Penale

Confisca diretta, indiretta e fungibilità del denaro

La recente ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 7021/2021 offre lo spunto per approfondire il tema della confisca applicata ai reati tributari

confiscaCon l’ordinanza n. 7021 del 23 febbraio 2021 la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione torna ad analizzare le problematiche sottese alla tematica dell’inquadramento della confisca diretta del profitto del reato prendendo spunto da un’interessante pronuncia del Tribunale della Libertà di Salerno che ha disposto la restituzione delle somme, precedentemente oggetto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca di proprietà, perché ritenute non derivanti dal reato, in parte, in quanto versate sul conto corrente dell’indagato dopo la commissione del reato, in altra parte, perché provenienti da un titolo lecito.

Si prende inesorabilmente atto delle difficoltà interpretative e si rimette la questione alle Sezioni Unite.

La pronuncia permette di comprendere quali siano gli accorgimenti, a volte necessari, affinché si possa applicare una simulata confisca diretta (e prima un sequestro preventivo finalizzato alla stessa), dissimulando una misura sostanzialmente afflittiva-punitiva (rectius: confisca per equivalente) rispetto a fattispecie che non l’ammetterebbero. Come se la natura fungibile del denaro, e la confusione delle somme versate sui conti correnti, giustificassero, per ciò solo, il mantenimento della qualità di “autentico” profitto del reato, e non di una somma corrispondente allo stesso.
La confisca di somme di denaro ha, come premesso, un innegabile carattere punitivo, con la conseguenza necessaria che, se si presume che le somme di denaro giacenti su un conto corrente, pur mescolate e confuse con quelle già depositate, siano “sostanzialmente quelle derivante dal reato in contestazione ovvero si ipotizza che le somme giacenti siano, in quanto fungibili, “equivalenti”, sostitutive, “non diverse” rispetto a quelle che in un dato momento sono entrare nel patrimonio dell’indagato e che, al momento del sequestro, possono o non essere più in esso presenti[…]”; tale presunzione non può non può che essere relativa, permettendo alla parte di superarla fornendo elementi idonei.

L’ordinanza summenzionata fornisce l’occasione per svolgere delle brevi considerazioni sulla confisca applicata alle fattispecie di cui al D.lgs. 74/2000.

Sommario

Premessa

La confisca rappresenta nel nostro ordinamento lo strumento principe nel contrasto ai fenomeni, non solo di criminalità organizzata, ma anche economica. L’istituto è di fondamentale importanza già nella fase delle indagini preliminari perché, se attuabile la confisca, sarà possibile anche il sequestro preventivo finalizzato alla stessa (art. 321, co. 2, c.p.p.).

La norma generale che prevede la confisca, intesa quale misura di sicurezza patrimoniale, è l’art. 240 c.p. Si tratta di uno strumento facoltativo per il prodotto e il profitto del reato (comma 1); obbligatorio per il prezzo (comma 2).
Il terzo comma della disposizione fa salvo il caso in cui il bene appartenga a persona estranea al reato.

La confisca nei reati tributari

Nell’ambito dei reati tributari, disciplinati dal Decreto Legislativo n. 74/2000, rileva esclusivamente la nozione di profitto, mentre le altre categorie non sono ravvisabili.
Si cerchi di comprendere come storicamente si è evoluto l’istituto rispetto alla categoria di illeciti da ultimo menzionata, e quali siano state le esigenze sottese a ogni modifica intervenuta.

Il meccanismo dell’evasione fiscale prevede che il contribuente generi del reddito lecito, e questo non sia poi tassato correttamente: non entra qualcosa in derivazione del reato, ma il reddito muta natura e diventa in parte illecito, perché non decurtato di una sua frazione, necessaria ai fini del pagamento dei tributi imposti.

In questo senso si è espressa la Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 26654, depositata il 2 luglio 2008, secondo cui una componente del profitto può essere data anche da un risparmio di spesa purché inteso non come un profitto cui non corrispondano beni affluiti al patrimonio, ma come “un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo concretamente determinato”.

In merito alla quantificazione del profitto si sono espresse Sezioni Unite Adami (sentenza n. 18374, 23 aprile 2013) introducendo una nozione dello stesso molto estesa, comprendente anche l’ utilità derivante da mancato pagamento di interessi e sanzioni.

Quest’approccio, pur corretto nel caso che la Cassazione affrontava (art. 11 d.lgs. 74/2000, rubricato “Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte”: si trattava di un reato di pericolo concreto che sanziona chi, con una serie di atti fraudolenti, alleggerisce il patrimonio, e quindi espone a pericolo la futura riscossione) è stato successivamente ripreso impropriamente e applicato alle fattispecie dichiarative dalle Sezioni Unite Gubert (n. 10561, 30 gennaio 2014). In tale contesto si trattava invece di illeciti dichiarativi: mancando nel processo verbale di constatazione la quantificazione di interessi e sanzioni, è contenuta solo una proposta di recupero a tassazione riferita esclusivamente all’imposta non pagata. E solo a questa andrebbe rapportato il profitto.

Le difficoltà applicative e la “temporanea” soluzione legislativa

Le difficoltà da sempre sottese all’individuazione del profitto diretto nell’ipotesi di reati tributari hanno portato al riconoscimento, in via legislativa, dell’ammissibilità della confisca per equivalente, così che “la determinazione del profitto suscettibile di confisca ha trasfigurato i propri connotati per divenire unità di misura volta a determinare il quantum di utilità derivante dal reato, e in quanto tale, destinata ad essere sottratta al reo”. Infatti, “in tale contesto oggetto di confisca non è più il bene proveniente dal reato, quanto una somma di denaro o beni a questo corrispondente” (A.Perini, La nozione di “profitto del reato”, in Bargi- Cisterna, a cura di, La giustizia patrimoniale penale, Utet, 2011, p. 910 e 912).

La Finanziaria del 2008 (art. 1 comma 143 della l. 244/2007), ha previsto che ai reati tributari si applicasse la confisca anche per equivalente, tramite il rinvio all’art. 322 ter c.p., il quale prevede la confisca nei reati contro la Pubblica Amministrazione.
Ci si è posti però il problema se la norma, per come prevista nella formulazione originaria del 2008, fosse applicabile alla fattispecie tributarie. Quest’ultima richiamava infatti una versione precedente dell’art. 322 ter c.p., il quale, all’epoca, non conteneva il termine “profitto”, unica a nozione confacente alla struttura delle fattispecie tributarie.

Il problema si era posto proprio perché la Cassazione, pur se in un differente contesto (SU Caruso del 2009 in riferimento al reato di peculato), riteneva che il comma secondo della art. 322 ter c.p. fosse una norma di carattere speciale applicabile solo rispetto ai reati specificatamente indicati dalla stessa. Quindi, se non applicabile alla generalità dei reati contro la Pubblica Amministrazione, a maggior ragione, inapplicabile a fattispecie esterne, quali appunto i reati tributari.

Il problema è stato in ogni caso superato, da prima con l’aggiunta del termine profitto al primo comma, tramite la l. 190 del 2012 art. 1, comma 75 o), e successivamente, non essendo più esistente il rinvio, ma un’autonoma previsione, cioè l’art. 12 bis d.lgs. 74/2000, il quale prevede che “Nel caso di condanna[…], è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”.
Si ammette, dunque, in caso di impossibilità di operare la confisca diretta, la forma per equivalente, cioè di un valore analogo a quello che si assume essere il profitto del reato

Il comma 2 di tale disciplina, invece, un’ipotesi particolare: se il contribuente si impegna a versare all’Erario quanto dovuto, la confisca non può operare, salvo il caso di mancato versamento, per il quale la confisca è sempre disposta. Sul punto si veda la sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sez. III, n. 5728, depositata 11 febbraio 2016, secondo cui «deve comunque ritenersi che solo l'integrale pagamento del debito tributario possa condurre alla non operatività della confisca e, correlativamente, alla obliterazione del sequestro imposto a tal fine, essendo insufficiente la mera presenza di un piano rateale di pagamento o il parziale pagamento effettuato a tale ultimo titolo».

Nella stessa decisione la Suprema Corte segnala che il secondo comma dell’art. 12-bis si riferisce unicamente agli obblighi assunti in maniera formale «tra i quali rientra l'ipotesi di accordo, raggiunto con l’Agenzia delle Entrate, per il pagamento rateale del debito di imposta».

Al netto di tali vicende modificative, si tratta di una forma di confisca obbligatoria del profitto (e inspiegabilmente anche del prezzo), ammessa anche nella forma per equivalente.
Per i reati tributari è stata prevista legislativamente anche la c.d. confisca per sproporzione: art. 12-ter. Si tratta dell’estensione della particolare ipotesi di confisca disciplinata all’art. 240-bis c.p. ad alcune delle fattispecie fiscali. Tale forma di confisca ha ad oggetto il denaro, i beni o le altre utilità di cui il condannato non riesce a giustificare la provenienza e di cui risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo, con un valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato, o alla propria attività economica.

Un risultato appagante?

Gli interventi non furono però risolutivi: dubbi interpretativi si sono posti fino all’introduzione dei reati tributari nel novero dei reati-presupposto della 231, a causa della dissociazione soggettiva tra, da un lato, autore del reato-legale rappresentante e, dall’altro, ente-contribuente. Ci si è chiesti a chi dovesse essere applicata la confisca in caso di vantaggio conseguito dall’ente.

La confisca per equivalente ha natura eminentemente sanzionatoria, non può essere applicata all’ente, se questo non ha un’autonoma capacità penale rispetto al reato contestato, altrimenti si provocherebbe un’inammissibile estensione in malam partem.

L’esigenza di individuare un escamotage derivava dal fatto che il profitto/risparmio illecitamente ottenuto sia, la maggior parte delle volte, allocato presso l’ente, e non nel patrimonio del legale rappresentante; quindi, se l’obbiettivo finale è riuscire a mettere in sicurezza (tramite sequestro) le somme che, se l’ipotesi accusatoria venisse confermata all’esito del giudizio, sarebbero oggetto di confisca, e quelle somme le si rinviene presso l'ente, è indispensabile trovare un modo per colpire quest’ultimo.
Al fine si superare questo ostacolo, a titolo esemplificativo, si ricordi la sentenza a Sezioni Unite Giordano del 2010, in cui si contestava surrettiziamente, oltre il reato tributario, un'altra fattispecie, quest’ultima inserita però nel novero dei reati presupposto 231 (si trattava del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, cioè art. 640 co. 2 n. 1 c.p., richiamato dall’art. 24 d.lgs. 231/2001. Altrimenti si sarebbe potuto adoperare il tramite di una contestazione per reati transnazionali - art. 10 l. 146/2010 - o associativi - art. 24-ter d.lgs. 231/2001- finalizzati alla realizzazione di evasione fiscale).

Tra le soluzioni alternative -inoltre- quella che faceva leva sul rapporto di immedesimazione organica, così che, salvo rottura dello stesso, si sarebbe potuto colpire il patrimonio della società, in quanto la stessa non poteva essere considerata terza estranea al reato, valorizzando dunque, a contrario, il comma 3 dell’art. 240.

Queste soluzioni, tutte comprensibili da un punto di vista politico-criminale, non erano percorribili.

Unanimemente veniva però riconosciuto il limite della società schermo: se l’autore frappone tra sé e il Fisco una società priva di effettiva autonomia, in questo caso il patrimonio della società poteva essere comunque aggredito (Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 33182, 31 luglio 2013).

Era irrazionale che non si avesse uno strumento operativo contro l’ente, ma tuttavia, allo stato mancava un’espressa previsione che lo ammettesse e, quindi, si doveva prendere atto di questo vuoto normativo, non colmabile in via interpretativa.

Questa lucida presa d’atto ha depotenziato l’istituto della confisca per equivalente, e stimolato l’interpretazione fornita tramite la sentenza Gubert: le Sezioni Unite sono state incaricate di risolvere la questione circa l’ammissibilità del sequestro strumentale alla confisca diretta dell’ente, come se si ammettesse che non è più percorribile la strada della confisca per equivalete. È già una svolta.

Con la Gubert “si portano indietro le lancette della storia” perché si riconosce che la confisca per equivalente non è ammissibile, a causa della mancanza della capacità penale delle ente rispetto alle fattispecie tributarie, quindi si torna al parametro classico del 240 c.p. e si ragiona in termini (in)fungibilità, arrivando a ritenere che le somme in conto, qualsiasi esse siano, fossero beni suscettibili di confisca diretta.

Si realizza un percorso contrario a quello che aveva portato nel 2008 all’introduzione della confisca per equivalente nella convinzione che nei tributari la confisca diretta non fosse applicabile.

Si torna indietro, non perché la confisca per equivalente non sia uno strumento valido rispetto alle fattispecie tributarie tout court, ma perché non è applicabile proprio laddove ce ne sarebbe più bisogno, cioè all’ente, soggetto maggiormente da contrastare nella criminalità economica.

La soluzione definitiva

Da ultimo è stata prevista la responsabilità degli enti rispetto a certe fattispecie tributarie tramite legge 19 dicembre 2019, n. 157, che ha introdotto nel decreto 231 il nuovo art. 25-quinquiesdecies, con riferimento ai seguenti reati tributari: dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, co.1 e co. 2-bis); dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3); emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8, commi 1 e 2-bis); occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10); sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11).

Successivamente il d.lgs. 14 luglio 2020, n. 75, ha ‘aggiunto’ al decreto 231 anche i seguenti ed ulteriori reati tributari: dichiarazione infedele (art. 4); omessa dichiarazione (art. 5); indebita compensazione (art. 10-quater).

In questo caso, le nuove fattispecie di reato sono state introdotte limitando la responsabilità dell’ente solo se commesse nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri al fine di evadere l’IVA per un importo superiore a 10 milioni di euro.

Le modifiche sono state risolutive perché -finalmente- sono stati arginati i vari tentativi giurisprudenziali volti ad individuare, in mancanza di un’apposita disposizione normativa, un escamotage al fine di coinvolgere l’ente.

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