Amministrativo

Abuso del diritto: i recenti orientamenti giurisprudenziali

Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 27/04/2015 n° 2064

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Se da un lato è vero che il titolare di una posizione  giuridica soggettiva è libera sul se attivare o meno la propria pretesa, libertà tutelata dall’ordinamento è pur vero che tale libertà ha subito lo scorso secolo una rilettura in chiave di rilevanza sociale. Non vale più , dunque, il principio qui suo jure utitur neminem laedit[1], di stampo liberale la valorizzazione degli obblighi di solidarietà sociale e di civile convivenza, da cui sorge il c.d. abuso del diritto. Formulazione quest’ultima che ha suscitato non pochi dibattiti, definita da parte di autorevole dottrina un vero e proprio ossimoro[2]. È stato quindi necessario trovare il modo di rendere possibile la convivenza tra libertà ed abuso[3] [4]. La teorica dell’abuso della libertà contrattuale nasce e si sviluppa dunque a fronte dell’abbandono della visione liberale classica dei rapporti economici e per l’ormai inadeguatezza del principio di eguaglianza formale a garantire la giustizia del contratto[5] L’abuso è senza dubbio un limite esterno alla libertà ed è uno strumento proprio della giurisprudenza utilizzato per dare “coerenza esterna al sistema nel suo complesso considerato”[6].

L’abuso del diritto, quindi, si presenta strettamente correlato ai principi di buona fede e di correttezza, quasi riportando il sistema alla definizione di Celso per cui il diritto era “ars boni et equi” ed il suo oggetto avrebbe necessariamente dovuto tendere all’aequitas, ossia al raggiungimento della migliore soluzione possibile in concreto (e, aggiungiamo non contrastante, nemmeno indirettamente, con l’ordinamento ed i suoi principi)[7].

In realtà, l’esigenza di definire i contorni del diritto, perché il suo utilizzo non divenisse contrario ai principi dell’ordinamento, era presente già in Platone (Politico) e Aristotele  (Etica Nicomachea) che individuarono nell’equità il correttivo del giusto legale, esperienza che nel diritto romano troveremo nel concetto di bona fides. In realtà il concetto di abuso del diritto non è entrato in modo evidente e marcato nel nostro codice civile, anzi, l’epoca illuministica ne ha compromesso, direi definitivamente la sua positivizzazione. Infatti nell’esperienza illuministica il giudice era bouche de la loi, ovvero strumento della volontà legislativa non lasciano dunque alcun spazio a strumenti correttivi extra ordinem. Nel  codice del 1865 non troveremo quindi alcuna traccia dell’abuso del diritto; anzì vi fu chi definì l’abuso del diritto

fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica, e ciò per la contraddizion che nol consente[8].

Anche nel codice civile del 1942 è rimasto assente l’espressione di un principio generale di abuso del diritto. Pur essendoci stata discussione sul punto, i codificatori, al fine di non indebolire il principio della certezza del diritto con una clausola generale come quella dell’abuso del diritto, hanno deciso di non inserire, nella stesura definitiva del Codice civile del 1942, l’art. 7 del progetto preliminare secondo il quale 

nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto.

La questione non fu però ignorata, il legislatore  ha preferito inserire nel codice vigente disposizioni specifiche con cui sanzionare l’abuso in relazione a determinate categorie di diritti: l’abuso della potestà genitoriale - art. 330; abuso dell’usufruttuario - art. 1015; abuso della cosa data in pegno da parte del creditore pignoratizio - art. 2793. Ci sono poi disposizioni di maggior portata applicativa quali l’art. 833, concernente il divieto di atti emulativi, impiegato come norma di repressione dell’abuso dei diritti reali in genere e gli artt. 1175 e 1375 che hanno consentito di disciplinare l’abuso di diritti relativi o di credito.

Queste ultime norme consentono di porre un sindacato sulle scelte e sulle azioni del titolare del diritto relativo, ampliando, la buona fede, l’area della valutazione dei rapporti obbligatori. Appare decisiva la Cassazione civile sez. un.  13 settembre 2005 n. 18128 nella decisione sul potere di esercitare d’ufficio la riduzione della penale ex art. 1384 c.c. secondo cui 

«La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento».

In realtà sino alla sentenza n. 10511/99 C. Cass., la giurisprudenza della Suprema Corte è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d'ufficio. La sentenza n. 10511/99 non trovò tuttavia seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/03) ha confermato l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/03, n. 8813/03, n. 5691/02, n. 14172/00.

Le Sezioni Unite, hanno confermato il principio espresso dalla sentenza n. 10511/99, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/03. La ragione per cui ho ritenuto di dover richiamare in questa sede il dibattito sull’art. 1384 è la motivazione, all’avanguardia, adoperata dalla Corte. La ragione fondamentale individuata dai Giudici è:

…. fondato sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti codistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 cod. civ.).

……

In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può dichiarare d'ufficio purché risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima (Cass. n. 4062/87), senza che per l'accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/86, 4955/85, 985/81), e più di recente Cass. n. 1552/04, secondo cui «La rilevabilità d'ufficio della nullità di un contratto prevista dall'art. 1421 cod. civ. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare "ex actis", ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa», nonché da ultimo Cass. sez. un. 4 novembre 2004 n. 21095.

Per risolvere la questione, la Corte  parte dal tema dell’autonomia contrattuale, ovvero dai suoi limiti.   L'art. 1322 cod. civ. attribuisce alle parti:

a) il potere di determinare il contenuto del contratto;

b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.

Ed ecco i limiti, l'autonomia delle parti deve svolgersi «nei limiti imposti dalla legge», ed il contratto deve essere diretto «a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico».

I limiti tracciati sono soggetti a sindacato del  giudice,

.. che non può riconoscere il diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l'ordinamento giuridico.

L'intervento del giudice in tale casi è indubbiamente esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge.

Se da un lato il legislatore ha lasciato nelle mani dei contraenti la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (se se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private, dall’altro ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia. Così facendo il legislatore

… ha in sostanza spostato l'intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell'accordo - che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l'ammontare della penale - alla sua fase attuativa, mediante l'attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento.

Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre l'accordo ad equità.

La Corte prosegue ricordando che:

Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l'autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella della legge (in tali casi l'accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non è possibile perché non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l'ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia eccessiva, ma che lo sia «manifestamente», ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell'obbligazione.

Il potere di controllo attribuito al giudice non ha la funzione di tutela nell'interesse della parte ma l'interesse dell'ordinamento,

per evitare che l'autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che l'interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso della funzione primaria cui assolve la norma.

Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la penale si pone come un limite all'autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non prefissato ma individuato dal giudice di volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento al principio di equità.

Anche prima dell’intervento delle Sezioni Unite la Cass. 24 aprile 1980 n. 2749, pur non accogliendo la tesi della rilevabilità d’ufficio, affermava che

il potere conferito al giudice dall'art. 1384 cod. civ. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui opera il riconoscimento di essa, mediante l'esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l'interesse del creditore all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale.

Nella sentenza Cassazione civile sez. III  18 settembre 2009 n. 20106  la Corte, definisce il principio della buona fede oggettiva, come  reciproca lealtà di condotta, che deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Da tali assunti , prosegue la Corte, tra la conseguenza che

la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).

Già la Cass. 15.2.2007 n. 3462 aveva rilevato che l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza è,

un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica. Una volta trasfigurato il principio della buona fede sul piano cosituzionale diviene una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Il criterio della buona fede costituisce quindi strumento, per il giudice, per controllare, sia in senso modificativo che integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. Daltrone il criterio della reciprocità lo si desume già dalla Relazione ministeriale al codice civile: il principio di correttezza e buona fede, 

richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore.

In sintesi, dice la Corte,

disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.

Pregio della sentenza in commento è di aver individuato che:

Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto.

A tal fine individua gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto che sono:

1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;

2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;

3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico;

4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

L'abuso del diritto, non è una violazione in senso formale, ma delinea una utilizzazione alterata dello schema formale del diritto,

finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.

E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.

Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.

E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

La Corte ribadisce che nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto per le ragioni storiche già trattate, tuttavia rileva che:

in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità.

principio ribadito in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). In materia societaria è stato posto il  sindacato,  l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere si trattava di una deliberazione per lo scioglimento della società), ritenendo principio dell’ ordinamento,

anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).

In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003 n. 9353).

Il caso concreto appena citato mostra ancora una volta come il dover ricorrere a divieto di abuso del diritto come principio generale non consente di ricostruire un comportamento a contenuto prestabilito, ma si pone esclusivamente  come limite esterno all'esercizio di una pretesa, per contemperare  degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387).

Sempre in materia societaria l’istituto dell'abuso del diritto è servito a esaminare l'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie da parte del socio ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), nonché il fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).

Nell'ambito, dei rapporti bancari è stato in più occasioni ribadito, in virtù del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, seppur pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642).

Resta pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell'esecuzione dei contratti secondo buona fede (art. 1375 c.c.), alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca del rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; connotati tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto, e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un'apertura di credito viene normalmente convenuta.
Ma la verifica, in concreto, dell'eventuale contrarietà a buona fede del recesso - non diversamente, d'altronde, da quella in ordine all'esistenza di una giusta causa, ove la legittimità del recesso sia da questa condizionata - è rimessa al giudice di merito, la cui valutazione al riguardo, se sorretta da congrua e logica motivazione, si sottrae al sindacato della cassazione. (Cass. 21.5.1997 n. 4538).

In riferimento ai rapporti di conto corrente, pur  in presenza di una clausola negoziale che consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la Cassazione ha ritenuto che la contestazione sollevata dal cliente per l’intervenuta compensazione, senza una pronta informazione e le intervenute conseguenze pregiudizievoli, impongono al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto ed riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni in caso di violazione (Cass. 28.9.2005 n. 18947).

… secondo il più recente orientamento di questa Corte, «come si legge nella Relazione al codice civile, (...) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore" (ivi, p. 558). Esso opera, quindi, come un criterio di reciprocità che, nel nuovo quadro di valori introdotto dalla Carta Costituzionale, costituisce specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" tutelati dall'art. 2 cost. (...): la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge» (per tutte, Cass., n. 12310 del 1999; n. 20399 del 2004; n. 14605 del 2004; n. 5240 del 2004).

Gli stessi principi sono stati applicati, al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; Cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Tale orientamento venne fatto proprio dalle Sezioni Unite, con due sentenze dell'anno 1989 (n. 1611 e n. 1907). In adesione alla tesi tradizionale, le Sezioni Unite hanno affermato che nella vendita con patto di riscatto o di retrovendita a scopo di garanzia questa assurge a causa del contratto, poichè il trasferimento della proprietà trova il suo fine nella garanzia. Tale causa, tuttavia  è incompatibile  con quella della vendita, in quanto:

il versamento del denaro non costituisce pagamento del prezzo, ma esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non integra l'attribuzione al compratore, bensì l'atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, in quanto suscettibile di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno.

La provvisorietà costituisce dunque, l'elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale concreta, indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l'art. 2744 c.c.: le parti invero, adottando uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, realizzano un'ipotesi di contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c). In senso conforme si è espressa la sent. n. 2126-91.

Tale fattispecie  è sanzionabile con la nullità, dal momento che la vendita con patto di riscatto (o di retrovendita) risulta inserita in una operazione contrattuale più ampia, che vede il rapporto credito-debitorio tra venditore ed acquirente, impiegato  non al trasferimento della proprietà, bensì a rafforzare il vincolo di  subordinazione e di accessorietà rispetto al mutuo, e facilitare l’acquisizione della proprietà del bene in mancanza di pagamento del debito garantito, risultato vietato dall'art. 2744 c.c.. le Sezioni Unite danno particolare rilevanza  all'analisi degli elementi sintomatici idonei a denunciare la sussistenza di una operazione fraudolenta del tipo delineato.

Al riguardo, più che l'indagine sull'atteggiamento soggettivo delle parti (valorizzata dalla sent. n.3800-83, non seguita, sul punto, dalle Sezioni Unite), sarà utile l'accertamento di dati obiettivi, quali la presenza di una situazione credito-debitoria (preesistente o contestuale alla vendita), e, soprattutto, la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia, di regola presente nelle fattispecie in esame e costituente significativo segnale di una situazione di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore, che tende ad acquisire l'eccedenza di valore, così realizzando un abuso che il legislatore ha voluto espressamente sanzionare.

La Corte rileva comunque che deve escludersi l'illiceità delle garanzie che prevedono un trasferimento di proprietà,

qualora queste siano integrate da schemi negoziali che il menzionato abuso escludono in radice, come avviene nel caso del pegno irregolare (art. 1851 c.c.), del riporto finanziario e del c.d. patto marciano, in virtù del quale al termine del rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito. La ratio del divieto posto dall'art. 2744 c.c. risulta quindi desumibile argomentando a contrario dalla liceità delle figure ora menzionate.

Non assume alcuna rilevanza la sproporzione tra entità del credito e valore del bene, in quanto il legislatore (in relazione all'art. 2744 c.c.), nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto commissorio, ha la liceità della pretesa del  creditore a pretendere una garanzia eccedente l'entità del credito.

Appare quindi corretto ritenere che la sussistenza di una sproporzione tra valore del bene ed entità del credito possa offrire, in sede di indagine, uno degli indizi di maggior peso (sent. n. 736-77, in motivazione; sent. n. 776-60, in motivazione; sembrano invece svalutare tale elemento indiziario le sentenze n. 1611 e 1907 del 1989 delle Sezioni Unite, che peraltro richiamano proprio la sent. n. 736-77).

E non giova argomentare dalla disciplina generale dettata dall'art. 1448 c.c., per desumerne la sanzionabilità della sproporzione tra prestazioni soltanto mediante l'azione di rescissione, poiché resta da dimostrare la assoluta coerenza del sistema sanzionatorio previsto dal codice civile, nel quale si rinvengono ipotesi di tutela del contraente debole mediante l'irrogazione della nullità (artt. 1341, 1815, comma 2), e può opporsi che l'art. 2744 c.c. esprime una specifica valutazione legale di riprovevolezza del patto commissorio, in virtù della sua intrinseca elevata potenzialità - per frequenza di impiego e facilità di realizzazione - a determinare il rischio (presunto) di produrre effetti che l'ordinamento non consente, e che si risolvono, in definitiva, in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità patrimoniale per il debitore. (Cass. 16.10.1995 n. 10805)

La Cassazione civile sez. III  18 settembre 2009 n. 20106  lascia un insegnamento essenziale per un nuovo approccio al mondo del diritto:

Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.
In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.

A tale principio trova un allineamento in  Cassazione civile sez. III  10 novembre 2010 n. 22819   in relazione alla levata di protesto prima dello spirare dell’ultimo giorno utile:

Al riguardo mette conto rilevare che i reiterati richiami del codice alla correttezza come regola alla quale il debitore e il creditore devono improntare il proprio comportamento (art. 1175 cod. civ.), alla buona fede come criterio informatore della interpretazione e della esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 cod. civ.), e all'equità, quale parametro delle soluzioni da adottare in relazione a vicende del rapporto non contemplate dalle parti (art. 1374 cod. civ.), fanno della correttezza (o buona fede in senso oggettivo) un metro di comportamento per i soggetti del rapporto - e un binario guida per la sintesi valutativa del giudice - il cui contenuto non è a priori determinato, ma necessita di adattamento con riferimento, di volta in volta, agli interessi in gioco e alle caratteristiche del caso specifico. In sostanza il generale principio etico-giuridico di buona fede nell'esercizio dei propri diritti e nell'adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è l'interfaccia, giocano un ruolo fondamentale e in funzione integrativa dell'obbligazione, assunta dal debitore, e quale limite all'esercizio delle corrispondenti pretese.

Autorevole dottrina ha rilevato come le citate norme arricchiscano il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, con l'estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di cooperazione, di informazione), che,

in relazione al concreto evolversi della vicenda negoziale, vanno in definitiva a individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti hanno inteso raggiungere.

Il criterio della buona fede assume rilevanza non solo come strumento di controllo per il giudice, sia in senso modificativo o integrativo dello statuto negoziale, per garantire, e nel caso,  ripristinare un equilibrio degli opposti interessi (Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106), ma anche  

come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, limite idoneo a concorrere alla conformazione, in senso ampliativo o restrittivo, rispetto alla fisionomia apparente del patto negoziale, dei diritti, e degli obblighi da esso derivanti, affinchè l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso l'inderogabile dovere di solidarietà presidiato dall'art. 2 Cost. repubblicana (Cass. civ. 20 aprile 1994, n. 3775).

Da tale assunto è dunque rilevabile che uno dei profili del principio della  correttezza è il dovere di ciascun contraente  di tutelare l'utilità e gli interessi dell'altro, purchè non generi un  apprezzabile sacrificio di altri valori.

In tale prospettiva la giurisprudenza di questa Corte ha anche di recente ribadito che il principio di correttezza e buona fede - il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore" deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, costituzionalmente garantito, che, operando con criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dagli specifici obblighi contrattuali o legali, sicchè dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sè, un danno risarcibile (confr. Cass. civ. 1^, 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. civ. sez. un. 25 novembre 2008, n. 28056).

Che la questione dell’abuso del diritto sia di interesse sempre più evidente lo dimostra la trasversalità dell’istituto la sua attualità ed extraterritorialità. Del principio dell'abuso del diritto è stato, ne è stato fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). il seguente passaggio della Cassazione civile   sez. trib.   21 gennaio 2015   n. 961 ne è un esempio tangibile:

Inoltre, quanto alle controversie in materia di IVA, quale è in parte quella odierna, va ricordato che esse sono soggette a norme imperative dell'UE, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall'art. 2909 c.c., e dalla eventuale sua proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, ove gli stessi impediscano - secondo quanto stabilito dalla Corte di giustizia sul caso Olimpiclub - la realizzazione del principio di contrasto dell'abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza Eurounitaria come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema armonizzato di imposta (abanks=0&Pagina=0">Cass. 16996/2012; conf. tra le tante 16481- 16480-16479-5972-4631-653/2014, 10781/2013, 12249/2010). Ciò comporta che, a parte le considerazioni sopra svolte sul giudicato tributario in generale, soltanto il giudicato pienamente rispondente alle norme imperative Eurounitarie in tema di IVA può produrre efficacia espansiva (Cassazione civile   sez. trib.   21 gennaio 2015   n. 961). 

L’ abuso del diritto nell'ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali (Cassazione civile sez. un.  23 dicembre 2008 n. 30055; sentenza n. 25374/08).

Quanto sopra valorizza il principio per cui non omne quod licet, honestum est. È necessario tuttavia distinguere tra abuso del diritto e eccesso dal diritto: in entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un eccesso nell’agere con la differenza che l’abuso è apparentemente conforme al contenuto del diritto[9]. Mentre in caso di eccesso dal diritto lo sconfinamento dal contenuto del diritto è di immediatamente rilevabile in quanto non conforme al precetto normativo[10]. E’ necessario adesso procedere alla distinzione tra abuso nel contratto, che si realizza allorquando ci si trova di fronte ad una asimmetria nella forza contrattuale che genera abuso da parte dell’un contraente nei confronti della’altro e l’ipotesi di abuso del contratto[11] che si realizza quando entrambe le parti cocnorrono nell’abuso per ledere i terzi creditori. È evidente che i due tipi di abuso sono differenti e solamente nel primo tipo abbiamo l’approfittamento della propria supremazia economica tale da generare sopraffazione. Nell’ abuso unilaterale il potere economico integra il presuppostone la condizione    dell’abuso[12]. L’abuso del diritto, è invece l’effetto giuridico in quanto presuppone una situazione giuridica già esistente ed  anomala  per l’uso dei poteri esercitati dal titolare.

Il giudizio di meritevolezza del diritto viene effettuato non più solo alla stregua dell’assetto volontaristico dato dalle parti, ma molto più ampiamente, utilizzando, quale tertium comparationis, l’ordinamento stesso con i suoi principi ed i suoi valori (Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1518).

Anche il contratto tipico, di per sé già meritevole di tutela, resterà comunque soggetto a sindacato in ordine all’equilibrio concreto e conseguentemente alla funzione che viene nei fatti a perseguire[13]. Nell’ambito dell’autonomia privata è quindi necessario trovare un bilanciamento tra l’iniziativa economica privata – art. 41 Cost. e il dovere solidaristico nei rapporti interosggettivi ex art. 2 Cost.. La Sentenza n. 103 del 1989 della Corte Costituzionale afferma:

risulta notevolmente diminuito lo ius variandi del datore di lavoro, mentre proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all'art. 41 Cost., il potere di iniziativa economica dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento ed in specie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana

Ecco allora, che una condotta legittima può essere comunque fonte di responsabilità. È ciò che è accaduto in un caso di disparità di trattamento che pur non configurandosi come "discriminazione" nell'ambito delle norme positive - costituzionali ed ordinarie - esistenti, poiché il principio dell'autonomia e della libertà di iniziativa imprenditoriale consente al datore di lavoro di riconoscere ad alcuni dipendenti, superminimi o altri vantaggi economici, nell'esercizio di un suo diritto,

una simile condotta, se si appalesa pertanto del tutto legittima nei riguardi dei beneficiari, finisce però per configurare, a causa della violazione dei principi di correttezza e buona fede, una ipotesi di responsabilità contrattuale, con conseguenze di carattere risarcitorio, nei riguardi egli altri dipendenti. (Cassazione civile sez. lav.  08 luglio 1994 n. 6448[14]).

Il “Caso Fiuggi”[15], portò la Suprema Corte ad esprimersi sui limiti esterni all’autonomia contrattaule, ma vediamo il caso. Nel sesto motivo di impugnazione veniva rilevatala violazione e falsa applicazione delle norme sulla interpretazione dei contratti (artt. 1362 e segg. c.c.), sulla esecuzione di buonafede (art. 1375 c.c.) e sull'adempimento (artt. 1218 e segg c.c.), omessa e insufficiente motivazione, per avere la Corte di appello ritenuto legittimo il comportamento dell'Ente Fiuggi, benché "contrario alle pattuizioni contrattuali e comunque di malafede", avendo bloccato, a partire dal 1983, il prezzo di vendita di fabbrica delle bottiglie, malgrado la sopravvenuta svalutazione monetaria e il correlato diritto del Comune (ribadito dal lodo Levi-Sandri del 21 giugno 1982, passato in giudicato) all'adeguamento del canone di affitto (a tale prezzo commisurato), rimasto, invece, fermo, ancorché il prezzo del prodotto fosse stato, nella fase di commercializzazione, corporosamente aumentato dalle società distributrici, appartenenti allo stesso gruppo di cui faceva parte la società affittuaria. Il motivo fu ritenuto fondato.

Ma, ammesso che la legge pattizia attribuisse davvero l'Ente Fiuggi "piena libertà" nel determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, essa non potrebbe, comunque, ritenersi svincolata dall'osservanza del dovere di correttezza (art. 1175 c.c.), che si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequi alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 12 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina intergativamente il contenuto agli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientare l'interpretazione (art. 1366 c.c.) e l'esecuzione (art. 1375), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio.

In conclusione, la continua ricerca dei limiti all’autonomia contrattuale ha consentito di individuare, in concreto, le ipotesi in cui  il diritto viene esercitato in modo abusivo, ovvero oltre i suoi limiti naturali, oltre le finalità per le quali tale diritto esiste e trova una sua garanzia costituzionale. Il divieto di abuso del diritto consente dunque di ricondurre l’agere entro il diritto stesso, perché solo in esso potrà produrre effetti giuridici.

(Altalex, 6 ottobre 2015. Nota di Giampaolo Morini)

_______________

[1] P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, pag, 13ss.; U. BRECCIA, L’abuso del diritto, in AA.VV., L’abuso del diritto, pag. 71.

[2] Rescigno, abuso del diritto pag. 13.

[3] U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 37 ss.; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 13 ss.; S. ROMANO, Abuso del diritto, in Enc. del diritto, I, Milano, 1958, 168 ss.; S. PATTI, Abuso del diritto, in Dig. Disc. Priv., Torino, 1987, 2 ss.; D. MESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. del diritto, Aggiorn. II, Milano,1998, 1 ss.; C. SALVI, Abuso del diritto. I) Diritto civile, in Enc. giur., I, Roma, 1988.

[4] F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, Le obbligazioni e i contratti, I, Obbligazioni in generale. Contratti in generale, Padova, 1999, 143 ss.

[5] F. DI MARZIO, Deroga al diritto dispositivo, nullità e sostituzione di clausole del consumatore, in Contr. e impr., 2006, 704 ss.

[6] Commentario del Codice Civile e codici collegati, Scialoja – Branca – Galgano a cura di Giorgio De Nova, carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea a cura di pasquale Gianniti I diritti fondamentali nell’Unione Europea, la carta di Nizza dopo il Trattato di Lisbona, Zanichelli Roma 2013 pag. 1515.

[7] Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1515.

[8] M. ROTONDI, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105 ss.

[9] U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano.

[10] C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, pag, 85 ss.

[11] F. DI MARZIO, Abuso nella concessione del credito, Napoli, 2004, 122 ss.

[12] F. DI MARZIO, Teoria dell’abuso e contratti del consumatore, pag, 701 ss

[13] Scialoja – Branca – Galgano, op. cit. pag. 1518.

[14] Ex multis: Cass. 9 marzo 1991 n. 2503; Cass. 18 luglio 1989 n. 3362.

[15] Cass. 20 aprile 1994 n. 3775.

Consiglio di Stato

Sezione V

Sentenza 14-27 aprile 2015, n. 2064

N. 02064/2015REG.PROV.COLL.

N. 01722/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.

sul ricorso in appello numero di registro generale 1722 del 2015, proposto da: 

OMISSIS, rappresentata e difesa dall'avvocato Gabriele D'Ottavio, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Ottaviano n. 91;

contro

Comune di Reggio di Calabria in persona del Sindaco in carica, non costituito in questo grado del giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo della Calabria, sede di Reggio Calabria, n. 00425/2014, resa tra le parti, concernente ingiunzione a rilasciare vani scantinati

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 14 aprile 2015 il consigliere Manfredo Atzeni, nessuno presente per le parti;

Visto il ricorso al Tribunale amministrativo della Calabria, sede di Reggio Calabria, rubricato al n. 1158/2004, con il quale la signora Giuseppa Casile, alla quale è succeduta, in corso di causa, la signora OMISSIS, impugnava i successivi atti con i quali il Comune di Reggio Calabria aveva ingiunto lo sgombero di due vani scantinati, identificati con i numeri interni 35 e 36, posti al piano seminterrato della scala F dell’alloggio interno 17 dell’isolato 77 in Reggio Calabria;

Vista la sentenza in epigrafe, n. 425 in data 28 agosto 2014, con la quale il Tribunale amministrativo della Calabria, sede di Reggio Calabria, ha dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado;

Visto il ricorso in appello, rubricato al n. 1722/2015, con il quale la signora OMISSIS chiede la riforma, previa sospensione, della predetta sentenza e la declinatoria della giurisdizione del giudice amministrativo in favore dell’autorità giurisdizionale ordinaria ovvero l’accoglimento del ricorso di primo grado;

Visto l’atto, depositato il 13 aprile 2015, con il quale l’appellante chiede che la causa venga definita mediante sentenza in forma semplificata, in particolare in relazione al motivo di appello con il quale contesta la giurisdizione del giudice amministrativo;

Ritenuta la sussistenza dei presupposti per la definizione della controversia mediante sentenza in forma semplificata;

Ritenuto peraltro che il mezzo con il quale si afferma la giurisdizione dell’autorità giurisdizionale ordinaria sia inammissibile in quanto il ricorso è stato proposto di fronte a questo ordine giurisdizionale ad iniziativa della dante causa dell’odierna appellante (in termini, da ultimo,C. di S., V, 27 marzo 2015, n.1605);

Ritenuto che la sentenza di primo grado debba essere condivisa nella parte in cui dichiara l’inammissibilità del ricorso per la mancata notifica nei confronti del soggetto in favore del quale è stato ordinato, alla dante causa dell’appellante, lo sgombero dei locali di cui si tratta;

Rilevato che il nominativo e la qualità di beneficiario del provvedimento impugnato risulta con chiarezza dall’atto del Dirigente dell’Area legale e contratti n. 45 in data 7 gennaio 2004, per cui lo stesso è parte necessaria del processo;

Ritenuto, in conclusione, di dover confermare la sentenza di primo grado, nella parte in cui dichiara l’inammissibilità del ricorso per l’incompletezza del contraddittorio;

Ritenuto, quindi, di dover respingere l’appello;

Rilevato che, in difetto di costituzione delle parti appellate, non vi è luogo a pronuncia sulle spese

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sul ricorso in appello n. 1722/2015, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Nulla sulle spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.


Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 aprile 2015 con l'intervento dei magistrati:

Mario Luigi Torsello, Presidente

Manfredo Atzeni, Consigliere, Estensore

Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere

Doris Durante, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere
 
L'ESTENSORE  

IL PRESIDENTE 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 27/04/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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