrativo e di estensione degli effetti favorevoli del giudicato o della decisione di annullamento a soggetti terzi, che non sono stati parti del processo o del procedimento.

Può accadere, infatti, che un atto ad efficacia ordinaria sia annullato in sede giurisdizionale o amministrativa. In tal caso ci si chiede se la pubblica amministrazione procedente possa estendere per determinazione discrezionale gli effetti dell’annullamento anche a soggetti terzi che ne facciano richiesta, in particolare ove tali effetti abbiano anche portata retroattiva.

Il problema come accennato è duplice. Da un lato abbiamo un caso di annullamento che ha di regola effetti retroattivi; dall’altro si pone il problema se l’Amministrazione sia tenuta ad estendere i detti effetti anche a soggetti terzi, purché vantaggiosi. Di regola infatti l’esercizio dei poteri di autotutela è ritenuto discrezionale, con la conseguenza che la relativa istanza di riesame del terzo che pretende di avvantaggiarsi dei medesimi effetti sarebbe inammissibile.

Tuttavia, esistono delle ipotesi in cui lo stesso esercizio del potere di autotutela risulta doveroso. Tra i casi in parola si annoverano le ipotesi di ottemperanza ad un giudicato penale, amministrativo o tributario che sia[77]. Un altro caso di esercizio doveroso del potere di autotutela è costituito dall’ipotesi in cui un giudicato risulti contrario al diritto comunitario oggettivo o giurisprudenziale della Corte di Giustizia, in base all’art. 10 TCE (oggi art. 4, par 3, TUE)[78] ovvero in base ad un orientamento della CGE che consente di disapplicare il giudicato interno anche ove riconosca il diritto a certi contributi in contrasto con la disciplina comunitaria (ad es., in materia di aiuti di Stato)[79].

In dottrina le posizioni sono varie: chi ritiene doveroso il riesame, ma non il ritiro dell’atto; chi ritiene doveroso ripristinare la legalità violata da un atto illegittimo, ma solo in presenza di un interesse pubblico effettivo; chi fonda la doverosità dell’autoannullamento sullo scopo di realizzare l’esatta applicazione della legge (soprattutto in diritto tributario); chi ancora richiede la necessaria ponderazione dei criteri di conformità a legge e delle altre esigenze emergenti dalla vicenda.

A ciò dunque si aggiunga, per quanto interessa in tale sede, che occorre ulteriormente verificare se l’eventuale estensione degli effetti retroattivi vantaggiosi costituisca un dovere o meno della PA.

Secondo l’opinione prevalente, la pubblica amministrazione non ha l’obbligo giuridico di estendere i detti effetti favorevoli in via retroattiva anche a soggetti terzi. Peraltro, qui non emerge un problema di esercizio doveroso dei poteri di autotutela (cioè di esercizio dei poteri cd di ritiro dell’atto), ma emerge il diverso e successivo problema se, esercitato il detto potere nei riguardi di un dato soggetto, l’effetto favorevole debba essere esteso anche a soggetti che non hanno preso parte al processo o al procedimento di annullamento. Rileveranno pertanto i diversi limiti (ad es., l’assenza di copertura finanziaria; un espresso divieto di legge o di regolamento; il principio factum infectum…) che la vicenda può rivelare in concreto.

Nondimeno, vi è almeno un caso in cui tale estensione sarebbe, se non doverosa, certo giustificata, e cioè nelle ipotesi in cui sia annullato un atto regolamentare ovvero un atto amministrativo generale, in quanto l’efficacia dell’annullamento e l’estensione degli effetti avvengono necessariamente erga omnes.

Discorso diverso, invece, dovrebbe farsi rispetto alla cd revoca amministrativa. Tradizionalmente si ritiene che l’annullamento d’ufficio abbia effetti ex tunc e la revoca ex nunc, operando solo per il futuro. L’annullamento d’ufficio (al pari di quello giurisdizionale) è retroattivo; la revoca è un provvedimento irretroattivo. Secondo parte dottrina[80], mentre la l. n. 15/05 consentirebbe, nel silenzio sul punto, di graduare nel tempo anche gli effetti dell’annullamento; invece ciò non potrebbe dirsi per la revoca, disciplinata dall’art. 21 septies, l. n. 241/90, che letteralmente rende inidoneo l’atto revocato “a produrre ulteriori effetti”, dimostrando che essa opera solo con decorrenza ex nunc. La revoca dunque non potrebbe avere effetti retroattivi e ove ciò accadesse sarebbe impugnabile.

Tra i provvedimenti di riesame (cd autotutela decisoria) si annoverano anche i cd provvedimenti ad effetto conservativo (es., convalida). La convalida, in particolare, è un provvedimento alternativo all’annullamento d’ufficio: anziché eliminare il provvedimento, la PA ne può stabilizzare gli effetti (es., convalida dell’atto adottato da un organo relativamente incompetente, ma appartenente allo stesso plesso organizzativo). Se l’atto non contiene una motivazione adeguata, ad es., può essere riadottato con una motivazione più idonea. Tutto ciò è possibile se non è pendente un giudizio contro l’atto da convalidare, salvo che si sani il vizio di incompetenza (art. 6, l. 18/3/1968, n. 249, recante “delega al Governo per il riordinamento dell'Amministrazione dello Stato, per il decentramento delle funzioni e per il riassetto delle carriere e delle retribuzioni dei dipendenti statali”).

La ragione è che si vuol evitare di rendere non più impugnabile un atto che è stato oggetto di ricorso amministrativo o giurisdizionale, con conseguenti a) pregiudizio per la parte interessata a coltivare il giudizio; b) violazione del principio di irretroattività degli atti sfavorevoli; e c) lesione degli artt. 24 e 113, Cost.

Peraltro sono individuati vari limiti alla efficacia retroattiva della convalida, non tutti pacificamente accolti. Si discute, per es., se siano convalidabili gli atti divenuti inoppugnabili nonché quelli relativi a diritti soggettivi. Dati vizi, inoltre, non possono essere rimossi con la convalida (es., un travisamento dei fatti; la mancanza di urgenza) perché legati a difetti o circostanze esterne non dipendenti dalla volontà della pubblica amministrazione. La dottrina, inoltre, richiede l’attivazione delle regole partecipative indicate dagli artt. 7ss, l. 241/90, ove si avvii un procedimento amministrativo di convalida. Secondo la giurisprudenza, l’effetto retroattivo della convalida dell’atto amministrativo viziato da incompetenza si riflette in senso positivo anche sugli atti connessi all’atto convalidato i quali, in conseguenza del vizio di incompetenza, potevano risultare inficiati per illegittimità derivata[81]

Tra i casi ‘speciali’ di convalida è posta la cd ratifica, anch’essa ritenuta ad efficacia retroattiva, per cui l’organo competente provvede a ratificare (far propri) gli effetti dell’atto emesso da un organo non competente e quindi è volta a sanare il vizio di incompetenza (Cons. St., 19/2/2003, n. 932).

Tra i provvedimenti di riesame ad effetto conservativo con effetti retroattivi si collocano inoltre altri atti, ma non mancano discussioni. Mentre infatti la riforma certamente ha effetti ex nunc, si dubita sulla figura della sanatoria e della conferma. Quanto alla sanatoria, sembra prevalere in dottrina la tesi che abbia effetti retroattivi (es. nulla osta rilasciato dopo l’emanazione del provvedimento finale da sanare). L’ipotesi è diversa dalla convalida, poiché ricorre un caso di collegamento tra atti amministrativi e non un autonomo provvedimento di secondo grado. La sanatoria inoltre non si estende solo agli atti viziati per incompetenza, ma tende a perfezionare ex post un atto mancante, al momento dell’emanazione, di un presupposto di legittimità. Non è ammessa per talune categorie di atti (es., pareri). Quanto alla conferma, questa in primo luogo non va confusa con la convalida. La convalida mira a sanare la mancanza di un presupposto di legittimità e quindi elimina un vizio (in genere di sola competenza, cd convalescenza dell’atto); la conferma invece è fondata sul principio di conservazione (degli effetti) degli atti giuridici, onde rendere l’atto amministrativo illegittimo inattaccabile sul piano amministrativo e giurisdizionale.

Al principio di conservazione degli effetti sono ricondotte, altresì, varie figure (consolidazione o inoppugnabilità; acquiescenza; conversione; conferma). Con riguardo alla conferma si discute tuttavia se abbia effetti retroattivi. Per una tesi infatti la conferma avrebbe effetti retroattivi in quanto, incidendo su un atto già emesso, finisce per operare in via retroattiva. Per la tesi preferibile, invece, la risposta è negativa e occorre distinguere tra conferma propria e impropria. Ad es., un cittadino chiede di ritirare o modificare un atto in quanto ritenuto lesivo. Il rifiuto della pubblica amministrazione che emani un atto con cui si limita a ribadire il precedente provvedimento è un caso di conferma propria, non impugnabile in quanto la lesione discende già dal primo atto. Qui non vi è nessuna retroattività né reale né obbligatoria. Ove la pubblica amministrazione invece apra un nuovo procedimento verificando l’esistenza dei vizi denunciati e confermi, anche dopo apposita istruttoria, il precedente procedimento, si ha un ipotesi di conferma impropria. In tal caso il nuovo provvedimento (dotato di nuova motivazione) ha solo in apparenza un contenuto confermativo, ma in realtà è innovativo, sostituendosi all’atto confermato nella disciplina del rapporto sostanziale. Anche qui non vi è retroattività.

Retroattività e procedimento amministrativo

Finora si è parlato della retroattività con riguardo particolare al provvedimento amministrativo. Ma occorre indagare anche cosa accade nei rapporti tra l’istituto della retroattività e del procedimento amministrativo[82].

Il procedimento amministrativo è infatti una successione logica e cronologica di fatti e atti, dotati di relativa autonomia, che portano ad un esito finale e quindi è destinato a svolgersi in un certo arco di tempo. Accade poi che un procedimento si componga a sua volta di uno o più subprocedimenti connessi o collegati, con l’emanazione del relativo atto finale. Secondo una articolazione che si rintraccia in dottrina il procedimento si suddivide in tre (preparatoria, costitutiva e integrativa dell’efficacia) o quattro fasi (iniziativa; istruttoria; fase decisoria, che talora contempla una fase pre-decisoria; quella integrativa dell’efficacia). Iniziativa, istruttoria e decisione sono sempre fasi necessarie; eventuali quella pre-decisoria ed integrativa dell’efficacia).

Le verifiche dottrinali e giurisprudenziali cadono soprattutto sull’aspetto dello jus superveniens e dei suoi effetti, mentre minor rilievo è dato alla verifica della retroattività in relazione al procedimento amministrativo. Il tema quindi, ove trattato, è riferito alla cd successione di leggi nel procedimento sulla scorta della disciplina di cui all’art. 2, codice penale o, al limite, alla cd retroattività per legge, che esula da una trattazione analitica nel presente studio, mentre nessun rilievo è dato alle ipotesi di atti e procedimenti connessi alla retroattività per natura o per disposizione espressa.

Procedendo con ordine, si segnala innanzitutto che, circa gli effetti dello jus superveniens su un procedimento amministrativo già aperto, in dottrina si dividono il campo due tesi principali.

Secondo un primo, risalente orientamento[83], il procedimento amministrativo è dominato dal principio tempus regit actum, inteso come corollario del principio di irretroattività ex art. 11, preleggi, Codice Civile. La norma sopravvenuta dovrà essere applicata alle fattispecie successive alla sua entrata in vigore, mentre quella precedente, oramai abrogata, continuerà ad aver vigore nei riguardi di tutti i rapporti giuridici che siano nati prima dell’abrogazione stessa e siano ancora pendenti. La nuova norma quindi trova applicazione Il procedimento non è visto come una fattispecie unitaria a formazione complessa, ma è, al contrario, sezionato nei singoli atti che lo compongono. Il novum jus sarà inapplicabile alla frazione sub-procedimentale ormai conclusa.

Secondo un diverso e più recente orientamento[84], invece, occorre dare maggior risalto all’unitarietà e all’organicità del procedimento amministrativo, in quanto strumento tipico con cui si regola l’esercizio della funzione amministrativa. L’intero procedimento sarà disciplinato dalla normativa in vigore al momento in cui esso ha avuto inizio, senza che il diritto sopravvenuto possa trovare applicazione immediata nel corso dello sviluppo delle fasi endoprocedimentali. L’attuazione delle norme sopravvenute infatti potrebbe incidere negativamente sul corretto esercizio della detta funzione. In altre parole vigerebbe la diversa regola per cui tempus regit actionem (cioè appunto, l’attività e, quindi, la funzione nel suo complesso). La disciplina che dovrebbe trovare applicazione sarebbe quella in vigore all’inizio della fase istruttoria: è da tale momento, infatti, che viene definita la decisione finale rispetto alla quale il provvedimento conclusivo costituirà solo un mero riepilogo.
Qualsiasi modifica normativa, che intervenga sullo svolgimento dell’istruttoria, “rappresenterebbe un inquinamento delle conclusioni dell’intero procedimento ed un potenziale pregiudizio per le situazioni giuridiche dei soggetti interessati[85].

La giurisprudenza dal canto suo segue principalmente il primo indirizzo[86], ma non mancano decisioni che accedono al secondo[87].

Dai suddetti orientamenti si argomenta un favor di dottrina e giurisprudenza verso il principio di irretroattività all’interno del procedimento. L’idea, peraltro non espressa in modo chiaro, è che il provvedimento finale del procedimento non ha effetti retroattivi rispetto agli atti endoprocedimentali, che sono sì espressione dell’attività pubblicistica ma che sono privi di una struttura provvedimentale e di efficacia immediata e diretta.

In realtà, come visto, i procedimenti amministrativi sono caratterizzati da una loro durata e sovente, durante il loro svolgimento, si incastonano altri vari sub-procedimenti interni o esterni all’amministrazione procedente (di certificazione; di parere, ecc), che si concludono con atti perfetti ed efficaci. C’è poi da considerare che la legge n. 241/90 conosce diversi tipi di modelli di procedimento, alcuni dei quali sono puntualmente disciplinati[88].

Soprattutto con riguardo alle ipotesi di procedimenti complessi, pertanto, uno di questi sub-atti potrebbe avere effetti retroattivi e incidere sull’economia complessiva dell’operazione. Tale possibilità comporta effetti sul piano della tutela, in quanto potrebbe emergere una lesività concreta del sub-atto concluso, legittimando all’impugnazione il soggetto che assume di essere leso[89].

Un altro esempio potrebbe riguardare l’ipotesi dei procedimenti cd dichiarativi[90]. Si pensi alle cd verbalizzazioni, che hanno un campo applicativo molto vasto[91]. Esse sono atti d’ufficio con lo scopo di narrare o documentare atti, operazioni o comportamenti compiuti o in corso di compimento. In astratto qualsiasi atto giuridico è verbalizzabile (negozi giuridici; atti normativi; provvedimenti amministrativi, ecc).

Si distingue perciò l’atto verbalizzato e l’atto di verbalizzazione. Secondo l’impostazione tradizionale, la verbalizzazione sarebbe attività volta a costituire la forma (scritta), richiesta ad substantiam, dell’atto verbalizzato, con la conseguenza che saremmo in presenza di un unico atto. Secondo una diversa impostazione, saremmo in presenza di due atti diversi, ciascuno dotato di una propria forma. In questo caso il verbale costituisce o una riproduzione documentale (cioè è esternazione della verbalizzazione) ovvero può essere utilizzato come esternazione degli atti verbalizzati e dell’atto di verbalizzazione.

Ciò consente di riguardare il fenomeno dal punto di vista dei riflessi sul piano temporale.

Usualmente atto verbalizzato e atto di verbalizzazione dovrebbero svolgersi contemporaneamente, quanto meno per evitare sospetti di infedeltà, ma essi possono compiersi in momenti temporali diversi, talora anche distanti l’uno dall’altro. In tal caso si parla di verbalizzazione tardiva.

Quando la verbalizzazione è riproduzione documentale l’atto da verbalizzare esiste indipendentemente dalla verbalizzazione e quindi il verbale tardivo dovrebbe essere viziato da invalidità. Quando invece la verbalizzazione si traduce in una esternazione degli atti verbalizzati la verbalizzazione tardiva dovrebbe essere legittima.

La dottrina avverte tuttavia che quest’ultimo modello di procedimento postula una previsione di legge, essendo eccezionali le esternazioni legalmente prescritte.

Si aggiunga inoltre che non raramente il verbale deve essere ‘approvato’ dagli astanti o dai partecipanti. Talora tale approvazione avviene nella seduta successiva. Talaltra si invia ai partecipanti un verbale provvisorio, con invito a proporre integrazioni e modifiche entro un dato termine, scaduto il quale si estende il verbale definitivo in base alle modifiche pervenute.

L’approvazione del verbale è indicativa di un procedimento di controllo in ordine alla fedeltà della verbalizzazione, con effetti naturalmente retroattivi, in quanto vengono fatti decorrere dalla data di riunione e non delle intervenute modifiche.

In taluni casi ancora la verbalizzazione può essere utilizzata dalla norma che la contempla anche per ottenere ulteriori effetti. A tal scopo la legge può consentire l’uso del principio di retroattività volontaria o per natura degli effetti, ad esempio, ove essa si ponga come condizione per l’efficacia dell’atto verbalizzato (es., verbalizzazioni di organi collegiali).

In tutte le suddette esemplificazioni, prevale – secondo chi scrive - non tanto l’idea che la retroattività sia un’eccezione, una deroga ai diversi corollari dell’irretroattività della legge, quanto una tecnica legittima per gestire gli interessi in gioco, sia di natura sostanziale che procedimentale, i quali altrimenti sarebbero sacrificati oltre il necessario ed oltre un normale principio di proporzionalità dei mezzi rispetto agli obiettivi da conseguire. In tali casi, infatti, non emerge un problema di atto favorevole o non favorevole per i destinatari, essendo il verbale un atto neutro da questo punto di vista. Né potrebbe obiettarsi, in senso contrario, che le suddette ipotesi sono annoverate tra i cd atti retroattivi per natura, e, di conseguenza, si tratti di una retroattività, diciamo così, necessitata. In realtà, nulla esclude, come sopra illustrato, che i partecipanti alla procedura attribuiscano volontariamente una conformazione degli effetti giuridici dell’atto diversa da quella che naturalmente ci si aspetterebbe.

Riflessioni conclusive

Secondo quanto già affermato, è pacifico in dottrina ed in giurisprudenza che la regola di irretroattività dell’azione amministrativa sia espressione dell’esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, oltre che del principio di legalità che, segnatamente in presenza di provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato, impedisce di incidere unilateralmente e con effetto « ex ante » sulle situazioni soggettive del privato[92].

Di qui l’ulteriore corollario che la retroattività, sia essa disposta con legge, sia essa per natura, sia essa stabilita in via discrezionale, costituisca un’eccezione al suddetto principio.

Tuttavia tale predicato appare certo per quanto riguarda la retroattività per legge, mentre va sottoposto a verifica per quanto attiene alla retroattività per natura e per disposizione espressa.

Come visto, infatti, in questi due ultimi casi occorre sempre e comunque un atto della pubblica amministrazione, che sovente si pone nel solco dell’attività discrezionale. In altre parole, è richiesto un intervento non meramente esecutivo della pubblica amministrazione o dei soggetti equiparati o assimilati.

Ciò, su un piano generale, appare anche corretto, in quanto una scelta così delicata di far retroagire gli effetti dell’atto nel tempo deve trovare una giusta ed equa ponderazione degli interessi concretamente in gioco onde consentire l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa. La retroazione degli effetti pertanto sembra il portato, per lo più, di un’attività discrezionale (amministrativa pura o tecnica o mista) della pubblica amministrazione. Nel caso della retroattività per legge tale ponderazione è rimessa al legislatore che l’ha già effettuata a monte; nei restanti casi essa o può assumere caratteri non eccezionali in quanto connaturati alla natura dell’atto (retroattività per natura) ovvero in quanto rimessi alla scelta discrezionale della pubblica amministrazione da effettuarsi in concreto[93].

Ciò influisce sotto vari profili.

In primo luogo sotto il profilo della struttura dell’atto e delle modalità attuative procedimentali: vi sarà in genere un accrescimento degli oneri motivazionali e di quelli procedimentali (si pensi, ad es., ai cd diritti partecipativi: art. 10, l. 241/90; all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento), soprattutto ove l’atto mostri altresì attitudine ad incidere sulla sfera giuridica dei terzi.

In secondo luogo, lo stesso giudice, deputato alla cognizione dell’atto, potrà verificarne non solo gli aspetti di incompetenza e di violazione di legge, ma altresì quelli relativi al sintomo dell’eccesso di potere. Inoltre l’esistenza di una forma di retroattività per legge importa una limitazione alla relativa controprova in sede processuale; mentre nei restanti casi, soprattutto in quelli di retroattività discrezionale, la controprova sarà ammessa tendenzialmente senza limiti e quindi anche per presunzioni semplici.

Allo stesso modo, nei casi in cui l’atto, per avventura, fosse soggetto alla cognizione incidentale del giudice ordinario o, limitatamente agli atti amministrativi regolamentari, del giudice amministrativo, sarà necessaria un’indagine non limitata ai soli profili di legittimità stretta (cioè alla sola ipotesi della violazione di legge), ma a tutti e tre i detti profili.

L’impostazione sembra, a giudizio di chi scrive, trovare ulteriore conferma con riguardo ai casi di attività amministrativa non autoritativa e di diritto privato.

In questo caso, infatti, la decisione di far retroagire gli effetti potrebbe seguire due canali: il primo, quello delle valutazioni di tipo pubblicistico (imparzialità e buon andamento), ove si acceda alla tesi che preferisce configurare la presenza di atti di natura pubblicistica. In tal caso, il fondamento costituzionale delle scelte retroattive è l’art. 97 Cost., nel senso che l’anticipazione degli effetti del provvedimento potrebbe corrispondere ad una regola di buona amministrazione o, come si dice oggi, di efficienza, efficacia ed economicità. Il secondo, quello relativo alla autonomia negoziale coi limiti derivanti, in particolare, dai dettami della buona fede oggettiva, nei casi in cui prevalga una visione di tipo privatistico.

In tale ultima ipotesi, tuttavia, si tratta di circostanziare la decisione sulla scorta non dei noti vizi di legittimità, ma delle diverse specificazioni dei doveri e degli obblighi di buona fede (doveri di informazione; di comportamenti non contraddittori; ecc.) e della situazione giuridica soggettiva lesa.

Bisogna dire, in verità, che – almeno secondo le riflessioni più recenti di dottrina e giurisprudenza – gli obblighi di buona fede oggettiva sono riscontrabili anche rispetto alla sede procedimentale e comunque (come dimostra anche la legislazione vigente: es., art. 2, comma 4, codice contratti pubblici) risultano compatibili con quella, in quanto discendenti dal più ampio dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.

Con ciò si vuol dimostrare che non è sufficiente considerare la retroattività come una mera eccezione ad una regola o ad un principio. Se ciò è vero in via ordinaria, vi sono tuttavia dei casi in cui la decisione di far retroagire o non retroagire dati effetti è persino collegata ad esigenze di equità e giustizia o di non discriminazione (ad es., nei casi di annullamento; nei casi di estensione delle decisioni contenute nel giudicato).

Perciò, si potrebbe affermare che mentre la retroattività sfavorevole al destinatario dell’atto si atteggia di norma come eccezionale; non così può affermarsi per la retroattività favorevole, in cui essa si pone invece talora come necessaria, proprio per evitare il rischio di produrre lesioni alla sfera giuridica altrui e di incorrere in responsabilità propria.

In tali casi, la disposizione retroattiva va inquadrata tra le possibili e legittime tecniche di gestione dell’interesse o degli interessi in gioco[94].

(Altalex, 24 settembre 2014. Articolo di Luca Scirman)

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[1] Si citano, tra gli altri, G. Corso, “Manuale di diritto amministrativo”, Torino, 2013; R. Villata– M. Ramajoli, “Il provvedimento amministrativo”, Torino, 2006; B. G. Mattarella, in: a cura di S. Cassese “Trattato di diritto amministrativo”, Milano, 2003, p53ss; G. Falcon, “Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo”, relazione svolta sul tema nell'ambito del Convegno su Tempo, spazio e certezza nell'azione amministrativa, Varenna 19-21 settembre 2002, in riv. “Diritto Amministrativo”, 2003, 1ss; P. Virga, “Diritto Amministrativo. Atti e ricorsi”, Milano, 1997, p. 103; Id., “Il provvedimento amministrativo”, Milano, 1972, pp. 360ss; A.M. Sandulli “Manuale di diritto amministrativo, vol I, Milano, 1989; R. Perrone Capano, “La retroattività degli atti amministrativi”, Napoli, 1963, ristampa del 1950, con una accurata ricerca di giurisprudenza. Gli autori citati rinviano a loro volta agli scritti di altri autori, alcuni dei quali saranno citati di volta in volta. Della retroattività o, meglio, dell’atto amministrativo retroattivo parlano per cenni o in modo lapidario tutti i manuali di diritto amministrativo. Sovente peraltro i concetti sono ripetuti in modo quasi identico e poche sono le riflessioni sul tema che approfondiscano realmente la tematica. Peraltro si avvisa il lettore che l’innovatività e la trasversalità delle riflessioni del presente studio inducono l’A. ad evitare di appesantire eccessivamente l’analisi col richiamo puntuale alla bibliografia di ogni istituto visitato alla luce della retroattività, bibliografia che sarà rinvenibile dallo stesso lettore di buona diligenza.

[2] Corte Cost., 15/6/1967, n. 78, in www.giurcost.org. Anche in diritto penale non mancano, tuttavia, i distinguo tra norme penali favorevoli retroattive e non favorevoli irretroattive, con diversi effetti e fondamenti giuridici: cfr. da ultimo Corte Cost., 12/10/2012, n. 230, in www.giurcost.org. Sulle norme sanzionatorie amministrative, rientranti tra quelle ‘afflittive’ citate nel testo, peraltro si dubita della possibilità di applicare il principio di retroattività in senso stretto. La pretesa sanzionatoria nasce d’altronde all’atto della contestazione dell’abuso e non in quello della sua materiale realizzazione, ed è nel momento della contestazione che l’abuso va qualificato come tale e con riguardo alle norme vigenti, così come devono essere riferite al momento dell’intervento repressivo le valutazioni che l’amministrazione è tenuta ad effettuare in funzione della scelta della sanzione demolitoria ovvero pecuniaria. Né è esatto sostenere che tale impostazione confligge con il divieto di retroattività delle norme sanzionatorie perché, a prescindere dal fatto che in materia di sanzioni amministrative non vige il divieto di retroattività che la Costituzione prevede solo per le norme penali (Cons. St., IV, n. 1382 del 23/10/1998; T.A.R. Valle d’Aosta, n. 155 del 16/12/1999), in realtà, posto che la sanzione si giustifica con l’attualità dell’abuso (cfr. Cons. St., V, 26/11/1994, n. 1382) (il quale rappresenta il presupposto ineludibile del provvedimento sanzionatorio), non ha senso parlare di retroattività dell’esercizio del potere sanzionatorio ma, al contrario, è preferibile parlare della coerente applicazione, ad una condotta illecita permanente, delle norme che l’amministrazione può legittimamente utilizzare, all’atto dell’accertamento, al fine di reprimerla. D’altronde, se si ripudia questo principio per affermare che chi viola le norme edilizie ha il diritto di contare sulla certezza della sanzione, nella forma della sua immutabilità nel tempo, occorre tener conto che alla contestata ″retroattività″ si sostituisce il principio inverso, vale a dire di «ultrattività» delle norme sanzionatorie. Si ritiene peraltro che il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative possa desumersi dall’art. 1, l. n. 689 del 24/11/1981, che si occupa, in particolare, delle sanzioni amministrative pecuniarie (Cass., Sez lav., 17/8/1998, n. 8074; Cons St., V, 29/4/2000, n. 2544).

[3] V. Cerulli Irelli, “Lineamenti del diritto amministrativo”, Giappichelli, 2012. L’impostazione tradizionale sembra dunque rinvenire il primario fondamento giuridico della retroattività nel necessario rispetto del principio di legalità, inteso come uno dei principi fondanti del nostro sistema ordinamentale. Tale principio non ha trovato nel nostro ordinamento una sanzione costituzionalmente sancita per le leggi civili ed amministrative. Mentre infatti e` impedita l’applicazione retroattiva di leggi allorché ciò comporti un contrasto con valori stabiliti dalla Costituzione, questa e` consentita ove trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza (Corte Cost. 26/1/1994, n. 6; v. altresì la sentenza del 14/7/1988, n. 822, in www.giurcost.org ). Ciò premesso, poiché il legislatore è l’unico a poter disporre, fuori del campo delle norme incriminatrici in senso stretto, anche per il passato, quantunque in modo eccezionale, la dottrina si chiede se ed in quale misura ciò possa essere consentito anche alle Pubbliche Amministrazioni ed ai soggetti equiparati, soprattutto in assenza di una specifica disposizione normativa.

[4] S. Perongini, “La formula « ora per allora » nel diritto pubblico”, Napoli, Esi, 1995; E. Casetta, “Manuale di diritto amministrativo”, Milano, 2004, p. 510; G. Corso, “L’efficacia del provvedimento amministrativo”, Milano, 1969, p. 400. Altra parte della dottrina riporta invece l’istituto della retrodatazione alla R. come vicenda giuridica di quest’ultima: P. Virga, Diritto Amministrativo, cit., p. 362 e M.S. Giannini, “Diritto Amministrativo”, Milano, Giuffré, 1993, p. 285; B.G. Mattarella, in ‘a cura di Cassese “Trattato di diritto amministrativo, cit., p. 954’. L’istituto ha particolare applicazione nella materia di inquadramenti e promozioni in materia di pubblico impiego.

[5] Ad es., in materia di pubblico impiego, la decorrenza retrodatata della nomina ai fini giuridici è ammessa solo allorché tale determinazione sia dipesa da estensione del giudicato formatosi nei confronti di terzi a séguito di provvedimenti adottati spontaneamente dall’amministrazione, ovvero dall’esecuzione degli obblighi facenti capo all’amministrazione in virtù di una decisione giurisdizionali, mentre, quanto agli effetti economici, al riconoscimento della loro retroattività osta il principio di corrispettività delle prestazioni delle parti del rapporto di pubblico impiego (Cons. St., IV, n. 4263 del 31/7/2007, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2007, p. 2173).

[6] L’esempio è tratto da E. Casetta, “Manuale di diritto amministrativo”, cit., pp. 510-11.

[7] In Riv. “Il Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2010, pp. 2337-8.

[8] Cons St., IV, 30/5/ 200, n. 2946, in www.giustizia-amministrativa.it: “la decorrenza retroattiva delle promozioni non ha effetto ai fini della corresponsione dell’indennità di missione (nella specie quella conferita al personale delle forze armate, giusta il combinato degli artt. 1, l. 10 marzo 1987 n. 100 e 13, l. 2 aprile 1979 n. 97)”.

[9] I casi solitamente indicati: decreto legge decaduto poiché successivamente non convertito; norme di interpretazione autentica; leggi retroattive; declaratoria di illegittimità costituzionale: per es., M. Corradino, “Il diritto Amministrativo alla luce della giurisprudenza amministrativa”, Cedam, 2007.

[10] E. Casetta, “Diritto Amministrativo”, cit., pp. 487-8. La tematica infatti è estesa dall’Autore anche alla nullità sopravvenuta, nei casi in cui la legge modificata o dichiarata incostituzionale fosse attributiva del potere amministrativo. Inapplicabile invece sarebbe il concetto di retroattività con riguardo alla figura dell’inesistenza, in cui non esiste un atto vero e proprio.

[11] Cons. St., VI, 18/9/2003, n. 5299, in www.giustizia-amministrativa.it. Un’ipotesi particolare riguarda la materia concorsuale (gara per la scelta del contraente o selezione per l’accesso agli impieghi alle dipendenze della pubblica amministrazione). Si pensi ad un bando di gara o di concorso pubblico che, dopo la sua emanazione, vedono modificata la disciplina di riferimento per effetto di una legge sopravvenuta. In tal caso, secondo la tesi prevalente, l’Amministrazione è tenuta ad applicare le regole del bando senza poter derogare alla lex specialis in conformità delle sopravvenute modifiche o abrogazioni. Né sarebbe tenuta a disapplicare il bando, in quanto illegittimo per contrasto con le norme sopravvenute (Cons. St., V, 3/10/2002, n. 5206, in www.giustizia-amministrativa.it).

[12] Si avverta che la dottrina ritiene che il caso delle leggi interpretative costituisca un caso di retroattività apparente o naturale o impropria o retrospettiva, stante che non é la legge interpretativa a regolare direttamente i rapporti giuridici, ma quella anteriore, della quale il legislatore dà un'interpretazione vincolante (Corte Cost, 4/6/1964, n. 45, in www.giurcost.org; A. Simonati, “Procedimento Amministrativo comunitario e principi a tutela del privato nell’analisi giurisprudenziale”, Milano, 2009, p. 127, nota 42. F. Degni, “L'interpretazione della legge”, Napoli, 1909, 93; C. F. Gabba, “Teoria della retroattività della legge”, vol. I, Torino, 1884, E.). Guardando dal punto di vista della legge interpretata si parla di ultrattività della medesima: G. Marzano, “L'interpretazione della legge con particolare riguardo ai rapporti fra interpretazione autentica e giurisprudenziale”, Milano 1955, 178; C. Ribolzi, “Le leggi interpretative e la nuova Costituzione”, in Studi in memoria di G. Zanobini, 111, Milano 1965, 586.

[13] Un A. aggiunge il caso dell’atto di rinnovo in seguito a decisione di annullamento. Intervenuta una decisione di annullamento in seguito a ricorso giurisdizionale o straordinario, l’atto va rinnovato ‘ora per allora’, avendo il ricorrente diritto ad essere reintegrato nella stessa posizione che gli spettava al momento in cui è stato adottato l’atto invalido: P. Virga, “Diritto amministrativo”, cit.”, p. 103. Tra gli atti retroattivi per natura, si aggiungono anche gli atti dichiarativi, che accertano un precedente situazione di fatto o di diritto e gli atti interpretativi, a somiglianza delle leggi interpretative (R. Lucifredi, “Diritto Amministrativo. Parte generale. Gli Atti amministrativi. Appunti dalle lezioni.”, Genova, 1964-5, pp. 119). Si noti che in quest’ultimo caso l’A. distingue l’atto di legge interpretativo che opera automaticamente e senza bisogno di un ulteriore atto applicativo e che quindi potrebbe anche essere sfavorevole entro i limiti di ragionevolezza della legge stessa; e l’atto amministrativo volontario avente un contenuto interpretativo, cioè di chiarimento di una precedente situazione giuridica, che opera solo nei limiti taciti o espressi previsti dall’ordinamento, e che, quindi, non può essere sfavorevole.

[14] C’è da osservare che vi è una caratteristica che assiste la retroattività, soprattutto discrezionale, che trova immediato e diretto fondamento nel potere amministrativo esercitato e, in definitiva, nell’atto stesso, secondo lo schema norma-atto-effetto. A differenza del provvedimento reso in attuazione del comando di legge o del provvedimento ‘naturalmente’ retroattivo, che potrebbero anche farne a meno, secondo lo schema norma-fatto-effetto, il provvedimento amministrativo discrezionale ha sempre un duplice contenuto prescrittivo: uno attuale volto a disporre ora e in questo momento che i propri effetti retroagiscano e l’altro destinato ad operare in un momento anteriore sia alla costituzione della fattispecie giuridica sia alla disposizione di retroazione degli effetti stessi. Ne segue l’ulteriore possibilità che tali tre momenti non coincidano, producendo una operatività diacronica del provvedimento retroattivo: il momento in cui è costituita la fattispecie che non produce effetti; il momento in cui è disposto, per lo più nello stesso atto, che gli effetti retroagiscano; infine, il momento a partire dal quale gli effetti operano.

[15] La regola si spiega con la tesi tradizionalmente ammessa in dottrina ed in giurisprudenza che il parere deve essere necessariamente preventivo, in quanto il parere successivo sarebbe inutiliter dato (R. Lucifredi, “Inammissibilità di un esercizio ex post della funzione consultiva”, in Scritti per Vacchelli, Milano, 1937, pagg. 283 ss.).

[16] Ex plurimis, Cons St., V, 12/10/2001, n. 5395, in “Foro Amministrativo. Il consiglio di Stato”, 2001, p. 2793: “L’irretroattività della legge costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico che, pur non essendo elevato a dignità costituzionale al di fuori della materia penale e della salvaguardia di norme costituzionali, rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema, da applicare per la certezza dei rapporti giuridici. A tale principio, pertanto, può derogarsi in via eccezionale solo se l’effetto retroattivo è statuito esplicitamente e direttamente dal legislatore o deriva dalla particolare natura della norma, per cui ogni provvedimento amministrativo ha come substrato una situazione di fatto e di diritto che ne giustifica l’adesione e che non può essere incisa con un effetto ex tunc se non in ipotesi eccezionali e per situazioni tassativamente contemplate dal legislatore”.

[17] La distinzione, infatti, sembra negata da autorevole dottrina: M.S. Giannini, “Diritto amministrativo”, cit. vol. II, p. 285.

[18] La retroattività, infatti, non è una materia a sé ma ricade nell’ambito della materia ‘ordinamento civile’ (art. 117, comma 1, lett. l, Cost., riguardando la disciplina degli effetti dell’atto giuridico (e non del solo atto amministrativo).

[19] Ad es., la norma dell’art. 3, comma 74, l. finanziaria, 24 dicembre 2003 n. 350, pur avendo natura interpretativa e quindi retroattiva, non può trovare applicazione per fatti precedenti alla sua entrata in vigore, pena l’incostituzionalità della stessa (Cons. St., VI, 27/12/2007, n. 6664, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2007, p. 3521). Conformi Cons. St., sez. IV, 2/10/2006, n. 5771, in questa Rivista, 2006, p. 2752; Id., 19/10/2006, n. 6224, ibidem, 2006, p. 2787.

[20] I quali trovano applicazione anche nell’ambito delle procedure civili concorsuali, come è attestato da specifiche pronunce della Corte europea riguardanti l’Italia (pronunce 11 dicembre 2003, Bassani contro Italia; 15 novembre 1996, Ceteroni contro Italia) (Corte Cost., 1/7/2013, n. 170, in www.giurcost.org).

[21] Ad es., M.S. Giannini, “Istituzioni di diritto amministrativo”, 2° ediz, 2000. Ma la distinzione non accontenta tutti: es., G. Falcon, Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo”, cit., p. 1., secondo cui un effetto ha pur sempre una sua ‘durata’.

[22] E’ la manifestazione superstite di una tripartizione usata nella giurisprudenza meno recente, che distingueva tra i provvedimenti per i quali la retroattività è un elemento naturale, come l’annullamento d’ufficio e gli atti dichiarativi; quelli per i quali essa è un elemento accidentale, ammissibile per giuste ragioni, se non escluso dalla legge; e quelli per i quali essa non è ammessa, in quanto restrittivi, in B.G. Mattarella, in “Trattato di diritto ammnistrativo”, cit. p. 954.

[23] R. Lucifredi, “Diritto Amministrativo. Parte generale”, cit., pp. 118-9. La clausola, afferma l’A., non può essere ammessa per gli atti che restringono l’esercizio di facoltà o diritti, che sacrificano diritti acquisiti, o impongono obblighi e doveri. In tal caso la clausola importerebbe l’assurdo di considerare illeciti atti già compiuti lecitamente. La clausola può ammettersi per gli atti che conferiscono diritti, ma limitatamente agli effetti dell’atto che possono ancora verificarsi (es., nel rapporto d’impiego, la decorrenza dell’anzianità, il diritto allo stipendio, ecc).

[24] Secondo un’opinione, la norma sarebbe applicabile anche alle condiciones juris (G. Cian – Trabucchi A., “Commentario breve al codice civile dottrina e giurisprudenza”, Cedam, 2011, sub art. 1359 CC, ove è riportata, in particolare, l’opinione G. Mirabelli, Dei contratti in generale, Commentario al Codice Civile, Libro IV, Tomo Secondo, Torino, 1980).

[25] In giurisprudenza, si è discusso della cd funzionalizzazione dell’attività di diritto privato posta in essere da un soggetto appartenente al novero dei soggetti pubblici od equiparati o assimilati (Cass Civ, sez lav., 20/3/2004, n. 5696). La tesi tuttavia è disattesa dalla giurisprudenza che appare prevalente (Cass.Civ., n. 7704/2003), non ritenendosi applicabili le disposizioni di cui alla l. n. 241/90 agli atti privati emanati dalla pubblica amministrazione, ad es., in veste di datore di lavoro (art. 5, comma 1, T.U. dlgs n. 165/01). Si pensi, per fare un esempio, alla materia degli affidamenti di incarichi dirigenziali ai sensi del T.U. cit., in cui la relativa procedura utilizza atti amministrativi aventi natura negoziale. Anche in tale ipotesi un’eventuale annullamento dell’affidamento non potrebbe porsi il problema della disciplina applicabile e del conseguente riparto di giurisdizione, stante la previsione di cui all’art. 63, T.U. cit., che riconosce la giurisdizione del giudice ordinario.

[26] Su cui, è noto, pendono diverse ricostruzioni. La tesi panprivatistica li accomuna ai contratti di diritto privato; altra tesi li configura come contratti ad autonomia ristretta. In tale ultimo caso l’azione amministrativa conserva tutti i vincoli che si impongono alla potestà amministrativa, ove esercitata unilateralmente. Una terza tesi, seguita anche in giurisprudenza, li definisce come contratti di diritto pubblico, che conservano il regime tipico degli atti amministrativi. Una quarta tesi, infine, li espunge dal genus dei contratti e ne accentua il carattere pubblicistico, il che incide sulla disciplina applicabile, escludendo quasi del tutto quella contrattuale (G. Greco, in “L’azione amministrativa”, AA.VV., Giuffré, 2005, pp. 422ss). In genere le due tesi estreme sono ritenute minoritarie, perché gli accordi in parola presuppongono l’esistenza del potere autoritativo (Corte Cost., n. 204/2004, in www.giurcost.org).

[27] L’ambito della loro applicazione è molto ampio, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, lasciando, come si può immaginare, diversi dubbi interpretativi: intese, atti di concerto, concertazioni procedimentali, convenzioni fra EE.LL ex art. 30ss Tuel, accordi di programma, ecc.

[28] G. Falcon, “Le convenzioni pubblicistiche – Ammissibilità e caratteri”, Milano, 1984, p. 259. G. Greco, in “L’azione Amministrativa”, loc. cit.

[29] P. Cerase, “Pubblica amministrazione – un’analisi sociologica”, Roma, 1998, p. 155.

[30] N. Giorgianni, “Il negozio di accertamento”, Milano, 1939; L. Puccini, “Contributo allo studio dell’accertamento privato”, Milano, 1958. Di conseguenza, nei casi in cui alle parti (private) è riconosciuto per legge un potere di accertamento, non potrà parlarsi di accertamento negoziale (es., riconoscimento del figlio naturale).

[31] B. Tonoletti , “L’accertamento amministrativo”, Cedam, 2001, pp. 234ss.

[32] Cass. Civ., 17/9/2004, n. 18737; Cass. Civ., 5/6/1997 n. 4994; Cass. Civ., 10/1/1983 n. 161; F. Carnelutti, “Note sull’accertamento negoziale”, in RTDPC, 1940, I, p. 3. Secondo parte ulteriore della dottrina, (R. Nicolò, “Il riconoscimento e la transazione” in Annali di Scienze Giuridiche dell’Università di Messina, VII, 1923-1933), il negozio di accertamento è ammissibile ed ha un’efficacia sia costitutiva sia dichiarativa, avendo contenuto di tipo obbligatorio: i contraenti, cioè, si obbligano a non conferire alla situazione giuridica preesistente un’interpretazione difforme da quella risultante dal negozio di accertamento.

[33] Cons. Stato, 30/3/1998, n. 502, in Riv. “Foro Amministrativo. Cit.”, 1998, p. 698; V. Cerulli Irelli, “Lineamenti del diritto amministrativo”, cit., pp. 438ss.

[34] Per es., è stato giudicato legittimo il provvedimento di rideterminazione delle cd quote latte con effetto retroattivo per effetto della riduzione di una delle quote non disposta con legge, pena la lesione dell’affidamento degli operatori al mantenimento della quota in precedenza attribuita (Cons. St.,VI, 23/2/2009, n. 1052, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2009, p. 531. Cons St., VI, 11/11/2008, n. 5623, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2008, p. 3095: “La regola di irretroattività del provvedimento amministrativo opera con carattere di assoluta inderogabilità per i provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato, ma non per quelli di essa ampliativi, per di più ove si operi a sanatoria ed a reintegrazione di posizioni soggettive dell’interessato non soddisfatte per ritardi nella fase istruttoria del procedimento”. Oltre all’efficacia costitutiva e dichiarativa dei provvedimenti amministrativi, infatti, si evidenzia anche la presenza nel nostro ordinamento di atti ad effetti ampliativi (es., le autorizzazioni) che non sono necessariamente costitutivi, e atti ad effetti restrittivi, cioè sfavorevoli al destinatario. Questi ultimi hanno ricevuto una stigmatizzazione normativa nell’art. 21bis, l. 241/90, che li suddistingue ulteriormente in provvedimenti limitativi privi di carattere sanzionatorio e a carattere sanzionatorio, nonché provvedimenti limitativi cautelari ed urgenti. Solo i provvedimenti a carattere sanzionatorio necessitano sempre di una previa comunicazione personale. Per i provvedimenti privi di tale carattere, invece, occorre una specifica clausola che escluda la necessità di previa comunicazione, mentre quelli cautelari ed urgenti hanno sempre efficacia immediata, senza necessità di previa comunicazione personale. La ‘pubblicazione’ invece è imposta laddove il numero dei destinatari sia così elevato da rendere impossibile la comunicazione personale ovvero risulti in concreto particolarmente gravosa.

[35] A.M. Sandulli, “Manuale di diritto ammninistrativo”, vol. I, cit. p. 716; V. Italia “Enciclopedia degli EE.LL. Atti, procedimenti, documentazione”, Milano, 2007, p. 74. Trattandosi di retroattività per legge, questa potrebbe disporre legittimamente anche in via sfavorevole per il passato ed anche travolgendo i diritti dei terzi, incontrando tuttavia i limiti di ragionevolezza e logica propri del giudizio di costituzionalità nonché gli altri limiti illustrati nel primo paragrafo del presente articolo. Trattandosi delle restanti ipotesi di retroattività, ed in particolare della retroattività per disposizione espressa, la facoltà di fissare in via retroattiva una decorrenza dei termini di efficacia potrebbe importare sia la nullità dell’atto che la sua illegittimità o inopportunità. Dopo la riforma del 2005, infatti, le condizioni di nullità dell’atto, ritenute dai più tassative, ed indicate dall’art 21septies, comma 1, l. 241/90, s.m.i., potrebbero ricorrere, ad esempio, ove l’amministrazione, in violazione o in elusione del giudicato, disponga in senso retroattivo, anche favorevole al destinatario. Ma l’atto retroattivo potrebbe anche essere soggetto alla verifica dell’esistenza dei vizi di legittimità, ed in particolare del vizio di violazione di legge e di eccesso di potere (es., sotto il profilo dell’ingiustizia manifesta) ovvero essere riguardato sotto l’esistenza dei vizi di merito quanto all’opportunità o alla convenienza di far retroagire dati effetti. Tutto ciò può influire sia sul tipo di giurisdizione, sia sull’ampiezza dei poteri cognitori del giudice, sia sul regime probatorio e sul contenuto dell’onere della prova parziale, sia, infine, sulla forma di tutela giurisdizionale o giustiziale esperibile.

[36] Cons St.,II, 4 marzo 1996, n. 61, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 1996, p. 3438: “E’ illegittimo il provvedimento del comitato regionale di controllo che annulla la deliberazione del consiglio comunale con cui si e` disposto che gli aumenti triennali delle indennità di carica del sindaco e degli assessori comunali, previsti dalle l. 27 dicembre 1985 n. 816 e 25 marzo 1993 n. 81, devono decorrere dalla ricopertura delle cariche, in quanto estende illegittimamente il principio di irretroattività degli atti giuridici all’aumento delle indennità degli amministratori, ritenendo che debbano decorrere dall’inizio del singolo anno del triennio”.

[37]Cons St., VI, 9/7/2008, n. 4301; Cons. St., IV, 7/3/2001, n. 1317; Id., VI, 1/12/1999, n. 2045; Id., IV, 30/3/1998, n. 502, quest’ultima già cit.

[38] Cons St., IV, 9/12/2002, n. 6691, in www.giustizia-aministrativa.it.

[39] Cons St., VI, 11 ottobre 2007, n. 5346, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2007, p. 2857.

[40] L’adagio esprime un principio lapalissiano per cui un’azione, una volta compiuta, non può cancellarsi. Ma ciò non esclude forme di tutela, quali quelle risarcitorie. L’adagio, però, mira anche a sottolineare che la retroattività non può creare situazioni mai realizzatesi. Ad es., in assenza di una norma che disponga diversamente, il servizio riconosciuto al pubblico dipendente per effetto della retrodatazione dell’inquadramento non può essere valutato ai fini dell’attribuzione del punteggio previsto in un bando di concorso interno per il servizio svolto nella qualifica stessa, che non può essere che quello effettivamente prestato (Cons. St., 10/9/2010, n. 6538, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2010, p. 1860).

[41] Va considerato che non può interpretarsi come adesione ad una diversa linea interpretativa della Corte Europea la sentenza 30 ottobre 2003, concernente la liquidazione del danno alla Società Belvedere Alberghiera, resa sulla stessa vicenda in relazione alla quale la precedente decisione del 2000 aveva riconosciuto il diritto alla restituzione dell’immobile. La Corte, infatti, preso atto della mancata restituzione dell’immobile con riduzione in pristino, statuita dalla precedente decisione, senza recedere dalla stessa ed anzi riconfermandone il dictum, ha inteso reagire alla mancata restituzione riconoscendo un autonomo titolo di responsabilità di carattere non strettamente risarcitorio, perché comprensiva anche del danno morale sopportato dalla società.

[42] Il richiamo a norme civilistiche si spiega secondo un argomento storico, che fa leva sui tentativi di ricostruzione della teorica del provvedimento amministrativo. I primi tentativi infatti, susseguenti alle tesi tradizionale e formale-sostanziale del provvedimento amministrativo, furono rivolti a fissarne i limiti e a guardare a modelli civilistici negoziali. Su tutto ciò, si veda R. Galli “Corso di diritto Amministrativo”, vol. II, Cedam, 2001, p. 729ss. Attualmente, sembra potersi dire che ciò che si argomenta dagli articoli indicati nel testo sia tuttora valido. Lo strumento ermeneutico utilizzabile, tuttavia, non appare essere più quello dell’analogia legis, bensì quello dell’analogia juris, essendo caduta l’opinione che faceva del provvedimento amministrativo un negozio giuridico. Per contestare la retroattività del provvedimento non occorre sempre e necessariamente l’eccezione di parte in sede processuale, rientrando l’analogia tra i poteri officiosi del giudice in ossequio all’antico brocardo iura novit curia.

[43] Sul legittimo affidamento, si vedano, tra gli altri, le osservazioni di G.P. Cirillo, “Diritto civile pubblico”, Roma, Direkta, 2012, pp. 426ss; e di S. Antoniazzi, “La tutela del legittimo affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione”, Torino, 2005.

[44] Tali oneri si attenuano o scompaiono del tutto, invece, nei casi di retroattività per natura o per legge.

[45] Cons St., Sez. IV, 26 novembre 2001, n. 5949, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, Cit., 2001, p. 2779: “In forza del principio dell’irretroattività degli atti amministrativi — che, ancorché non codificato e derogabile al verificarsi di alcuni presupposti, discende direttamente dal generale principio di legalità volto a garantire la certezza delle situazioni giuridiche in atto — le determinazioni degli organi amministrativi non possono, di regola, esplicare efficacia retroattiva, salvo che esista, nelle singole materie, un’apposita norma attributiva di siffatto potere, oppure che le determinazioni stesse rechino vantaggio ai destinatari od attuino, in ottemperanza a pronunce caducatorie amministrative o giurisdizionali, la reintegrazione di posizioni soggettive lese. È, pertanto, illegittimo il provvedimento di recupero di somme erogate a titolo di indennità di missione e trasferimento, adottato in forza di determinazioni aventi efficacia retroattiva, ove risulti privo di un qualsiasi supporto giustificativo idoneo a legittimare la deroga posta in essere dall’amministrazione al principio summenzionato”.

[46] M.S. Giannini, “Diritto amministrativo”, cit., p. 286.

[47] Corte Cost., 16/10/1990, n. 455, in www.giurcost.org.

[48] Corte Cost., 21/7/1995, n. 416, ibidem.

[49] Corte Cost., 1/4/2009, n. 94, ibidem.

[50] Corte Cost. 20/11/2000, n. 509, ibidem.

[51] Cons. St., V, n. 499/2003, in www.giustizia-amministrativa.it.

[52] AA.PP., Cons St., nn. 2/5/2006 n.8; Id., 12/4/2012, nn. 3 e 4, ibidem.

[53] A.P., Cons St., n. 4/2012, cit., ibidem.

[54] Cerulli Irelli V., “Lineamenti di diritto amministrativo.”, cit., p. 440.

[55] Cons. St., n. 5/9/2011, n. 4998; A.P., Cons St., 11/4/2013, n. 4, in www.giustizia-aministrativa.it. Ad es., l’invalidità della composizione della commissione giudicatrice di un concorso comporta la l’invalidità derivata di tutti gli atti successivi, ivi compresa la graduatoria e la nomina dei vincitori.

[56] Cons St. n. 1885/2000, ibidem.

[57] P. Virga, “Diritto amministrativo”, cit., p. 119.

[58] C.G.A., Sicilia, n. 123/2000, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons St., Sez. II, 20/11/2001, n. 7383, in “Foro Amministrativo. Il Consiglio di Stato”, 2001, p. 3027: “la retroattività di un provvedimento presupposto costituisce uno stato viziato invalidante, da cui discende l’illegittimità derivata dei soli atti conseguenziali legati da nesso di presupposizione con l’efficacia retroattiva”, con riferimento ad un piano di contenimento della spesa sanitaria annullato.

[59] V. Cerulli Irelli, “Lineamenti del diritto amministrativo”, cit., p. 441. La questione sulla sorte del contratto già stipulato a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ha dato luogo nel tempo a questioni molto complesse, e a varie teorie, non ripercorribili in questa sede, oggi risolte dal nuovo codice processuale amministrativo.

[60] R. Proietti, in AA.VV., “Lineamenti di diritto amministrativo”, Ipzs, 2006, pp. 608-9.

[61] Delpino – Del Giudice, “Diritto amministrativo”, 2009, Simone, p. 422. Sull’attività di controllo della PA la letteratura è molto copiosa. Purtuttavia, non sono particolarmente approfondite le osservazioni in tema di retroattività dei controlli. Si vedano, tra gli altri, C. Chiappinelli, “I controlli”, in “Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali”, a cura di G. corso e V. Lopilato, Milano, 2006, 463; G. D’Auria, “I controlli”, in Trattato di diritto amministrativo” cit., PG, II; G. Berti G. e N. Marzona, “Controlli amministrativi”, Aggiornamento, vol. III, EdD, Giuffré, 1999; M.S. Giannini “Controllo, nozione e problemi” in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1974, 1263; G. Berti e L. Tumiati, voce “Controllo” in EdD, Giuffré, 1962; Forti, “I controlli dell’amministrazione comunale” in Trattato di diritto amministrativo, a cura di Orlando, II, 2, Milano, 1915, 608ss. L’attività di controllo, così intesa, non va confusa con il cd potere di supremazia speciale, che si esprime con provvedimenti ordinatori e sanzionatori: Offidani, “Studi sull’ordinamento giuridico speciale”, Torino, s.d.

[62] Tra i controlli esterni, si ricordano: il controllo del Parlamento; il controllo esercitato dagli organi giurisdizionali; i controlli della Corte dei Conti. Nel testo ci si occupa della retroattività dei controlli interni, aventi carattere di provvedimento amministrativo.

[63] M.S. Giannini, “Diritto amministrativo”, cit., vol. II, p. 286. L’affermazione dell’A. va coordinata col tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui gli atti di controllo ad esito positivo non necessitano di motivazione a differenza di quelli ad esito negativo (Cons St.,V, 9-5-1983, n. 153, in CS, 1983, I, 540, in nota n. 69 a “Controlli amministrativi”, di A. Crosetti A., in Digesto Discipline Pubblicistiche, 1989). Le due opinioni potrebbero essere compatibili nella misura in cui si ritenga che l’atto retroattivo amministrativo possa avere solo effetti favorevoli. Ma in verità stiamo parlando di ipotesi di R. per natura (gli atti di controllo, infatti, ne sono espressione) e l’orientamento suddetto si è consolidato in un’epoca in cui non era ancora vigente l’art. 3, l. 241/90. Di conseguenza, è opera di buona amministrazione motivare anche l’atto di controllo positivo, se non altro a tutela di eventuali terzi lesi o di rettifiche o impugnative dello stesso destinatario che aspiri ad un grado di ‘favore’ maggiore.

[64] Come segnalato nel corso del presente studio, di ‘retrospettività’ (ossia di retroattività apparente) si parla in altri luoghi: con riguardo alle leggi interpretative e, secondo un’impostazione, anche con riguardo ad alcuni atti di secondo grado, come gli atti di convalescenza (G. Corso, “L’efficacia del provvedimento amministrativo”, cit., p. 400ss e B.G. Mattarella, in “Trattato di diritto amministrativo”, cit., p. 931, nota 708).

[65] L’orientazione al passato, per usare la terminologia di una dottrina, appare limitata alla componente della determinazione di giudizio, che investe l’attività già svolta, mentre l’effetto ex nunc appare collegato alla dichiarazione di volontà, che è parimenti manifestata con l’atto di controllo.

[66] A tali figura si riconducono tradizionalmente, tra le altre, l’annullamento, la revoca e la sospensione quali misure (ossia gli esiti) di controllo. Ma la dottrina recente ha espunto diverse figure dal novero degli atti di controllo successivo ad esito negativo, ritenendole misure non più idonee o attuali: F. Trimarchi Banfi, “Il controllo di legittimità”, Padova, 1984. Tra i casi di controllo successivo ad esito negativo e con effetti retroattivi si può ricordare l’art. 138 Tuel, rubricato “annullamento straordinario”, che abilita il Governo ad annullare in ogni tempo per motivi di pubblico interesse, d’ufficio o su istanza di parte, sentito il Consiglio di Stato, gli atti degli EE.LL viziati da illegittimità.

[67] A voler assegnare la diversa funzione, occorrerebbe configurare un controllo ad effetti confermativi impropri.

[68] R. Garofoli R. – G. Ferrari, “Manuale di diritto amministrativo”, Nel Diritto Editore, 2013, p. 781.

[69] A.P., Cons. St., 29/7/2011, n. 15, in www.giustizia-amministrativa.it. Il Cons St. giudica di ‘complessa configurazione’ l’ipotesi di un silenzio assenso (avente valore di autorizzazione o n.o., comunque denominati, e quindi espressione della funzione di controllo) con efficacia retroattiva. Il passaggio del tempo, infatti, “non costituisce un titolo costitutivo avente valore di silenzio assenso, ma impedisce l’inibizione di un’attività già intrapresa in un momento anteriore”.

[70] G. Guarino, “Atti e poteri amministrativi”, Milano, 1994.

[71] Cons. St., Sez. V, 13/7/1994, n. 750; sez. V, 31/3/1994, n. 242; sez. V, 30/3/1994, n. 194.

[72] In passato, in particolare, gli artt. 125 e 130, Cost., abrogati dall’art. 9, l. costituzionale del 18/10/2001, n. 3. Oggi il fondamento può rinvenirsi nell’art. 100 Cost. e nella disciplina dell’art. 97, Cost., oltreché nella legislazione sub-costituzionale che preveda forme di controllo amministrativo.

[73] Da ultimo, (A cura di) V. Tenore, AA.VV, “La nuova Corte dei Conti: responsabilità, pensioni, controlli”, Giuffré, Milano, 2013; A.L. Tarasco, “Corte dei Conti e ed effetti dei controlli amministrativi, Cedam, 2012; D. Crocco “Profili giuridici del controllo di efficienza amministrativa”, Jovene, Napoli, 2012; C. Chiappinelli- L. Condemi – M.C. Cipolloni, “Programmazione, controlli, responsabilità nelle pubbliche amministrazioni”, Giuffré, Milano, 2010; R. Lombardi, “Contributo allo studio della funzione di controllo. Controlli interni e attività amministrativa”, Giuffré, Milano, 2003.

[74] Tar Lazio, Roma, 3/4/1998, n. 1212, in Foro It., 1998, III, p. 396, con breve nota redazionale.

[75] La materia è particolarmente trattata: per la bibliografia si rinvia a quella in R. Garofoli-G. Ferrari, “Manuale di diritto Amministrativo”, cit., 2013, p. 1234ss e E. Casetta, “Manuale di diritto amministrativo”, Milano, Giuffré, 2013.

[76] G. Corso, “Manuale di diritto amministrativo”, cit., p. 304ss.

[77] AA.VV., R. Schiavolin ,“Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II”, Cedam. 2011, p. 510.

[78] Tanto nella vecchia quanto nella nuova disposizione il riferimento fondamentale è al principio di leale cooperazione tra le istituzioni. Il principio importa una serie di doveri, tra cui occorre ricordare quelli in capo agli organi nazionali, i quali devono facilitare le Istituzioni UE nell’assolvimento dei loro compiti, contribuire a realizzarne gli obiettivi, garantire la piena effettività del diritto comunitario.

[79] Op. Ult. Cit., p. 510, ove si richiama CGE 18 luglio 2007, Causa C-119/05.

[80] Corso, op ult. Cit., p. 308.

[81] Cons St., IV, 29/5/2009, n. 3371, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2009, p. 1269. In tal caso, si può parlare di ultrattività della R. amministrativa. Occorre solo porre attenzione alla circostanza che, qualora venga adottato un atto di convalida, diretto, cioé, ad evitare l’annullamento dell’atto impugnato, al fine di conservarne gli effetti fin dalla sua emanazione, la sua efficacia non potrà essere retroattiva ove l’atto impugnato, oggetto di convalida, incida sfavorevolmente su diritti soggettivi del ricorrente o di altri soggetti, salva l’eccezione, anche per quest’ultimo aspetto, prevista dall’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249 (Cons. Stato, V, 22 giugno 1996, n. 789, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 1996, p. 1932).

[82] Sul procedimento amministrativo, tra gli altri, si vedano: oltre alla manualistica in genere, A cura di V. Italia-M. Bassani, “Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti”, Milano, 1995; AA.VV, “La disciplina generale del procedimento amministrativo. Atti del XXXII Convegno di studi della scienza dell’amministrazione di Varenna, 18-20 settembre 1986”, Milano, 1989; G. Arena, “Trasparenza amministrativa”, in EGT, XXXI, Roma, 1995; G. Morbidelli, “Il procedimento amministrativo”, in AA.VV, “Diritto Amministrativo”, a cura di L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco, F.G. Scoca, Bologna, 2005; V. Cerulli Irelli, “Corso di diritto amministrativo”, Torino, 2000; F. Benvenuti, “Funzione amministrativa, procedimento, processo”, in RTDP, 1952, 118, ss.

[83] A. M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1959, p. 419 “Ogni provvedimento, per qualsiasi aspetto che riguardi la sua essenza, la struttura o i requisiti, deve essere sottoposto alla legge del tempo in cui è posto in essere”.

[84] G.D. Comporti, Tempus regit actum. Contributo allo studio del diritto intertemporale dei procedimenti amministrativi, Torino, 2001. P.L. Portaluri, “La regola estrosa: note su procedimento amministrativo e jus superveniens” Testo rivisto della relazione presentata al 7° Convegno nazionale della Società Italiana degli Studiosi del Diritto civile (SISDiC) svoltosi a Capri il 12-13-14 aprile 2012 su Diritto intertemporale e rapporti civilistici.

[85] L. Lo Biundo, “Il principio tempus regit actum e la tutela delle posizioni soggettive nel procedimento amministrativo”, 2008, in www.diritto.it.

[86] Cons. St., 14/1/1997, n. 25, in “Foro Amministrativo. Il consiglio di Stato”, cit. 1997: le situazioni giuridiche compiute sono dunque intangibili “in base al principio di irretroattività delle leggi e di esigenze di economia dell’azione amministrativa”. La decisione è riferita ad un concorso pubblico per l’accesso ai pubblici impieghi. V.di pure la giurisprudenza citata in R. Garofoli – G. Ferrari “Manuale di diritto amministrativo”, 2008, pp. 411-2.

[87] P.L. Portaluri, “La regola estrosa:note su procedimento amministrativo e jus superveniens”, cit. p. 2, riporta Tar Mi n. 5468/2007, rinvenibile pure in www.giustizia-amministrativa.it. L’A. evidenzia come la normativa ritenuta applicabile sia quella non relativa alla fase conclusiva del procedimento, ma quella dell’avvio procedimentale, con applicazione del principio tempus regit actionem, essendo volta a tutelare maggiormente gli interessi della ricorrente lesa da una condotta omissiva dell’amministrazione. Altro esempio in Cons St., n. 445/2012, sempre riportato da Portaluri, op. cit., p. 3.

[88] Ci si riferisce, in particolare, alla conferenza di servizi. Secondo la posizione maggioritaria della dottrina e della giurisprudenza, la conferenza di servizi non è un organo collegiale (Cons. St, V, 25 gennaio 2003, n. 349, in www.giustizia-amministrativa.it), né costituisce un ufficio speciale della pubblica amministrazione autonomo rispetto ai soggetti che vi partecipano, ma solo un “modulo procedimentale” peculiare rispetto allo svolgimento ordinario delle procedure (Cons. St., IV, 9 luglio 1999, n. 1193, ibidem) o “un modello organizzatorio della gestione di determinate procedure complesse” (Cons. St, IV, 15 febbraio 2005, n. 2107; Id., IV, 7 maggio 2004, n. 2874, ibidem). Con tale modulo procedurale, utilizzabile solo con riguardo a dati ambiti gestionali, si consente, appunto, l’esame contestuale e coordinato di tutti gli interessi pubblici coinvolti in un determinato procedimento principale, attraverso la trattazione contemporanea del medesimo affare da parte di una pluralità di soggetti pubblici, al fine di accelerare i tempi complessivi di svolgimento delle procedure e di definizione delle stesse attraverso l’emanazione del provvedimento finale. La decisione collegiale di tipo istruttorio della conferenza costituisce, pertanto, solitamente un atto endoprocedimentale ‘a contenuto consultivo’: deve quindi precedere l’emanazione del provvedimento finale.

[89] Cons St., 21 dicembre 1995, n. 287, in “Foro Amministrativo. Cit.”, 1995: “ancorche´ una deliberazione dell’Unita` sanitaria locale non abbia carattere conclusivo del procedimento di attribuzione della qualifica, definito solo a livello di variazione dei ruoli nominativi regionali, persiste l’interesse all’annullamento di essa qualora la contestata modifica della decorrenza non sia stata ancora trasposta nei ruoli nominativi regionali per cui non si sono verificate preclusioni in capo ai ricorrenti per effetto della sopravvenuta inoppugnabilita` degli atti conseguenti a quello impugnato. La circostanza della mancanza di una decorrenza nelle delibere di reinquadramento non preclude, per la loro funzione sostitutiva ed il carattere di provvedimenti anche di autotutela, pur in difetto di previsione espressa, la retroattivita` coordinata all’efficacia delle delibere sostituite (fattispecie di reinquadramento di personale, in diverse posizioni funzionali, ad integrazione e/o rettifica di precedenti provvedimenti annullati)”.

[90] Su cui si rinvia a M.S. Giannini , “Diritto Amministrativo”, cit.

[91] Si veda, ad es., V. Tenore, “L’ispezione amministrativa e il suo procedimento”, Giuffré, 1999, pp. 99 ss.

[92] Il principio è stato ribadito di recente con riguardo ad un atto introduttivo di prestazioni imposte: le previsioni di cui al d.m. 1º agosto 1996 (recante il metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato), sul collegamento della tariffa con il primo esercizio annuale del servizio idrico integrato e sulla copertura dei costi di investimento e di esercizio non doverosa tempestività nei relativi accertamenti, ma non introduce deroga quanto al principio di irretroattività della prestazione imposta (Cons. St., VI, 9/9/2008, n. 4301, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 2008, p. 2444.

[93] Si ricordi infatti che anche rispetto a dati atti retroattivi per natura ciò che vi è di discrezionale o, addirittura, di opportuno e/o conveniente sta alla base della scelta di operare mediante tali atti ovvero mediante atti di natura diversa (si veda l’esempio fatto circa l’attività di accertamento), salvi ovviamente divieti o precetti espressi di legge.

[94] Cons St., V, n. 1146 del 21 settembre 1996, in “Foro Amministrativo. Consiglio di Stato”, 1996, p. 2627: nel presente caso, l’amministrazione aveva escluso la retroattività a fini economici del provvedimento “per carenza di copertura finanziaria”, ma non quella a fini giuridici. Il GA ha giudicato legittimo l’atto: poiché “l’Amministrazione, pur non avendo alcun obbligo al riguardo, ha ritenuto di attribuire all’appellante ora per allora la qualifica di farmacista coadiutore, all’evidente scopo di farle conseguire i relativi miglioramenti economici per lo status di pensionata, nel frattempo acquisito. Tenuto conto dei princıpi enunciati dalla giurisprudenza, e sopra riportati, non può ritenersi contraddittorio o ingiusto il provvedimento che ha reinquadrato l’ex dipendente ai soli fini giuridici”.

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