Amministrativo

Considerazioni sulla clausola “a corpo” nelle compravendite immobiliari

Articolo, tratto dalla rivista La nuova giurisprudenza civile commentata, Cedam, segnalazione del 13/02/2018

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Il contributo affronta i problemi a cui l’interprete è chiamato a dare risposta in tema di compravendite immobiliari rispetto alle quali non sembra potersi procedere ad un’automatica applicazione, in via alternativa, ora della disciplina della vendita a misura ora di quella a corpo. Né tantomeno, di fronte ad una clausola con cui le parti affermano che la vendita sia da intendersi a corpo, sembra percorribile la strada di applicare acriticamente la disciplina di cui all’art. 1538 c.c. Tale clausola, infatti, è da ritenersi di mero stile, e dunque non vincolante, tutte le volte che le parti non abbiano inteso stabilire alcun tipo di collegamento tra prezzo ed effettiva estensione del bene.

Compravendite immobiliari a misura e compravendite immobiliari a corpo: spesso è l'interprete a dover chiarire la disciplina applicabile anche tenendo conto della volontà delle parti. un interessante approfondimento di Antonio Musio è stato pubblicato su La nuova Giurisprudenza Civile Commentata, il mensile edito da CEDAM che segue la costante evoluzione del diritto privato sviluppando, attorno al tema della "nuova giurisprudenza" un costante dialogo tra Magistratura, Professione, Università.

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Di seguito pubblichiamo un estratto integrale della rivista.

Sommario

1. Prassi contrattuali e clausole di stile nelle compravendite immobiliari
2. La duplice valenza della descrizione quantitativa del bene: identificazione dell’oggetto e determinazione del prezzo
3. Finalità e fondamento delle norme in tema di vendite immobiliari
4. Critica alla presunta automatica applicabilità delle norme in tema di vendite immobiliari
5. Concreti interessi perseguiti dalle parti e disciplina applicabile

1. Prassi contrattuali e clausole di stile nelle compravendite immobiliari.

È frequente nei contratti di compravendita immobiliare imbattersi in clausole come quelle per cui essa “è fatta con ogni inerente diritto”[1] o “comprende i connessi diritti, accessori e pertinenze”[2] oppure per cui il bene viene venduto “nello stato di fatto e di diritto in cui si trova”[3], “libero da pesi, canoni, vincoli ed oneri pregiudizievoli”[4], “franco e libero da pesi, così come in loco”[5] oppure, ancora, ai sensi delle quali il compratore si accolla le “imposte di qualunque natura e specie”[6] derivanti dal contratto o si preveda una clausola risolutiva espressa redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni di cui alla compravendita[7].

L’effettiva vincolatività di tali previsioni, tuttavia, è stata messa in discussione in più di un’occasione ed esclusa dalla giurisprudenza che ha ritenuto di giudicarle di mero stile e pertanto nulle, attese la loro ripetitività e standardizzazione che non consentivano di poterle considerare realmente volute dai contraenti[8]. In effetti, la conclusione riflette un costante insegnamento giurisprudenziale che esclude l’efficacia di tutte quelle clausole che “si esauriscono in espressioni generiche” e per “l’indefinita ampiezza e l’indeterminata genericità che le caratterizza rivelano la funzione di mero completamento formale dell’atto”[9]. Si tratterebbe, infatti, di espressioni volte a colmare eventuali omissioni ma che rimangono, tuttavia, prive di qualsiasi significato giuridico per via della loro genericità ed indeterminatezza[10]. A mancare, in questi casi, sarebbe per l’esattezza un concreto contenuto volitivo dei contraenti per cui le pattuizioni inserite all’interno del contratto risulterebbero del tutto irrilevanti ai fini dell’intento negoziale perseguito[11].

Su quest’abbrivio, parte della dottrina è giunta a considerare inefficaci di diritto, senza, cioè, che vi sia nemmeno bisogno di dare la prova dell’assenza della volontà delle parti[12], anche le clausole inserite nei contratti da terzi in conformità a prassi costanti e ripetute nel tempo. Ma, in senso contrario, si è rilevato che la non vincolatività della clausola ritenuta di mero stile dovrebbe essere oggetto di specifica prova da parte di colui che intende sottrarsi agli effetti della stessa[13]. A soluzione non dissimile si è pervenuti in relazione ad un’altra pattuizione frequente nelle transazioni immobiliari secondo cui “l’immobile è venduto a corpo e non a misura”[14], principalmente inserita al fine di dare maggiore stabilità al contratto, mettendo al riparo il venditore da eventuali rivendicazioni sul prezzo che potrebbero essere azionabili dal compratore se la vendita fosse qualificabile “a misura”[15]. Si è detto, infatti, che anche tale previsione, se inserita in maniera ripetitiva e sganciata dal contesto nel quale viene collocata, senza alcun effettivo riscontro nella determinazione dei contraenti relativa al negozio in questione, si riduce ad una vera e propria clausola di stile, come tale, improduttiva di effetti. Di qui il ruolo crescente ascritto all’interprete è di ricostruire l’effettiva volontà delle parti in merito all’esistenza o meno di un collegamento più o meno intenso tra l’estensione del bene e il prezzo di vendita onde accertare se realmente nelle vendite dichiarate a corpo sia dato riscontrare dal complessivo assetto contrattuale una sia pur vaga relazione tra il prezzo di acquisto e la misura del bene venduto.

2. La duplice valenza della descrizione quantitativa del bene: identificazione dell’oggetto e determinazione del prezzo.

L’indicazione della misura è, a rigore, necessaria – com’è noto – nella sola vendita di cosa generica, non essendo invece essenziale nella vendita di cosa specifica. Quando, infatti, le parti compravendono un immobile, di norma, considerano l’oggetto del loro contratto una cosa specifica, per cui la descrizione quantitativa del bene in linea teorica non dovrebbe aver alcun rilievo[16]. In effetti, nella vendita di cosa specifica la misura non costituisce elemento essenziale per la identificazione dell’oggetto[17], a meno che non si tratti di una vendita di una porzione di immobile a distaccarsi da una maggiore consistenza[18]. In questi casi, nei quali la compravendita è da taluno denominata “a misurazione”[19], l’indicazione della misura serve a conferire determinatezza all’oggetto del contratto e, quindi, validità allo stesso.

Di là di tale ipotesi, tuttavia, la descrizione quantitativa dell’immobile, ancorché non necessaria, è comunque assai frequente e risponde, al fine di una migliore precisazione delle sue caratteristiche ovvero della esatta determinazione del prezzo. Solo in tale eventualità trova applicazione la disciplina sulle vendite a misura e a corpo di cui agli artt. 1537-1541 cod. civ. in quanto sussiste l’intenzione delle parti di concludere un contratto in cui il prezzo sia in modo più o meno intensamente correlato all’estensione del bene[20].

Nella vendita a misura, infatti, tale collegamento è particolarmente stringente, atteso che le parti dimostrano di voler mantenere una esatta proporzione tra l’indicazione del prezzo pattuito e la effettiva misura del bene; esso, al contrario, manca qualora il contratto non contempli alcun riferimento alle dimensioni dell’immobile, magari perché il bene in questione è già sufficientemente determinato[21] oppure perché le parti non hanno precisato né il prezzo globale dell’operazione, né l’estensione complessiva del bene, ma si sono limitate ad indicare il prezzo per ogni unità di misura[22].

In tali ipotesi ben potrebbe ricorrere una vendita a corpo nella quale il legame tra costo e misura dell’oggetto del contratto risulta attenuato, atteso che il legislatore ritiene tollerabile l’errore sull’estensione del bene se contenuto entro il limite del ventesimo. L’art. 1538 cod. civ. è, infatti, fondato sul presupposto che i contraenti pattuiscono il prezzo, avendo presente l’immobile nella sua individualità e nella sua estensione. La prima assume rilievo prevalente quando l’errore della misura sia lieve, non essendo ammessa alcuna modificazione del prezzo, mentre il suo valore si attenua e si amplifica quello legato alle dimensioni quando la divergenza tra la misura reale e quella erroneamente indicata in contratto raggiunge la percentuale del 5%.

Decisa si rivela al riguardo la volontà delle parti che se omettono ogni riferimento alla misura dell’immobile, dimostrano di non aver voluto attribuire alcuna importanza a tale circostanza, lasciando la determinazione del prezzo del tutto svincolata dalla quantità trasferita[23]. E così, qualora i contraenti, senza far alcun riferimento ai metri quadri, si limitino a precisare i confini o altri segni che valgano a distinguerli, deve ritenersi che essi abbiano inteso prescindere dalla reale estensione del bene[24].

In ogni caso, la sola precisazione della misura dell’immobile non è condizione sufficiente per l’invocabilità dell’art. 1538 cod. civ.[25]. Se, infatti, i contraenti abbiano avuto riguardo solamente all’individualità ed all’unità della cosa, contemplando la misura a meri fini descrittivi, l’errore su quest’ultima indicazione non consentirà l’operatività dei rimedi previsti per la vendita a corpo[26].

3. Finalità e fondamento delle norme in tema di vendite immobiliari.

Le norme codicistiche in tema di vendite immobiliari sono state, dunque, concepite al fine di giungere ad una corretta determinazione del prezzo pattuito dopo che le parti abbiano condotto un’indagine di natura quantitativa sull’immobile compravenduto. Esse presuppongono, cioè, che l’immobile sia stato consegnato in tutta la sua effettiva quantità, ma che tra questa e quella erroneamente ritenuta dai contraenti, o almeno da uno di essi, al momento della conclusione del contratto esista una differenza. In definitiva, il legislatore non ha inteso in tale ipotesi sanzionare l’inadempimento di una delle parti, ma si è limitato a regolare le conseguenze della oggettiva difformità tra le determinazioni identificative del bene oggetto di compravendita e la reale consistenza di quest’ultimo in ragione del prezzo pattuito e ciò indipendentemente da comportamenti colpevoli[27]. E così le questioni relative alle dimensioni degli immobili compravenduti non giustificano il ricorso ai rimedi della risoluzione del contratto e del risarcimento del danno, dando solo diritto ad una rettifica del prezzo o, nei casi più gravi, ad un recesso dal contratto[28]. Tale soluzione pare fondarsi sull’assunto che, al fine dell’esperibilità delle suddette azioni speciali, gli artt. 1537 cod. civ. ss. già prendono in considerazione la colpa del venditore, consistente nell’errore di calcolo nel quale egli è incorso all’atto della conclusione del contratto[29].

Naturalmente discorso diverso deve svolgersi quando il venditore abbia garantito la misura esatta del bene, non trovando applicazione in questo caso le norme in tema di vendite immobiliari[30]. Ad analoga conclusione deve pervenirsi qualora il compratore si sia determinato ad acquistare l’immobile in considerazione della estensione dichiarata dal venditore in contratto, in quanto indispensabile ai fini dell’utilizzo che l’acquirente intende fare del bene[31]. In tale ipotesi, qualora l’estensione dichiarata risulti alla prova dei fatti minore di quella effettiva, viene meno la presunzione relativa che l’ordinamento pone a garanzia della stabilità del contratto di vendita immobiliare e per la quale le difformità riscontrate non producono la normale conseguenza dell’annullabilità prevista per l’errore sulla quantità[32].

La disciplina codicistica della vendita di cose immobili trova applicazione, però, in fattispecie assai differenti tra loro[33], alcune delle quali effettivamente riconducibili ad un errore di calcolo ed altre non affatto riferibili a tale categoria ma che, ciononostante, vengono attratte alla medesima disciplina[34]. L’insoddisfazione lasciata dalle varie teorie che hanno tentato di ricostruire il fondamento della disciplina della materia, compresa quella senz’altro maggioritaria che la riconduce all’errore di calcolo, induce, tuttavia, a ricercare altrove il reale fondamento della normativa prevista dal codice civile per le vendite a misura e a corpo. A tal fine occorre partire innanzitutto dalla considerazione che gli articoli da 1537 a 1541 cod. civ. mirano a regolamentare la relazione intercorrente tra la misura dell’immobile compravenduto e il prezzo di tale bene per evitare che, una volta stabilita la base economica dello scambio, questa possa risultare alterata a danno di uno dei contraenti[35].

In quest’ottica la ratio della disciplina in esame sembra riposare piuttosto sul principio di proporzionalità sol che si rifletta, da un canto, sul tipo di azioni predisposte dal legislatore a tutela degli interessi sottesi al contratto e, dall’altro, sui presupposti necessari per la loro concreta esperibilità[36]. I rimedi della rettifica del prezzo e del recesso dal contratto, in effetti, sembrano funzionalizzati al recupero della proporzione tra le prestazioni, venuta, poi, a modificarsi a causa di una differenza quantitativa non imputabile né al compratore né al venditore. La funzione reale degli artt. 1537 ss. cod. civ. parrebbe, pertanto, essere proprio quella di garantire ai contraenti di mantenere quell’equilibrio, o meglio, quella proporzione tra le prestazioni, sulla base della quale essi avevano ritenuto congruo il valore dello scambio[37].

4. Critica alla presunta automatica applicabilità delle norme in tema di vendite immobiliari.

Le norme di cui agli artt. 1537 ss. cod. civ. sono invocabili – come detto – solo quando le parti abbiano fatto riferimento alle dimensioni del bene al fine di stabilire una correlazione tra estensione dello stesso e prezzo e non anche per meglio individuare l’oggetto del contratto. La questione relativa alle reali intenzioni delle parti non può però prescindere da una valutazione casistica, rimessa all’interprete, chiamato, di volta in volta, a chiarire il significato e la portata della previsione contrattuale con cui si sia fatto specifico riferimento alla misura dell’immobile[38]. Tuttavia, l’assunto secondo cui i rimedi previsti dagli artt. 1537 ss. cod. civ. possano essere invocati solo in quanto, all’esito di un’indagine sulla volontà dei contraenti, risulti che la considerazione dell’estensione dell’immobile sia stata essenziale nella determinazione del prezzo, è stato variamente criticato in dottrina[39].


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Secondo un primo autorevole orientamento, infatti, una simile ricostruzione apparirebbe difficilmente giustificabile, atteso che la menzione della misura del bene di norma determinerebbe l’applicazione delle richiamate disposizioni codicistiche per via della valutazione tipica fatta dal legislatore secondo cui tutte le volte che vi sia indicazione della estensione del bene, oltre che del prezzo, le conseguenze previste da tali previsioni non potrebbero essere eluse[40]. Di presunzione assoluta discorre anche altra parte della dottrina per la quale, in presenza dell’indicazione della misura del bene, oltre che della determinazione del prezzo, dovrebbe ritenersi che le parti abbiano tenuto conto dell’aspetto quantitativo per la determinazione del corrispettivo della vendita[41]. Allorquando i contraenti facciano riferimento alla estensione dell’immobile e ne fissino il prezzo in modo forfettario dovrebbe, in altri termini, necessariamente trovare applicazione l’art. 1538 cod. civ. la cui operatività potrebbe essere superata solo per effetto di una espressa deroga[42]. Non sarebbe, così, sufficiente desumere l’irrilevanza dell’indicazione della misura dal fatto che l’estensione dell’immobile sia riportata nei dati catastali o con qualche incertezza[43]; come non basterebbero né generiche dichiarazioni di non garanzia circa l’estensione dichiarata dell’immobile, né l’avvertenza che la misura sia stata tenuta in considerazione in modo solo approssimativo, come nell’ipotesi in cui essa sia stata indicata “all’incirca”[44]. Una deroga convenzionale potrebbe, infatti, risultare solo da una espressa dichiarazione di volontà, manifestata in forma scritta[45] o in modo implicito, come nel caso in cui le parti precisino che il contratto resterà vincolante a prescindere dalla effettiva misura del bene[46].

A rigore, però, non sembra corretto parlare di una deroga (espressa o tacita che sia) alle disposizioni di cui agli artt. 1537 ss. cod. civ. allorquando, dall’esame del testo contrattuale, emerga che le parti abbiano considerato del tutto irrilevante, ai fini della determinazione del prezzo, l’effettiva estensione dell’immobile[47]. Invero, sebbene nessun dubbio si pone circa il fatto che le norme relative alla compravendita di beni immobili hanno natura dispositiva e siano, pertanto, derogabili dalle parti[48] (le quali sono quindi libere di prevedere sia che il diritto di rettifica del prezzo o quello di recesso siano esercitabili solo nel caso di divergenza che va oltre un certo limite, sia di escludere del tutto il diritto di rettificare il prezzo o quello di recedere dal contratto qualora si accerti una difformità tra estensione dichiarata e quella reale[49]), non sembra comunque condivisibile la conclusione secondo cui l’interprete deve risolvere la questione sulla base di una presunta deroga alle norme codicistiche in tema di compravendita immobiliare.

Più verosimilmente le norme in esame non troveranno applicazione, qualora risulti accertato che i contraenti non abbiano inteso stabilire una relazione più o meno intensa tra prezzo ed estensione dell’immobile, ma abbiano, di contro, fatto riferimento alla misura dello stesso esclusivamente ai fini di un’ulteriore specificazione del bene. In tal caso, infatti, l’inapplicabilità degli artt. 1537 ss. cod. civ. non dipenderebbe da una deroga a norme dispositive, ma semplicemente dall’assoluta mancanza del presupposto sul quale le stesse si fondano[50].

5. Concreti interessi perseguiti dalle parti e disciplina applicabile.

L’interprete non può, dunque, limitarsi a prendere atto dell’esistenza di un contratto di compravendita immobiliare e applicare automaticamente ad esso, in via alternativa, la disciplina della vendita a misura o quella della vendita a corpo; né tantomeno, di fronte ad una clausola con cui le parti affermano che la vendita sia da intendersi a corpo e non a misura, può propendere acriticamente per l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 1538 cod. civ.

L’indagine che deve compiersi è, infatti, ben più complessa rispetto alla possibilità di optare tra la secca alternativa tra vendita a corpo e a misura. Analogamente l’inserimento di pattuizioni del tutto scollegate o addirittura contrastanti con l’effettiva intenzione delle parti risultante da una complessiva lettura del testo contrattuale non può indurlo a considerare vincolanti clausole che sono, invero, di mero stile.

Non basta, infatti, che una misura sia stata puramente e semplicemente indicata perché si possa concludere per l’operatività degli articoli da 1537 a 1541 cod. civ. Sarà, invece, necessario che tale indicazione sia stata espressa in termini precisi ed univoci, sì da denotare che l’indicata misura sia stata tenuta presente dai contraenti per esprimere la quantità, sia pure approssimativa, del corpo dell’immobile e, al tempo stesso, per la determinazione del prezzo.

Di converso, qualora ad un attento esame della volontà negoziale risulti che una misura è stata indicata non per esprimere, sia pure in via di approssimazione, l’estensione dell’immobile, bensì per altri motivi, come ad esempio per una migliore individuazione dello stesso, non potrà farsi luogo ai tipici rimedi codicistici previsti in tema di vendite immobiliari[51]. L’eventuale indicazione nel contratto della misura del bene, insomma, rende applicabile gli artt. 1537 ss. cod. civ. solo qualora ricorrano i presupposti oggettivi stabiliti dalla legge e non risulti, dall’interpretazione del contratto, la volontà delle parti di considerare del tutto irrilevante l’estensione dell’immobile[52].

Corollario della conclusione è l’impossibilità di considerare la vendita immobiliare necessariamente a corpo o a misura, in quanto la stessa può essere innanzitutto “a misurazione”, come quando l’oggetto del contratto consista in una certa quantità da scorporarsi da un bene di più ampia estensione, oppure addirittura del tutto scollegata da una relazione tra le dimensioni del bene e il prezzo[53]. In queste due ultime ipotesi, dunque, il contratto non potrà essere sottoposto alle conseguenze giuridiche previste dagli artt. 1537 ss. cod. civ.

Quanto, poi, alla prassi di inserire tralatiziamente nei formulari relativi alle transazioni immobiliari la clausola “a corpo”, sembra opportuno operare un distinguo tra le semplici scritture private, da un lato, e gli atti stipulati dinanzi ad un notaio, dall’altro. In effetti, in questa seconda ipotesi appare più difficile riuscire a dimostrare che la clausola non corrisponda alla reale intenzione dei contraenti e ciò soprattutto se si tiene conto dell’obbligo di legge che grava sul notaio di controllare che la volontà delle parti sia effettiva[54]. Inoltre, tenuto conto del principio di conservazione del contratto sancito dall’art. 1367 cod. civ., secondo cui nel dubbio anche la singola clausola deve essere interpretata nel senso in cui essa può avere un qualche effetto, anziché in quello per il quale non ne avrebbe alcuno, dovrà prevalere una sorta di presunzione relativa al fatto che le parti con quella clausola una qualche finalità intendevano perseguire[55].

A rigore, però, non può del tutto escludersi che anche una clausola contenuta in un atto pubblico possa essere giudicata di stile e, pertanto, priva di effetto. Più che una assoluta impossibilità giuridica al riguardo, in effetti, la questione sembra porsi piuttosto su di un profilo probatorio. È, cioè, piuttosto un problema di onere della prova che il contraente interessato all’inefficacia della clausola è tenuto a dare, dimostrando che la pattuizione, sebbene inserita nel testo negoziale, in realtà non era stata voluta da tutte le parti del contratto.

Non sono mancati, infatti, i casi in cui le parti, pur precisando che il prezzo dell’immobile fosse calcolato un tanto in ragione di ogni unità di misura, abbiano sancito, poi, con un’apposita menzione, che la vendita dovesse intendersi conclusa a corpo. Sebbene autorevole dottrina abbia ritenuto che in situazioni del genere dovrebbe comunque prevalere la clausola “a corpo”[56], non può, tuttavia, non osservarsi come qui la volontà delle parti appaia del tutto contraddittoria, al punto da far ritenere più coerente ipotizzare la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto, attesa la mancanza di un elemento essenziale della compravendita quale è il prezzo[57].

Sul tema si segnala:

Codice dei contratti commentato a cura di Alpa Guido, Mariconda Vincenzo, IPSOA, 2017

L’uso della clausola “a corpo”, in definitiva, può in qualche caso essere il frutto di un meccanico richiamo e, dunque, risultare improprio allorquando dall’analisi complessiva del testo contrattuale emerga un’intenzione dei contraenti diversa e inconciliabile con la disciplina di cui all’art. 1538 cod. civ.; situazione che si verifica inesorabilmente se alienante e acquirente nessun tipo collegamento abbiano inteso stabilire tra prezzo ed effettiva estensione del bene.

(Altalex, 13 febbraio 2018)

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[1] Cass., 5.6.1984, n. 3398, in Mass. Giur. it., 1984.

[2] Secondo quanto deciso da Cass., 18.4.2001, n. 5699, in Mass. Giust. civ., 2001: “per la costituzione convenzionale di una servitù prediale non è sufficiente una clausola di stile secondo cui la «vendita comprende i connessi diritti, accessori e pertinenze», essendo indispensabile l’estrinsecazione della precisa volontà del proprietario del fondo servente diretta a costituire la servitù e la specifica determinazione nel titolo di tutti gli elementi atti ad individuarla”.

[3] Sul punto in più occasioni la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “la clausola di mero riferimento allo stato di fatto dell’immobile ha natura di clausola di mero stile del tutto priva di efficacia negoziale, non avendo alcun effettivo riscontro nella volontà dei contraenti al riguardo di limitazioni e servitù gravanti sul bene compravenduto” (Cass., 15.10.1983, n. 6062, in Mass. Giur. it., 1983), così come la stessa pattuizione non vale ad esimere il venditore dalla garanzia per i vizi occulti o comunque non conoscibili dall’acquirente con l’uso dell’ordinaria diligenza (Trib. Monza, 21.2.2005, in www.leggiditalia.it). Di converso la sussistenza di vizi e difformità facilmente riconoscibili, stante la vetustà dell’immobile, oggetto di compravendita, fa sì che la clausola in questione non possa essere ritenuta di stile (Cass., 5.3.2008, n. 5990, in Notariato, 2008, 233). È stato, ancora, puntualizzato che deve ritenersi applicabile anche alla vendita di beni immobili la responsabilità per i vizi di cui all’art. 1669 cod. civ., a meno di una espressa e specifica rinuncia in tal senso, non ravvisabile, però, nella semplice circostanza che il bene sia stato trasferito a corpo e nello stato di fatto e di diritto in cui si trova e si possiede (Cass., 11.6.2014, n. 13223, in Contratti, 2014, 1085, con nota di Toschi Vespasiani, “Nello stato di fatto e di diritto”: le clausole di stile nella prassi immobiliare).

[4] Per Cass., 2.9.2009, n. 19104, in Imm. e propr., 2009, 733, non può ritenersi clausola di mero stile, in quanto idonea ad esprimere la volontà contraria al sorgere di una servitù per destinazione del padre di famiglia, quella con la quale si prevede che il fondo viene trasferito “libero da pesi, canoni, vincoli ed oneri pregiudizievoli”. Allo stesso modo Cass., 1°.12.2000, n. 15380, in Contratti, 2001, 347 ha statuito che “non può ritenersi generica ed indeterminata e pertanto di stile, senza ulteriori argomenti al riguardo, la clausola secondo la quale l’alienante garantisce la libertà del bene da ipoteche, pesi e trascrizioni pregiudizievoli, pur se essa è sintetica e onnicomprensiva”.

[5] Cass., 11.3.1995, n. 2856, in Mass. Giur. it., 1995, ha ritenuto di stile, con riferimento a quanto risulti ictu oculi e sia a tutti visibile come la servitù di elettrodotto, la clausola con cui l’immobile viene trasferito “franco e libero da pesi, così come in loco”.

[6] Non può considerarsi di stile “la clausola non ricorrente nella pratica contrattuale che abbia un contenuto ben determinato (nella specie: accollo al compratore di un terreno delle "imposte di qualunque natura e specie" derivanti dalla compravendita) e sia fornita di preciso collegamento con le altre pattuizioni del contratto” (Cass., 28.7.1983, n. 5203, in Mass. Giust. civ., 1983).

[7] Secondo quanto deciso da Cass., 23.5.1985, n. 3119, in Mass. Giust. civ., 1985, 962 s. “per la configurabilità della clausola risolutiva espressa, le parti devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, costituendo clausola di stile quella redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni contenute nel contratto, con la conseguenza che, in tale ultimo caso, l’inadempimento non risolve di diritto il contratto, ma deve esserne considerata l’importanza in relazione all’economia del contratto stesso, non bastando l’accertamento della sola colpa previsto invece in presenza di una valida clausola risolutiva espressa”. Nello stesso senso cfr. Cass., 26.7.2002, n. 11055, in Giur. it., 2003, 1812; Cass., 6.4.2001, n. 5147, in Rep. Foro it., 2001, voce «Contratto in genere», n. 482.

[8] Cfr. Russo, Le acquisizioni di immobili e di società immobiliari, Cedam, 2009, 303. È stata, invece, considerata non di stile “la pattuizione che impegna il promittente venditore a liberare l’immobile promesso in vendita, entro un termine prefissato, dalle iscrizioni ipotecarie sussistenti al momento del contratto e note al compratore (…), in quanto comporta sostituzione della regolamentazione convenzionale alla disciplina dell’art. 1482 cod. civ. e corrisponde, pertanto, ad un interesse concreto del compratore” (Cass., 12.6.1997, n. 5266, in Giur. it., 1998, c. 426).

[9] Cass., 12.6.1997, n. 5266, cit.

[10] Cass. 5.6.1984, n. 3398, cit.

[11] Come ha chiarito Cass., 30.3.1968, n. 987, in Giust. civ., 1968, I, 1907, devono intendersi di stile quelle clausole presenti nei contratti di compravendita immobiliare “che, per essere espressione di una consueta prassi stilistica (soprattutto degli atti notarili), non possono da sole essere interpretate come espressione di una specifica volontà delle parti; sicché, in quanto non aggiungono nulla al contratto, non assumono alcun valore negoziale rilevante”. Nello stesso senso Cass., 28.7.1983, n. 5203, cit.

[12] Sostanzialmente arriva a presumere una mancanza di volontà di fronte a clausole automaticamente inserite nelle stipulazioni notarili Carresi, Il contratto, nel Trattato Cicu-Messineo, XXI, 1, Giuffrè, 1987, 324. Contra Pardini, Le clausole di stile nel negozio mortis causa, in Riv. notar., 1989, 1107.

[13] Cfr. in tal senso Sicchiero, La clausola contrattuale, Cedam, 2003, 285. In giurisprudenza per tale soluzione si vedano Cass., 3.12.1974, n. 3943, in Rep. Giust. civ., 1974, voce «Obbligazioni e contratti», n. 30; Cass., 9.7.1975, n. 2705, in Rep. Giust. civ., 1975, voce «Obbligazioni e contratti», n. 42; Cass., 11.2.1980, n. 965, in Rep. Foro it., 1980, voce «Contratto in genere», n. 156.

Più in generale sul tema delle clausole di stile cfr. in dottrina i contributi di Cavalieri, Le clausole di stile, in Giur. it., 1957, I, c. 939; Messineo, Considerazioni sulle clausole contrattuali “di stile”, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, 27; Braccini, Le clausole di stile, in Riv. notar., 1962, 494 ss.; Coviello, Appunti sulla clausola di stile nei contratti, in Foro it., 1963, IV, c. 126; Scognamiglio, Dei contratti in generale, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1970, sub artt. 1321-1352, 240; De Cupis, Clausola di stile e vizio della volontà, in Giur. it., 1987, IV, c. 320; Chessa, Brevi note sulla interpretazione della c.d. clausola di stile, in Riv. giur. sarda, 1996, 4 ss.; Simone, La clausola di stile, in Rass. dir. civ., 2002, 339 ss.; Triola, Le clausole di stile, in Vita not., 2003, 648 ss.; Iorio, Clausole di stile, volontà delle parti e regole interpretative. Profili generali, in Riv. dir. civ., 2008, 657 ss.; Id., Clausole di stile, volontà delle parti e regole interpretative. La prassi contrattuale, ivi, 2009, 49; Caputo, Le clausole di stile: casistica ed efficacia, in Imm. e propr., 2009, 366 ss.; Carbone, Le clausole di stile nei negozi giuridici. Interpretazione utile e vizio oggettivo, in questa Rivista, 2015, II, 68 ss.

[14] Il codice distingue tra vendita a misura (art. 1537 cod. civ.), nella quale il prezzo è stabilito in ragione di un tanto per ogni unità di misura, e vendita a corpo (art. 1538 cod. civ.) nella quale, invece, il prezzo è fissato unitariamente, senza stabilire un rapporto di stretta proporzionalità con la dimensione dell’immobile. Tale distinzione rileva nell’ipotesi di divergenza tra la misura dichiarata dalle parti e la reale estensione dell’immobile, in quanto in questo caso potranno operare i distinti rimedi previsti per la vendita a misura e per quella a corpo. Se, infatti, la vendita è stata conclusa a misura la differenza quantitativa permette di pretendere una riduzione del prezzo, da parte del compratore, se l’effettiva estensione sia minore ovvero un supplemento, ad istanza questa volta del venditore, nella opposta eventualità che il bene risulti di fatto più ampio di quello che le parti avevano contemplato nel contratto (art. 1537, comma 1°, cod. civ.), fermo restando – in tale seconda ipotesi – il diritto del compratore di recedere se la maggiore estensione del bene superi di oltre un ventesimo la misura dichiarata in contratto (art. 1537, comma 2°, cod. civ.).

Se, viceversa, la vendita è stata conclusa a corpo, non si potrà procedere ad alcuna diminuzione o maggiorazione del prezzo in caso di difformità quantitativa dell’immobile tra quanto contrattualmente previsto e la effettiva consistenza dello stesso (art. 1538, comma 1°, cod. civ.), a meno che tale divergenza non sia di almeno un ventesimo. Qualora la reale estensione dell’immobile risulti inferiore rispetto a quella dichiarata in contratto nella misura di un ventesimo, il compratore potrà pretendere una proporzionale diminuzione del prezzo. Nell’opposta ipotesi in cui la reale consistenza del bene sia più estesa di un ventesimo rispetto a quanto contrattualmente previsto potrà essere il venditore a pretendere un supplemento di prezzo. In tale ultima situazione, però, il compratore, qualora non intendesse pagare un supplemento di prezzo che lo esporrebbe ad un esborso economico non previsto e/o considerato per lui non sostenibile, avrà sempre il diritto di recedere dal contratto così come sancito dal comma 2° dell’art. 1538 cod. civ.

[15] Secondo Bianca, La vendita e la permuta, nel Trattato Vassalli, Utet, 1993, 282, il rimedio della rettifica del prezzo risponderebbe all’esigenza di salvaguardare il compratore contro gli abusi della clausola “a corpo” che i venditori sono soliti imporre. L’opinione è condivisa anche da Luminoso, La compravendita, Giappichelli, 1991, 88; Id., La vendita, nel Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, 2014, 255. Tale ricostruzione, tuttavia, non sembra tenere in debito conto del fatto che il potere di rettifica spetta anche al venditore, configurando piuttosto un meccanismo di riequilibrio utile non solo per l’acquirente ma piuttosto pensato per garantire ad entrambe le parti la possibilità di preservare una certa proporzione tra le prestazioni contrattuali.

[16] Giova ribadire che con riferimento agli immobili è possibile configurare non solo una vendita di cosa specifica come normalmente avviene nella maggior parte dei casi, ma anche una vendita di genere limitato allorquando le parti intendano alienare una porzione di fondo o una unità immobiliare da staccarsi rispettivamente da un terreno di maggiore estensione o da un edificio composto da più appartamenti.

[17] In effetti sia gli artt. 2659, n. 4, e 2826 cod. civ., dettati in tema di redazione delle note per le formalità presso i pubblici registri immobiliari, sia l’art. 51, n. 6, l. 16.2.1913, n. 89, in tema di redazione dell’atto notarile non contemplano l’indicazione della misura quale elemento indispensabile per l’identificazione dell’immobile che per la legge sarà, invece, individuato innanzitutto grazie ai confini e subordinatamente tramite i dati catastali.

[18] Come nelle ipotesi in cui l’alienante venda un solo ettaro dei dieci di cui è composto il fondo di sua proprietà oppure un unico appartamento tra i dieci presenti nell’edificio di sua proprietà con l’indicazione, in questo caso, dei criteri di individuazione dell’immobile venduto. Sul punto si veda Luminoso, La vendita, cit., 253.

[19] Per Bianca, voce «Vendita (dir. vig.)», nel Noviss. Digesto it., XX, Utet, 1975, 611, diversa dalla vendita a misura e da quella a corpo è la cd. vendita “a misurazione” dove cioè il bene è stato identificato mediante la sua estensione ma dove le parti non hanno inteso fissare il prezzo in relazione con la superficie del bene. In questo caso, infatti, non si potrà verificare che il compratore acquisti una estensione minore o maggiore del bene ma al più egli rischierà di acquistare una parte di bene che non è di proprietà dell’alienante, come quando, acquistando una striscia di terreno da staccarsi dal confine per una profondità di mille metri, tale misura determini uno sconfinamento nel fondo di un vicino estraneo alla contrattazione.

[20] Rileva Carpino, La vendita, nel Trattato Rescigno, 11, Obbligazioni e contratti, III, Utet, 1984, 346, come non basta che la misura del bene sia stata contrattualmente dichiarata.

[21] Sul punto si veda Calvo, Diritto civile, III, La vendita, 1, Zanichelli, 2016, 193. L’indicazione espressa della misura è, infatti, indispensabile ai fini di ricondurre la fattispecie sotto l’ambito di applicazione dell’art. 1537 cod. civ. Anche secondo la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, la vendita a misura richiede necessariamente l’indicazione quantitativa del bene. Cfr. Cass., 8.2.1964, n. 284, in Giust. civ., 1964, I, 505; App. Firenze, 3.3.1967, in Rep. Foro it., 1967, voce «Vendita», n. 117. Secondo Gorla, La compravendita e la permuta, nel Trattato Vassalli, Utet, 1937, 186, invece, non sarebbe necessaria una indicazione espressa della misura nel contratto.

Se l’alienante, quindi, aliena il suo fondo o il suo appartamento senza precisarne la misura, si è fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 1537 cod. civ. e ciò anche qualora le parti avessero presupposto l’estensione del bene. In tal senso cfr. Rubino, La compravendita, nel Trattato Cicu-Messineo, XXIII, Giuffrè, 1971, 111. Diversamente, Bianca, La vendita e la permuta, cit., 275, sostiene che la vendita può essere stipulata a misura pur quando le parti ignorino l’esatta estensione del bene.

[22] Non sarà, pertanto, vendita a misura quella in cui i contraenti stabiliscano che un determinato bene immobile sarà alienato al prezzo di 1.000 euro al metro quadro. In questo caso, infatti, il compratore avrà dimostrato di non essere interessato alla complessiva estensione del bene ma di averlo voluto acquistare indipendentemente da essa.

[23] In tal senso Rubino, op. cit., 114. Non sarà, pertanto, vendita a corpo quella in cui i contraenti si limitino a trasferire al prezzo di 100.000 euro il fondo Tuscolano senza far alcun riferimento all’estensione dello stesso. In questo caso le parti dimostrano di non aver dato alcun rilievo alle dimensioni del bene e, pertanto, la compravendita non potrà essere soggetta ad alcuna variazione di prezzo né suscettibile di risoluzione unilaterale da parte del compratore.

Occorre, inoltre, rilevare come l’assenza della misura renderebbe inapplicabile i rimedi previsti dall’art. 1538 cod. civ., atteso che mancherebbe un riferimento certo rispetto a cui stabilire se l’estensione effettiva del bene sia minore o maggiore di un ventesimo.

[24] Il riferimento è a Cass., 7.7.1956, n. 2524, in Mass. Giust. civ., 1956. Né può ammettersi che l’indicazione della misura fatta con riferimento ai dati catastali possa essere equivalente alla indicazione della superficie effettiva. Per App. Firenze, 6.10.1967, in Giur. tosc., 1968, 486, perché possano applicarsi le regole codicistiche in tema di vendita di beni immobili occorre, infatti, che la considerazione della estensione dell’immobile abbia comunque avuto una funzione essenziale ai fini della determinazione del prezzo sebbene i contraenti non abbiano voluto fissare un rapporto di diretta proporzionalità tra dimensioni dell’immobile e prezzo.

[25] La dottrina maggioritaria ritiene che per qualificare il contratto come vendita a corpo sia comunque indispensabile che i contraenti abbiano fatto un espresso riferimento all’estensione del bene. In tal senso cfr. Rubino, op. cit., 114; D’Amico, La compravendita, nel Trattato di diritto civile del CNN, diretto da Perlingieri, I, Esi, 2013, 62 s.; Carpino, op. cit., 347. Contra Greco-Cottino, Della vendita, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1972, sub artt. 1470-1547, 419 secondo i quali «ricorre tipicamente la vendita a corpo quando la superficie non sia indicata». Anche per un risalente orientamento della Cassazione la vendita a corpo sarebbe caratterizzata dal fatto che il bene resterebbe identificato indipendentemente dalla misura, sicché la indicazione di quest’ultima non avrebbe rilevanza decisiva (Cass., 9.11.1957, n. 4326, in Mass. Giust. civ., 1957). Per tale filone giurisprudenziale, in altri termini, si avrebbe vendita a corpo quando sarebbe possibile tracciare i confini del bene senza dover compiere misurazioni (Cass., 20.2.1952, n. 443, in Mass. Giur. it., 1952; Cass., 18.6.1992, n. 7540, in Giust. civ., 1993, I, 1612, con nota di Fiaschetti, Distinzione tra vendita a corpo e vendita a misura; clausola penale e clausola risolutiva espressa; Cass., 23.4.1997, n. 3503, in Riv. giur. edil., 1997, I, 894). Per Cass., 18.1.1984, n. 422, in Mass. Giur. it., 1984: «l‘art. 1538 cod. civ. (…) postula che il prezzo medesimo sia stato determinato anche in relazione all’estensione del bene e, pertanto, non trova applicazione quando il corrispettivo non risulti in alcun modo collegato a tale estensione».

[26] App. Bari, 20.11.1978, in Giur. it., 1979, I, 2, c. 577, con nota di Lupo Costi, L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 1538 cod. civ. Sarà, in definitiva, sempre necessario che il prezzo sia appositamente correlato alla effettiva grandezza del bene. È stato, infatti, chiarito dalla giurisprudenza che «nel caso di vendita a corpo, ancorché la misura reale del fondo sia inferiore di almeno un ventesimo a quella indicata nel contratto non si fa luogo a diminuzione di prezzo, ove risulti che l’estensione dell’immobile indicata nel contratto non abbia concorso a determinare il regolamento d’interesse relativamente all’ammontare del prezzo». Cfr. Cass., 25.2.1982, n. 1196, in Mass. Giust. civ., 1982. Nello stesso senso ex pluris cfr. Cass., 2.1.1983, n. 576, ivi, 1983; Cass., 29.1.983, n. 827, ibidem; Cass., 25.7.1980, n. 4838, ivi, 1980; Cass., 6.6.1980, n. 3666, ibidem.

[27] Bocchini, nel Commentario Gabrielli, Dei singoli contratti, a cura di Valentino, Utet, 2011, sub art. 1537, 583. In tal senso anche Rubino, op. cit., 103; D’Amico, op. cit., 64 s., i quali osservano come nelle fattispecie disciplinate dagli artt. 1537 e 1538 cod. civ. si è di fronte non già ad ipotesi di inadempimento dell’obbligazione di consegnare la cosa dedotta in contratto nella misura contrattualmente prevista e ciò perché qui la difformità non si è manifestata al momento della esecuzione del contratto ma si è già verificata all’atto della conclusione dello stesso. Per Cass., 12.2.1965, n. 219, in Giust. civ., 1965, 1685, qualora la misura reale del bene risulti inferiore a quella dichiarata nel contratto non si avrà un inadempimento contrattuale da parte del venditore, ma il compratore potrà comunque ottenere una proporzionale riduzione del prezzo pattuito anche senza preoccuparsi di dover accertare l’inadempimento della controparte.

[28] Così Cass., 15.11.1978, n. 5271, in Rep. Foro it., 1979, voce «Vendita», n. 88. Sulla questione affrontata dalla giurisprudenza si veda anche Gardani Contursi Lisi, La compravendita, nella Giurisprudenza Bigiavi, Utet, 1985, 367

[29] Si ritiene, cioè, che la colpa per aver malamente indicato le dimensioni del suo immobile non sia sufficiente a giustificare la risoluzione per inadempimento ed il risarcimento del danno.

[30] Il tale eventualità parte della dottrina invoca il dettato di cui all’art. 1497 cod. civ. in quanto l’aspetto quantitativo assurgerebbe a qualità promessa del bene oggetto del contratto. In tal senso cfr. Bianca, La vendita e la permuta, cit., 277, e Luminoso, La vendita, cit., 254. Contra Calvo, op. cit., 196.

[31] Si pensi, ad esempio, a chi acquisti un terreno agricolo di 5.000 metri quadri al fine di potervi realizzare una costruzione e la misura risulti, ad una successiva verifica, inferiore. Poiché l’estensione di 5.000 metri quadri è considerata dalla legge minima per poter ottenere il permesso di costruire è evidente che in tal caso l’acquirente perderà qualsiasi interesse al contratto e potrà chiederne l’annullamento essendo stato indotto a concluderlo solo in virtù della convinzione, rivelatasi poi errata, che l’appezzamento di terreno fosse della misura dichiarata dal venditore. Per Bianca, La vendita e la permuta, cit., 278 s., il compratore, cioè, potrebbe essere stato indotto a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe affatto concluso sulla base di una falsa rappresentazione della realtà relativa alla effettiva estensione dell’immobile.

[32] Invero, almeno in astratto, si potrebbe porre il problema di ammettere un’ordinaria azione di annullamento per errore anche nelle vendite soggette all’applicazione degli artt. 1537 ss. cod. civ. Si potrebbe, infatti, pensare che i rimedi previsti da tali norme siano stati ritenuti dal legislatore come specifici rispetto a quello di portata generale dell’azione di annullabilità e ciò sul presupposto che la divergenza tra la misura effettiva e quella dichiarata configuri nient’altro che un’ipotesi di errore sulla quantità. Si potrebbe, in altri termini, concludere che, a proposito delle vendite immobiliari, il legislatore – per questo particolare tipo di errore – abbia inteso predisporre per le parti una tutela ad hoc, escludendo quella di carattere generale prevista per tutte le altre ipotesi. La dottrina, tuttavia, pacificamente ammette che, accanto alla revisione del prezzo ed al recesso del compratore, le parti potranno invocare il rimedio dell’annullabilità prevista dall’art. 1427 cod. civ., a condizione naturalmente che colui che è legittimato a promuovere tale azione provi che l’errore sulla effettiva quantità dell’immobile presenti i requisiti dell’essenzialità (dimostrando che la falsa rappresentazione della realtà in cui sono incorse le parti o una di esse è stata determinante della volontà) e della riconoscibilità da parte dell’altro contraente. In tal senso Greco-Cottino, op. cit., 416; Rubino, op. cit., 106; Carpino, op. cit., 348 s. Similmente, secondo Bianca, La vendita e la permuta, cit., 279, e Bocchini, La vendita di cose immobili, nel Trattato Rescigno, II Utet, 11, 2000, 643, anche quando uno dei contraenti abbia con artifici o raggiri fatto credere all’altra parte che l’oggetto del contratto avesse una certa estensione quando, invece, nella realtà ne aveva un’altra ed il deceptus si sia determinato a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe affatto concluso troverà applicazione la previsione sul dolo determinante di cui all’art. 1439 cod. civ. che condurrà inesorabilmente all’annullamento del contratto. Qualora, invece, gli artifici ed i raggiri volti a nascondere ad una delle parti l’effettiva misura dell’immobile siano tali solo da indurre la controparte a concludere a condizioni diverse rispetto a quelle che sarebbero state altrimenti accettate, troverà spazio la regola dell’art. 1440 cod. civ. sul dolo incidente con la conseguente applicabilità della meno invasiva tutela risarcitoria. Tuttavia, secondo un certo orientamento giurisprudenziale i rimedi speciali previsti dalla disciplina sulle vendite immobiliari non sarebbero invocabili quando la conclusione del contratto sia stata determinata dal dolo del venditore, ossia quando l’errore sulla esatta estensione del fondo sia conseguenza del raggiro della controparte e sia la ragione che ha determinato il compratore ad accettare di acquistare l’immobile. Cfr. in tal senso Cass., 22.10.1965, n. 2186, in Giust. civ., 1966, 519; Cass., 12.4.1983, n. 2575, in Riv. giur. edil., 1983, 936, secondo cui la disciplina di cui all’art. 1538 cod. civ. «si applica alle vendite a corpo validamente stipulate ed a quelle inficiate da mero errore, mentre non opera quando la stipulazione a corpo sia stata determinata da dolo del venditore, ossia quando l’errore sull’esatta estensione del fondo sia conseguenza del raggiro posto in essere dal venditore e sia la ragione che ha determinato il compratore ad acquistare l’immobile a corpo e non a misura, nel qual caso quest’ultimo ben può invocare l’annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1427 cod. civ.». Tale assunto, però, è stato criticato da chi ha ritenuto la richiamata massima «non giustificata, poiché la disciplina generale del contratto appresta nell’ipotesi di dolo una più intensa tutela del contraente, senza per ciò stesso escludere che questi possa giovarsi, a sua scelta, di altri rimedi legali o convenzionali dei quali sussistano i presupposti». In tal senso cfr. Bianca, La vendita e la permuta, cit., 279, n. 6. Sulla medesima posizione sono anche Auricchio, L’individuazione dei beni immobili, Esi, 1960, 124 ss., e Rubino, op. cit., 107.

[33] Alcune più rare, altre più frequenti, così Id., op. cit., 105 ss. il quale per le ipotesi meno frequenti pone l’esempio delle misure relative ai confini dell’immobile esatte rispetto alle quali, però, le parti commettano un errore nel calcolo aritmetico con il quale individuano la misura complessiva dell’area del bene. Più spesso, invece, i contraenti errano nel misurare la dimensione dei confini e di qui ne deriva il successivo e conseguente errore nel calcolare la complessiva estensione dell’oggetto del contratto. Ulteriore ipotesi è quella in cui le parti non si siano preoccupate affatto di procedere ad una misurazione dell’immobile ma si siano affidate ad un calcolo approssimativo ed impressionistico rivelatosi poi fallace.

[34] Si pensi, così, alla situazione che assai spesso viene in rilievo allorquando le parti si rifanno a dati catastali che alla prova dei fatti risultano, però, errati o perché frutto di una rilevazione metrica sin da principio sbagliata o perché nel corso del tempo l’estensione dell’immobile sia mutato a seguito, ad esempio, di acquisti o cessioni parziali dello stesso dei quali non si è tenuto conto in catasto. In questa eventualità, sebbene non si possa qualificare l’errore in cui sono cadute le parti come errore di calcolo, il legislatore ritiene sussistere le medesime ragioni di opportunità che lo hanno indotto a presumere che l’errore sulla quantità nelle vendite immobiliari non sia essenziale, sottraendolo così alle pesanti conseguenze dell’annullamento. In altri termini, secondo il richiamato orientamento, la particolarità delle norme in esame sta proprio nel fatto di escludere che nelle vendite immobiliari l’errore di calcolo, generando inevitabilmente anche un errore sulla quantità, possa essere considerato determinante del consenso e provocare, pertanto, l’annullamento del contratto. Sul punto si veda ancora Id., op. cit., 106.

[35] Macario, voce «Vendita (profili generali)», in Enc. giur. Treccani, XXXII, Ed. Enc. it., 1994, 13.

[36] Per la teorizzazione di un principio di proporzionalità nel nostro ordinamento giuridico i cui riferimenti normativi sarebbero rinvenibili sia a livello costituzionale (artt. 36, 38, 42, 53, Cost.) sia a livello codicistico (artt. 1480, 1492, 1584, 1622, 1635, 1636, 1668), cfr. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 334 ss., nonché Perlingieri-Imbrenda, in Perlingieri, Manuale di diritto civile, Esi, 2014, 453 ss.

[37] Il meccanismo dei rimedi predisposti dalla legge è, del resto, tipico di altre fattispecie in cui il legislatore ha inteso garantire la proporzione tra le prestazioni. Modifica del prezzo e scioglimento del vincolo contrattuale, unitamente ad un breve termine di prescrizione per l’esperibilità delle relative azioni, rappresentano, infatti, una tecnica già adoperata dal codice in casi analoghi, dove l’obiettivo prioritariamente perseguito è il mantenimento dell’originaria proporzione tra le prestazioni e solo in seconda battuta, quando questo è inevitabilmente compromesso, l’eliminazione del contratto. Si pensi all’ipotesi, ad esempio, disciplinata dagli artt. 1492 e 1495 cod. civ., in tema di vizi della cosa. Anche qui il legislatore prevede un’azione con cui è possibile modificare il prezzo (azione estimatoria) ed una con cui è possibile sciogliere il vincolo contrattuale (azione redibitoria) che si prescrivono entrambe nel breve termine di un anno. È vero che in questo caso il presupposto è diverso, dovendosi individuare lo stesso nell’inadempimento del venditore, ma il congegno rimediale messo a punto richiama chiaramente quello previsto dagli artt. 1537 ss. cod. civ. Anche gli artt. 1667 e 1668 cod. civ. contemplano la possibilità per il committente, entro due anni dalla consegna dell’opera, di chiedere una proporzionale diminuzione del prezzo o la risoluzione dal contratto di appalto qualora le difformità e i vizi dell’opera siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione. Benché in questa eventualità, come in quella precedentemente esaminata, vi è alla base un inadempimento dell’appaltatore, tuttavia, ci si trova di fronte alla chiara intenzione del legislatore di ricondurre, se possibile, a proporzione le prestazioni ed, in caso contrario, di far cadere gli effetti del contratto. Del tutto simile è, ancora, la disciplina delle difformità e dei vizi dell’opera con riferimento al contratto d’opera. L’art. 2226 cod. civ., infatti, da un lato, espressamente richiama i rimedi della proporzionale diminuzione del prezzo e della risoluzione dal contratto di appalto qualora le difformità e i vizi dell’opera siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, previsti dall’art. 1668 cod. civ. in tema di appalto (art. 2226, comma 3, cod. civ.) e, dall’altro, sancisce la prescrizione annuale per far valere le relative azioni (art. 2226, comma 2, cod. civ.). A ciò aggiungasi che anche la generale azione di rescissione offre alle parti l’alternativa tra una riconduzione ad equità delle prestazioni (art. 1450 cod. civ.) e l’eliminazione retroattiva degli effetti del contratto (artt. 1447 e 1448 cod. civ.) da esercitarsi nel termine di un anno a pena di prescrizione (art. 1449 cod. civ.). È vero che in questa situazione il legislatore ha inteso porre rimedio non già ad un’iniquità tout court, attesa la necessità di dimostrare anche i requisiti dello stato di pericolo o di bisogno del contraente “costretto” a concludere il contratto e dell’approfittamento dell’altra parte. Ma è altrettanto evidente, però, come l’ordinamento abbia dimostrato di non tollerare una oggettiva sproporzione tra le prestazioni dove il valore dell’una superi di oltre la metà quello dell’altra.

[38] La giurisprudenza di legittimità ha, in effetti, avuto modo di precisare come «nell’ipotesi di vendita si può far luogo alla revisione del prezzo, ai sensi dell’art. 1538 cod. civ., solo quando la considerazione dell’estensione dell’immobile così come enunciata in contratto abbia concorso a determinare il regolamento d’interessi relativamente all’ammontare del prezzo stesso, mentre se i contraenti hanno indicato la misura come ulteriore elemento concorrente ai fini della descrizione e dell’identificazione dell’immobile (o, anche, per un diverso fine), nessuna conseguenza può derivare dall’errore su tale indicazione; in questa ipotesi, infatti, poiché l’ammontare del prezzo non risulta collegato all’estensione dell’immobile, la indicazione di questa, esatta o erronea che sia, assume il valore di una circostanza accidentale, non produttiva degli effetti considerati dall’art. 1538 cod. civ.» (Cass., 29.1.1983, n. 827, cit.). Per Cass., 25.7.1980, n. 4838, cit., le conseguenze previste dall’art. 1538 cod. civ. non operano nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto un complesso di beni (appartamento arredato) e la misura dell’immobile assuma il valore di una circostanza accidentale nell’economia del contratto, essendo indicata solo come uno dei tanti elementi concorrenti alla descrizione e alla identificazione dell’oggetto del contratto.

[39] Per tale posizione critica cfr. Luminoso, La compravendita, cit., 89.

[40] Bianca, La vendita e la permuta, cit., 287 ss.

[41] Carpino, op. cit., 346 ss.; Greco-Cottino, op. cit., 499; Lupo Costi, op. cit., c. 577.

[42] Per Bianca, La vendita e la permuta, cit., 287, l’art. 1538 cod. civ. non potrebbe essere disapplicato sulla base di una presunzione contraria a quella posta dalla norma stessa.

[43] Id., op. ult. cit., 288, n. 5.

[44] Id., op. loc. ult. citt.

[45] App. Venezia, 23.1.1958, in Rep. Giur. it., 1959, voce «Vendita», n. 218.

[46] Id., op. loc. ult. citt.

[47] Cass., 19.5.2006, n. 11793, in Mass. Giur. it., 2006, secondo cui la possibilità di chiedere la rettifica del prezzo di cui all’art. 1538 cod. civ. «può essere ritenuta esclusa solo nel caso in cui, dalla interpretazione del contratto, risulti che le parti abbiano inteso derogare alla norma medesima, escludendone l’applicabilità, per avere esse considerato irrilevante del tutto l’effettiva estensione dell’immobile, quale che essa sia».

[48] È bene, tuttavia, precisare che ad essere derogabili non sono proprio tutte le disposizioni di cui agli artt. 1537 ss. cod. civ., atteso che senz’altro non è derogabile dalle parti l’art. 1541 cod. civ. che sancisce il termine annuale di prescrizione per il diritto del venditore al supplemento e quello del compratore alla diminuzione del prezzo o al recesso dal contratto.

[49] G. D’Amico, op. cit., 68. La prima ipotesi, richiedendo la necessità di indicare una soglia minore o superiore rispetto a quella prevista dalla legge per ottenere la rettifica del prezzo ovvero esercitare il diritto di recesso, deve essere inevitabilmente manifestata in forma espressa. Diversamente, invece, occorre opinarsi per quanto concerne la possibilità di escludere del tutto le azioni previste dagli artt. 1537 ss. cod. civ., essendo possibile per le parti esprimere questa volontà tanto in forma espressa, quanto in forma tacita.

[50] Così Id., op. loc. ult. citt.

[51] Il riferimento è ad App. Bari, 2.5.1961, in Corti Bari, Lecce, Potenza, 1961, 365. A tale conclusione è, del resto, giunto anche un certo orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui se nella vendita di un corpo determinato, l’indicazione della misura è fatta unicamente, secondo la volontà delle parti, come ulteriore specificazione dell’immobile, senza effettivo riguardo alla estensione di esso, la volontà delle parti deve prevalere e non si fa luogo ad alcun rimborso o supplemento di prezzo (Cass., 30.7.1947, n. 1259, in Mass. Giur. it., 1947; Cass., 25.8.1950, n. 2542, ivi, 1950; Cass., 13.6.1969, n. 2121, Rep. Foro it., 1969, voce «Vendita», n. 164).

[52] Per tale posizione si veda Cass., 9.7.1991, n. 7594, in Giust. civ., 1992, I, 1551, con nota di De Tilla, Sulla vendita immobiliare a corpo, secondo cui a ragionare diversamente si finirebbe «per incorrere anche nell’errore di invertire i termini della questione stessa, quali risultano posti dalla norma: infatti, si disapplica la presunzione posta dalla norma (rilevanza, anche nella vendita a corpo, delle reali dimensioni dell’immobile compravenduto, quando la differenza tra la misura effettiva e quella indicata nel contratto sia di una determinata entità in più o in meno, a meno che le parti non abbiano considerato l’effettiva estensione dell’immobile, sempre ed in ogni caso, del tutto irrilevante) con una presunzione di segno opposto (irrilevanza, nella vendita a corpo, delle effettive dimensioni dell’immobile, quale che sia l’accertata estensione di esso, a meno che la considerazione della misura, così come indicata nel contratto, non abbia avuto, nella volontà delle parti, una funzione essenziale nella determinazione del prezzo)». Nello stesso senso cfr. Cass., 19.5.2006, n. 11793, cit.

Non si può, in effetti, escludere che il venditore, in uno stesso Comune (Alfa), sia proprietario di due distinti fondi denominati allo stesso modo (Tuscolano) ma aventi dimensioni diverse; l’uno sito in Via Appia di 10 ettari e l’altro sito in Via Aurelia di 5 ettari. Nel caso in cui le parti precisino di compravendere al prezzo di 100.000 euro il fondo Tuscolano sito nel Comune di Alfa alla Via Appia di 10 ettari e non già quello sito nello stesso Comune alla Via Aurelia di 5 ettari sembra che l’intenzione che le parti hanno inteso attribuire alla misura sia semplicemente quella di individuare l’immobile oggetto del contratto, evitando possibili equivoci e non già quello di legare le sorti del prezzo alla effettiva misura del fondo. Per tale orientamento in dottrina si vedano Duni, Problemi relativi alla vendita di immobili a corpo e non a misura, in Giust. civ., 1967, IV, 129; Spallanzani, Vendite immobiliari a misura e a corpo (misura reale e misura catastale; clausola «all’incirca»), in Foro it., 1960, IV, c. 69; Rubino, op. cit., 115. In giurisprudenza si vedano Cass., 3.12.1959, n. 3496, in Rep. Foro it., 1959, voce «Vendita», n. 170; Cass., 24.3.1961, n. 662, in Rep. Foro it., 1961, voce «Vendita», n. 130; Cass., 2.8.1961, n. 1857, in Giur. agr. it., 1962, 125, con nota di Favara, Vendita a corpo e vendita a misura; Cass., 25.2.1982, n. 1196, cit.; Cass., 18.1.1984, n. 422, cit.; App. Napoli, 31.1.1961, in Dir. e giur., 1961, 187.

[53] Qualora le circostanze concrete conducano a ritenere che le parti abbiano fatto riferimento all’aspetto quantitativo semplicemente al fine di individuare il bene con maggiore precisione non trovano applicazione le regole di cui agli artt. 1537 ss. cod. civ. Contra Cass., 18.4.1998, n. 3985, in Mass. Giust. civ., 1998, secondo cui deve qualificarsi come vendita a corpo anche «quella in cui il prezzo pattuito non abbia alcuna stretta relazione con l’estensione dell’immobile, ancorché essa sia stata indicata tra le parti nel contratto soltanto ai fini di una migliore identificazione dell’immobile». Anche in dottrina Cillo-D’Amato-Tavani, Dei singoli contratti, I, nel Manuale e applicazioni pratiche dalle lezioni di Guido Capozzi, Giuffrè, 2005, 50, ritengono che «si considera ugualmente vendita a corpo quella in cui la misura è menzionata non per determinare il prezzo, ma solo per individuare l’immobile: ti vendo il mio fondo Corneliano, quello di venti ettari, per il prezzo globale di 20.000,00 euro».

[54] In tal senso cfr. Petrelli, L’indagine della volontà delle parti e la «sostanza» dell’atto pubblico notarile, in Vita not., 2006, 69. In giurisprudenza per tale soluzione cfr. App. Roma, 3.2.2000, ivi, 2000, 770, con nota di De Luca, Atto pubblico, clausole d’uso e clausole di stile, secondo cui «quando un negozio riveste la forma dell’atto pubblico, le cd. clausole di stile sono senz’altro escluse "in re ipsa", considerato che il compito del notaro rogante (diverso da quello del notaro certificante) è quello (cd. funzione di adeguamento), di cogliere l’esatta volontà negoziale, avuta dalle parti, e di dare ad essa forma compiuta».

[55] Così Bonilini, Le clausole contrattuali c.d. di stile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1979, 1264.

[56] Bianca, La vendita e la permuta, cit., 276.

[57] Cass., 15.9.1970, n. 1427, in Giur. it., 1971, I, 1589; Cass., 18.5.1966, n. 1282, in Rep. Giust. civ., 1966, voce «Vendita», n. 95.


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