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Singolo condomino può agire a tutela del decoro architettonico dell’edificio

Cassazione, sentenza n. 28465/2019: la nozione integra un bene comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c.

condominioSecondo la Cassazione il decoro architettonico è un bene comune ex art. 1117 c.c., alla cui salvaguardia è legittimato anche il singolo.

Proprio perché inerente la fisionomia dell’edificio condominiale, la nozione di decoro architettonico integra un bene comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare al fabbricato.

Il regolamento condominiale può peraltro dare una definizione più rigorosa di decoro architettonico rispetto a quella contenuta all’art. 1120 c.c. e presupposta dall’art. 1102 c.c., fino anche ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica e all’aspetto generale dell’edificio.

Ne consegue che eventuali modifiche apportate da uno dei condomini alle parti comuni del fabbricato, in violazione del divieto previsto dal regolamento condominiale e tali da pregiudicarne il decoro architettonico, legittimano il singolo condomino ad agire in giudizio a tutela della cosa comune.

Questi, in estrema sintesi, i principi affermati dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. II Civile, con l’ordinanza 5 novembre 2019, n. 28465 (testo in calce).

Sommario:

I fatti di causa

La proprietaria di un immobile conveniva in giudizio gli usufruttuari e la nuda proprietaria di un fabbricato e del relativo porticato, siti all’interno del proprio condominio, chiedendone la condanna a rimuovere una struttura in legno ed un casotto da questi realizzati su due lati del porticato ed infissi nel cornicione e ai pilastri del fabbricato condominiale.

L’attrice lamentava la violazione dell’art. 1102, secondo comma c.c. e dell’art. 7 del regolamento di condominio, che prevedeva il divieto assoluto di apportare modifiche alle parti esterne o alle zone comuni dell’edificio, tali da alterare l’aspetto architettonico dell’immobile.

I convenuti si costituivano in giudizio proponendo domanda riconvenzionale, con cui chiedevano l’eliminazione delle grate in ferro apposte in corrispondenza delle due finestre della facciata posteriore dell’appartamento dell’attrice.

Il Tribunale di Napoli rigettava entrambe le reciproche domande, escludendo la compromissione del decoro architettonico, anche per la presenza di altre quattro verande a chiusura dei balconi.

L’attrice proponeva quindi appello, osservando che la staccionata in legno ed il casotto erano comunque infissi ai pilastri del fabbricato ed incidevano quindi sul bene comune.

Gli originari convenuti resistevano con appello incidentale, condizionato in ordine all’eliminazione anche delle predette grate in ferro dall’appartamento di controparte.

La Corte d’appello di Napoli accoglieva sia il gravame principale sia quello incidentale condizionato, condannando usufruttuari e nuda proprietaria alla rimozione della strutture in legno poste ai lati del porticato e obbligando altresì l’originaria attrice a rimuovere le grate in ferro a corredo del proprio appartamento. Rigettava infine le reciproche richieste risarcitorie, compensando tra le parti le spese di lite di entrambi i gradi del giudizio.

A sostegno della decisione la Corte rilevava che le opere realizzate dai convenuti violavano l’art. 7 del regolamento condominiale, che proprio perché fondato sulla generica nozione di “aspetto architettonico” e contenente l’esplicito riferimento ai divisori e all’utilizzo dei pilastri (come avvenuto nel caso di specie), doveva intendersi norma di contenuto più ampio, dunque prevalente rispetto all’art. 1120 c.c..

Il ricorso per cassazione: i motivi

All’esito del gravame proposto dai convenuti originari, la vicenda giungeva dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

Tre le censure evidenziate dai ricorrenti, tutte inerenti l’interpretazione del regolamento condominiale da parte dei giudici di merito.

In primo luogo si evidenziava che la sentenza appellata aveva considerato l’art. 7 del regolamento condominiale sotto un unico profilo, ossia il divieto di apportare modifiche all’edificio, omettendo di rilevare che un divieto analogo non valeva anche per eventuali modifiche realizzate all’interno delle aree di proprietà esclusiva, come avvenuto nel caso di specie.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentavano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1120 e 1127 c.c. e degli artt. 2 e 7 del regolamento condominiale.

Riferivano infatti che malgrado tale ultima previsione contenesse un esplicito riferimento al concetto di “aspetto architettonico”, più rigoroso di quello di “decoro architettonico”, il predetto art. 7 era stato interpretato unicamente alla luce del divieto di apportare modifiche, senza tener conto di precedenti interventi che avevano già ampiamente alterato l’aspetto e il decoro architettonico del fabbricato condominiale.

L’ultimo motivo di ricorso atteneva infine all’omesso esame di un fatto decisivo da parte dei giudici di merito, ovvero la vigenza dell’art. 2 del regolamento di condominio che legittimava l’apposizione delle strutture oggetto di causa anche sul terrazzo condominiale, in deroga alla previsione dell’art. 1127 c.c.

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La posizione della Corte

Nell’esame dei motivi di ricorso la Corte procede “a ritroso”, iniziando dall’ultimo e ribadendo che l’omessa valutazione di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo quando il fatto storico, rilevante in causa, è stato comunque preso in considerazione dal giudice, anche se la sentenza non ha dato conto di tutte le risultanze probatorie (così Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

Nel caso in questione la Corte osserva che la pronuncia della Corte d’appello di Napoli ha chiaramente valutato la preesistenza di interventi modificatori del decoro architettonico; in ogni caso, aggiungono i giudici, si tratta comunque di un fatto privo di valenza decisiva, posto che la motivazione della sentenza di merito verte sulla violazione dell’art. 7 del regolamento condominiale.

Di qui l’infondatezza del terzo motivo d’appello.

Altrettanto infondati sono gli altri due motivi di ricorso.

Quanto alla portata dell’art. 2 del regolamento di condominio, la Corte osserva che si tratta di una questione non espressamente richiamata nella sentenza impugnata e che comunque presuppone indagini ed accertamenti che, proprio perché non compiuti dai giudici di merito e non riproposti dai ricorrenti, non sono certo eseguibili nel giudizio di cassazione mediante un accesso diretto agli atti.

Condominio di edifici: disciplina codicistica e autonomia negoziale

Quanto al riferimento all’art. 1120 c.c.., operato dai ricorrenti ma anche dalla sentenza impugnata (che sul punto è quindi opportuno correggere), la Corte lo ritiene erroneo e privo di rilievo.

La constatazione muove dalla sostanziale differenza, oggettiva e soggettiva, tra modificazioni e innovazioni: le prime, disciplinate dall’art. 1102 c.c., rientrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nella norma, per consentirgli il migliore, più comodo e razionale utilizzo della cosa; mentre le innovazioni, di cui appunto all’art. 1120 c.c., consistono invece in opere di trasformazione che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione.

Quanto al profilo soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con delibera assembleare, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che proprio perché rivolte a perseguire l’utilità del singolo condomino non si confrontano con l’interesse generale (da ultimo, Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712).

Altrettanto irrituale è il riferimento agli artt. 2 e 7 del regolamento di condominio, dei quali i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c..

La Corte osserva in proposito che non solo il regolamento condominiale non è un atto normativo generale e astratto (e dunque una “norma di diritto”) di cui invocare la violazione in sede di legittimità, ma è anzi può validamente derogare alle disposizioni codicistiche in materia di decoro architettonico.

I giudici di legittimità ricordano infatti che l’autonomia negoziale può limitare i diritti dei condomini nell’interesse comune, anche relativamente al contenuto del diritto dominicale sulle parti comuni o di loro esclusiva proprietà.

Ma vi è di più: il regolamento condominiale può infatti fornire una definizione più rigorosa di decoro architettonico rispetto a quella contenuta all’art. 1120 c.c. e presupposta dall’art. 1102 c.c., fino anche ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica e all’aspetto generale dell’edificio (tra le tante pronunce si vedano Cass. Sez. 2, 21/05/1997, n. 4509; Cass. Sez. 2, 24/01/2013, n. 1748; Cass. Sez. 2, 19/12/2017, n. 30528).

La decisione della Corte d’appello di Napoli si è quindi uniformata alla giurisprudenza di legittimità sul punto, ritenendo che le modificazioni apportate da uno dei condomini alle parti comuni in violazione del divieto previsto dal regolamento condominiale, rechino pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio, legittimando quindi l’interesse processuale del singolo condomino ad agire in giudizio a tutela della cosa comune.

Il decoro architettonico

Nell’esporre le proprie considerazioni la Corte muove dalla nozione di decoro architettonico che, proprio perché inerente la fisionomia dell’edificio condominiale, è identificabile con un bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c., il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare al fabbricato (così Cass. Sez. 2, 04/04/2008, n. 8830).

Una tutela che è apprestata in considerazione dell’apprezzabile alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell’edificio, o anche di sue singole parti o elementi dotati di sostanziale autonomia, e della consequenziale diminuzione del valore dell’intero fabbricato condominiale, quindi anche di ciascuna delle unità che lo compongono.

La Corte ribadisce poi che il giudizio relativo all’impatto che un’innovazione può avere sul decoro architettonico dell’edificio si basa su un’indagine di fatto riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, salvo il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. Sez. 2, 11/05/2011, n. 10350).

Tale indagine deve essere parametrata al caso concreto, adottando, di volta in volta, criteri di maggiore o minore rigore in considerazione delle caratteristiche del singolo edificio e/o della parte di esso eventualmente interessata.

Il giudice dovrà quindi accertare se il fabbricato avesse originariamente (ed eventualmente in che misura) un’unitarietà di linee e di stile suscettibile di essere significativamente alterata dall’innovazione dedotta in giudizio e anche se tale unitarietà fosse già stata pregiudicata da precedenti innovazioni.

Dovrà inoltre appurare che l’alterazione sia appariscente e di entità non trascurabile, tale cioè da tradursi in un pregiudizio estetico dell’insieme, suscettibile di un’apprezzabile valutazione economica.

Proprio perchè non è correlato alla sola estetica del fabbricato, ma anche alle condizioni di singoli elementi o parti dello stesso, la nozione di decoro differisce da quella di “aspetto architettonico” richiamata dall’art. 1127, terzo comma c.c. quale limite alle sopraelevazioni. Quest’ultimo si riferisce infatti allo stile del fabbricato, alla fisionomia e alle linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore (in tal senso Cass. Sez. 6-2, 12/09/2018, n. 22156).

Quando però, come nel caso in esame, esiste un regolamento condominiale che vieta di apportare modifiche alle parti esterne dell’edificio o nelle zone comuni, tali da alterarne l’attuale aspetto architettonico, la Corte ritiene che l’interpretazione negoziale del divieto non sia censurabile in sede di legittimità (come chiesto invece dai ricorrenti, invocando la violazione degli artt. 1120 e 1127 c.c.).

Non ricorrono infatti le  ipotesi (violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, o omesso esame di un fatto storico ex art. 360, primo comma n. 5 c.p.c.) in cui al giudice di legittimità è consentita una simile valutazione.

Conclusioni

Muovendo da tali premesse la Corte ha quindi rigettato il ricorso, condannando i ricorrenti, in solido tra loro, a  rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione e al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/2002.

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