Responsabilità civile

Sulle tracce di Santex: arricchimento senza giusta causa ed effettività della tutela

Le Sezioni Unite dovranno decidere se l'infondatezza della domanda principale di responsabilità precontrattuale precluda l’esame della domanda subordinata di ingiustificato arricchimento

La Terza Sezione della Cassazione, con ordinanza n. 5222/2023 (testo in calce), ha deferito al Primo Presidente la seguente questione, affinché valuti l’opportunità di rimetterla alle Sezioni Unite Civili: se l’infondatezza della domanda di responsabilità precontrattuale, proposta in via principale, precluda l’esame della domanda subordinata di arricchimento senza causa, in base alla regola della sussidiarietà di detta azione.

Sommario

La vicenda

Una società finanziaria immobiliare è proprietaria di un terreno in un Comune.

Il terreno, nel momento in cui la società lo ha acquistato, aveva natura edificabile: la proprietaria presentava, infatti, un piano di lottizzazione finalizzato alla concessione edilizia (ora permesso di costruire).

La nuova compagine amministrativa, succeduta alla prima nella guida del Comune, modifica il piano di fabbricazione e il regolamento edilizio, variando la destinazione urbanistica del terreno da residenziale ad agricola, con conseguente perdita di valore dello stesso.

La società rinuncia a muovere osservazioni alla variante, avendo ricevuto rassicurazioni da parte del sindaco dell’epoca circa il futuro ripristino della natura edificatoria del terreno, data la sua attitudine alla viabilità e al collegamento con altre aree.

Successivamente, il Comune adotta una variante al piano di lottizzazione, onde consentire l’interramento di cavi ad alta tensione nel terreno.

La società si offre di effettuare l’interramento in cambio del già promesso ripristino della natura edificabile del terreno, ma il Comune “sembra disattendere” la parola data: il terreno rimane agricolo, sebbene, nel frattempo la società abbia speso 150.000, 00 € per l’interramento dei cavi.

Quest’ultima agisce, quindi, in giudizio, per far valere la responsabilità precontrattuale del Comune, e, in subordine, per l’arricchimento senza causa dello stesso.

Il Tribunale rigetta, per difetto di prova, la domanda volta a far valere la responsabilità precontrattuale, ma accoglie la domanda di indebito arricchimento.

La Corte d’Appello, investita della questione dal Comune, ritiene la domanda di arricchimento inammissibile per difetto di sussidiarietà.

La società finanziaria ricorre in Cassazione, richiamando giurisprudenza della Suprema Corte, in base alla quale la regola che rende residuale l’azione di arricchimento si applica nei soli casi in cui l’azione proposta in via principale è fondata o sul contratto o sulla legge, e non si applica quando invece l’azione principale è fondata su una clausola generale.

La giurisprudenza richiamata dalla società ricorrente ammette l’azione di arricchimento ingiustificato nei casi in cui l’azione proposta in via principale sia fondata sulla responsabilità precontrattuale del convenuto. E dunque anche quando quest’ultima, pur esperita, sia stata tuttavia rigettata.

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Il contenuto dell’ordinanza n. 5222/2023 della Cassazione

La deduzione posta dalla ricorrente come centrale, nelle proprie difese, induce la Terza Sezione della Cassazione a porsi la seguente questione: se sia da seguire la tesi secondo cui l’azione di arricchimento sia ammessa in via residuale solo ove quella svolta in via principale non abbia titolo in un contratto o nella legge, oppure se la residualità valga sempre, quale che sia l’azione che si fa valere.

La tesi propugnata dalla ricorrente è la seguente.

L’azione di arricchimento è residuale solo rispetto ad azioni basate sul contratto o sulla legge (azioni tipiche; v. Cassazione n. 4620/2012).

Invece, se l’azione alternativa è basata su una clausola generale, allora la sua disponibilità non preclude di agire con l’azione di arricchimento.

La ragione di tale regola è che, altrimenti, l’azione di arricchimento senza causa finirebbe per diventare strumento per eludere o aggirare i limiti esistenti nei confronti dell’azione tipica.

Invece, la preclusione non opera, quando la parte può esercitare contro l’arricchito un’azione basata su clausola generale e questo assunto è ulteriormente illustrato in questi termini: per poter dire che esiste un’azione alternativa a quella di arricchimento, e che dunque quest’ultima è preclusa, occorre verificare il titolo, occorre cioè verificare se l’interessato abbia un titolo da far valere, in via principale e, dunque, in alternativa all’arricchimento.

Tuttavia, nei casi in cui l’azione principale sia fondata su clausola generale, come nel caso di responsabilità aquiliana o anche precontrattuale, per stabilire se c’è un titolo che legittima quell’azione e che, di conseguenza, impedisce l’alternativa dell’azione di arricchimento, occorre valutare nel merito la domanda principale (nel caso di responsabilità aquiliana, se sussistano dolo o colpa, nesso causale, ingiustizia del danno, eccetera), e non limitarsi alla sua mera disponibilità.

Per tale tesi, detta restrittiva, la regola della residualità dell’azione di arricchimento avrebbe il fine di evitare aggiramenti nei confronti dell’azione tipica (fondata su contratto o legge) e legittima l’azione di arricchimento nel solo caso in cui la domanda fondata su clausola generale risulti infondata nel merito.

Secondo altro orientamento, la ratio della residualità è quella di impedire che il soggetto impoverito, il quale abbia ottenuto ristoro mediante diverso rimedio, ne ottenga un altro (ristoro) con l’azione di arricchimento.

Tanto si ricaverebbe da alcune disposizioni codicistiche, che prevedono come alternativa l’azione di arricchimento rispetto ad altre (artt. 936, 1591 c.c.).

Questa ricostruzione è favorita da due argomenti: a) la tesi della residualità riposa sul divieto di cumulo di azioni; b) occorre verificare la fondatezza dell’azione principale.

La Cassazione, tuttavia, precisa che le azioni, quali poteri processuali, non sono tipiche (non deve confondersi l’asserita tipicità dell’azione con quella della fattispecie): quando ci si riferisce alla tipicità dell’azione aquiliana o precontrattuale ci si riferisce, in realtà, alla tipicità della fattispecie, non dell’azione.

Desta perplessità la ratio per cui la residualità si fonderebbe sul divieto di cumulo di azioni: la Cassazione osserva che la possibilità di un doppio risarcimento è di scuola e del tutto residuale, ostandovi le regole del giudicato e il principio per cui da un fatto illecito può derivare solo un risarcimento pari al danno e non superiore ad esso.

Non rilevano neppure le norme richiamate a sostegno della tesi del divieto di cumulo: la regola, secondo cui il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto sino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno (art. 1591 c.c.), non ha nulla a che fare con l’arricchimento ingiustificato, ma mira a dare al locatore la misura esatta del suo pregiudizio.

Nel caso di cui all’art. 937 c.c., la Cassazione rileva che la scelta rimessa al proprietario di mantenere le opere fatte dal terzo sul proprio suolo anziché farle eliminare, e pagare l’eventuale differenza, non mira a evitare un arricchimento ingiustificato del proprietario (o del terzo), ma salvaguarda l’interesse del proprietario in ordine alle modalità di reazione all’illecito e trova la propria ratio all’interno delle norme sulla proprietà: le opere fatte dal terzo andrebbero al proprietario per accessione, spettando a costui la scelta se ritenerle o meno.

Per la Cassazione, la ratio della residualità dell’azione di arricchimento, tende, invece, a evitare che chi ha perso l’azione principale, e dunque non ha ottenuto il risarcimento, possa aggirare questo esito ricorrendo all’azione di arricchimento ingiustificato.

Questa è la ragione per cui l’azione di arricchimento è impedita, se quella principale è prescritta.

Se la ratio fosse di evitare duplicazioni di risarcimenti (tesi che la Cassazione avversa), prescritta o rigettata l’azione principale, quella di arricchimento dovrebbe essere consentita, posto che il suo accoglimento non comporterebbe una duplicazione risarcitoria.

Della prima tesi, cosiddetta restrittiva (che si fonda sull’impedire l’utilizzo dell’azione di arricchimento al fine di aggirare i limiti dell’azione tipica, fondata su contratto o legge) la Cassazione non comprende la ratio: non si comprende, cioè, perché l’esigenza di evitare il predetto aggiramento non si avverta anche rispetto a un’azione alternativa basata su clausola generale.

Se la regola della residualità sta nell’evitare che, inutilmente esperita o esperibile l’azione principale o prescritta che sia, l’interessato possa rimediare a questo esito con l’azione di arricchimento, non si vede perché tale esigenza debba limitarsi alle azioni fondate sul contratto o sulla legge e non estendersi anche a quelle fondate su clausola generale.

La Cassazione non comprende neppure perché, secondo un certo filone giurisprudenziale, quando l’azione principale è basata su clausola generale, per verificare se l’interessato abbia un titolo da far valere (alternativo all’arricchimento) si dovrebbero accertare tutti i presupposti del diritto (per esempio, il dolo, il nesso di causa, l’ingiustizia del danno).

In questo modo si finirebbe per trasformare l’accertamento dell’esistenza del titolo nell’accertamento sulla fondatezza della domanda.

Per la Cassazione, non si vede perché la preclusione dell’azione di arricchimento non possa derivare dalla sola prospettazione o dal solo esperimento di un’azione spiccata in via principale, basata su una clausola generale, e si debba, invece, valutare se questa sia fondata, per poter dire che c’era o meno titolo per un’azione diversa.

Se è vero che l’azione di arricchimento senza causa ha carattere sussidiario ed è quindi inammissibile, ai sensi dell’art. 2042 c.c., allorché chi la eserciti, secondo una valutazione da compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, possa esercitare un’altra azione, da ciò discende che non si richiede in concreto la prova di un rimedio concorrente concretamente fruibile, ma è sufficiente che un tale rimedio risulti configurato in astratto.

L’accertamento dell’esistenza di un titolo in astratto, che giustifica una diversa azione, è identico, quale che sia la fattispecie su cui l’azione è fondata.

Ma anche ad ammettere che, nel caso di clausola generale, l’indagine sulla sussidiarietà dell’azione di arricchimento rischi di diventare indagine nel merito, ossia tesa a valutare non solo l’astratta disponibilità dell’azione alternativa, ma altresì se di quest’ultima sussistano i presupposti, nel caso sottoposto dalla società all’attenzione della Cassazione, tale obiezione non avrebbe senso, nella misura in cui tale indagine è già stata compiuta e l’azione principale, giudicata nel merito, è stata rigettata.

I giudici di merito hanno ritenuto, infatti, sfornita di prova la domanda di responsabilità precontrattuale, con la conseguenza che ammettere l’azione di arricchimento significava aprire la possibilità di aggirare il rigetto della domanda principale mediante l’esperimento di quella sussidiaria.

Benché la regola della sussidiarietà dell’azione di arricchimento sia sconosciuta ad altri ordinamenti e sia presente solo nel nostro e in quello francese, si giustifica pur sempre al fine di evitare aggiramenti della legge, e si propone di leggere l’art. 2042 c.c. insieme all’art. 1344 c.c.

In questo caso, la regola della sussidiarietà impedirebbe l’esperibilità dell’azione di arricchimento per evitare l’aggiramento, nel merito, dell’azione principale.

Per questi motivi, la Terza Sezione della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché valuti l’opportunità di rimettere la questione alle Sezioni Unite Civili.

Considerazioni a margine

Chi scrive vuol provare a dare una lettura del tutto personale (e, come tale opinabile) della questione sopra esaminata, sapendo di non potersi giovare della conoscenza degli atti processuali del giudizio, che ha dato luogo alla questione sopra esaminata.

Nella vicenda in esame, a prima vista, possono rinvenirsi punti di analogia tra questo e il caso Santex, esaminato dalla Corte di Giustizia nel 2003.

In quest’ultimo, i giudici del Lussemburgo avevano evidenziato un vulnus all’effettività della tutela da parte della normativa nazionale, che non consentiva al giudice interno di disapplicare le norme sui termini di decadenza per impugnare un atto amministrativo illegittimo in casi simili a quello occorso alla società Santex.

La Santex aveva intenzione di partecipare a una gara bandita da una Usl (ora Asl), ma riteneva che una clausola del bando, la quale richiedeva un certo fatturato per poter partecipare alla procedura selettiva, fosse in contrasto con i principi di concorrenza di matrice europea.

Aveva però ricevuto assicurazione da parte della Usl che la clausola di esclusione non sarebbe stata applicata.

Ma, alla prova dei fatti, la Santex era stata esclusa, essendo peraltro decaduta dalla possibilità di impugnare il bando.

Aveva tuttavia impugnato l’atto amministrativo, evidenziando la scorrettezza della stazione appaltante.

La questione era approdata davanti al Consiglio di Stato, che, attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, aveva consentito a quest’ultima di chiarire che, sebbene i termini di decadenza non costituiscano, in generale, un vulnus al principio di effettività della tutela e di equivalenza (rispetto ad analoghe fattispecie interne adeguatamente tutelate attraverso termini di azione stringenti), nel caso di specie, la normativa sulla decadenza dall’azione aveva reso inapplicabili le norme comunitarie in materia di appalti, impedendo alla società di adire il giudice amministrativo per annullare la clausola escludente.

Questa vicenda presenta indubbi punti di contatto con la presente questione, se si pensa che la società finanziaria, protagonista del caso all’esame della Cassazione, non aveva impugnato la variante al piano di fabbricazione, avendo ricevuto assicurazione (così affermava), da parte del sindaco dell’epoca, che l’area acquistata sarebbe tornata presto edificabile.

L’adozione della variante al piano di fabbricazione, tale da rendere l’area interessata dalla lottizzazione, da edificabile ad agricola, costituiva revoca implicita del piano di lottizzazione.

E rispetto a questa vicenda la società avrebbe ben potuto far valere la responsabilità precontrattuale da affidamento tradito, per aver stipulato una convenzione (sostitutiva di un provvedimento) divenuta inefficace, indipendentemente dalla legittimità o meno della revoca, per comportamento scorretto della p.a., che aveva precluso alla società l’ottenimento dei permessi di costruire (o determinato la loro caducazione), secondo la logica propria dell’art. 1338 c.c. o, comunque, far valere l’illegittimità della revoca implicita o, ancora, far valere l’inadempimento del comune e la relativa responsabilità innanzi al g.a in sede di giurisdizione esclusiva, il quale, com’è noto, può conoscere anche degli aspetti relativi all’esecuzione delle convenzioni urbanistiche, quali accordi tra p.a. e privato stipulati ex art. 11 l. 241/1990.

Invece, la società aveva rinunciato a far valere le proprie ragioni in sede giudiziaria.

Il piano di lottizzazione è uno strumento urbanistico, di iniziativa prevalentemente privata, volto all’urbanizzazione di nuove aree e a completare l’edificazione nelle zone di espansione.

Per la sua attuazione, deve stipularsi una convenzione (accordo sostitutivo di provvedimento amministrativo ex art. 11 l. 241/1990), in cui i privati lottizzanti si impegnano a cedere gratuitamente, al Comune, le aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e a corrispondere gli oneri per la realizzazione dell’urbanizzazione primaria e parte della secondaria.

La realizzazione delle opere di urbanizzazione costituisce il presupposto per chiedere i singoli titoli abilitativi al fine di edificare.

Nel caso di specie, la variante al piano di lottizzazione non poteva essere adottata, o meglio: è stata adottata in carenza di potere, però non è stata impugnata.

La convenzione originaria, infatti, era ormai revocata (in ragione dell’adozione della variante al piano di fabbricazione, che aveva trasformato l’area da edificabile in agricola) e, in ogni caso, priva di effetto, stante la nuova destinazione urbanistica dell’area (e probabilmente erano anche decorsi i termini per edificare).

Come ha ricordato il Consiglio di Stato, con la sentenza della IV Sezione, n. 536 del 2019, anche per le varianti al piano di lottizzazione è necessario il consenso di tutte le parti interessate.

In particolare, per qualsiasi variante al piano di lottizzazione è necessario il consenso espresso da parte di ogni proprietario interessato, che si concretizza, in primo luogo, con il pieno rispetto delle garanzie partecipative nel procedimento di variante.

Anche la variante al piano di lottizzazione richiede, quindi, un accordo sostitutivo di provvedimento, che ha forza di legge tra le parti ex art. 1372 c.c.

Non si sa se, in concreto, questa seconda convenzione (integrativa), nel caso di specie, sia stata adottata.

In ogni caso, non risulta che questa, ove esistente, sia stata impugnata per carenza di potere in capo alla p.a. in relazione alla sua emanazione (visto che il piano di lottizzazione non era più operante, o per eventuale difetto di causa, di forma o di accordo).

Molto probabilmente, una seconda convenzione integrativa non c’è mai stata: sussiste verosimilmente solo una delibera comunale di variante a un piano di lottizzazione (non più efficace), di cui non risulta sia stato chiesto l’annullamento davanti al g.a. (sebbene il giudice civile avrebbe potuto disapplicarla, incidenter tantum, in applicazione dell’art. 5 LAC).

Una cosa è certa: la società aveva fatto affidamento sulla legittimità dei titoli in base ai quali aveva operato l’interramento dei cavi su terreno pur sempre agricolo.

D’altra parte, il comportamento del Comune non poteva dirsi neutro: aveva adottato la variante al piano di lottizzazione, sebbene in carenza assoluta di potere; l’interramento dei cavi era, quindi, avvenuto col suo benestare (rispetto alla cui posa in opera l’ente aveva assunto un preciso impegno con un comune vicino).

In genere, in seguito a variante a piano attuativo (di lottizzazione), vengono rilasciati permessi di costruire per le opere di urbanizzazioni (in questo caso, per la posa dei cavi).

I cavi erano stati interrati, ma la destinazione urbanistica dell’area non era stata mutata.

La difesa della società aveva subordinato l’azionabilità dell’ingiustificato arricchimento da parte del Comune all’accertamento della ricorrenza, o meno, da parte del giudice, dei presupposti della responsabilità precontrattuale (che il Tribunale ritenne non provata, accogliendo di conseguenza l’azione di ingiustificato arricchimento).

Tuttavia, di fatto, i cavi erano stati interrati col consenso del Comune (che aveva interesse a tale interramento, sulla base di precisi accordi assunti con comune limitrofo).

Con un simile comportamento, oggettivamente valutabile, il comune aveva riconosciuto implicitamente l’utilità dell’opera.

Nel caso di specie, difettava in capo alla società un’azione tipica (la convenzione di lottizzazione era stata revocata per effetto del mutamento di destinazione dell’area); la variante non era stata impugnata, ma alla società, in definitiva, non interessava contestare la posa in opera dei cavi, quanto il mancato conseguimento del mutamento di destinazione dell’area; perciò, il difensore della finanziaria aveva fatto valere non l’illegittimità di un atto (la seconda variante), che forse non poteva più impugnare, ma, in via principale davanti al giudice civile, la responsabilità da comportamento scorretto della p.a., concretatosi in seno al procedimento di variante lottizzatoria e successivamente allo stesso, per lesione dell’affidamento “incolpevole” della società nella ridestinazione dell’area di sua proprietà a scopo edificatorio, dopo l’interramento dei cavi.

Il mutamento di destinazione certo non era oggetto della variante al piano di lottizzazione, che presupponeva già la destinazione edificatoria del bene (sebbene, ormai, l’area avesse destinazione agricola).

Da qui, in assenza di un titolo tipico, non rimaneva al privato che l’azione risarcitoria per lesione dell’affidamento “da contatto procedimentale”, sub specie di responsabilità precontrattuale, per lesione dell’affidamento tradito o l’azione di ingiustificato arricchimento.

Ma di tale affidamento tradito e del danno conseguente non risultava raggiunta la prova. Tuttavia, in via principale, la difesa della società aveva fatto valere prima il rimedio ritenuto più satisfattorio.

Mentre l’indennizzo da ingiustificato arricchimento è parametrato al valore dell’impoverimento e non comprende il lucro cessante, il risarcimento da responsabilità civile può comprendere, infatti, anche quest’ultimo, se debitamente provato.

Tuttavia, il giudice di prime cure aveva ritenuto sussistenti gli estremi dell’ingiustificato arricchimento.

Non può neppure sostenersi che, nel caso di specie, si fosse al cospetto di un arricchimento imposto: il Comune aveva adottato una variante al piano di lottizzazione, prevedendo del tutto consapevolmente l’interramento dei cavi nel terreno della società, che aveva eseguito l’opera nella presunzione della legittimità dell’azione amministrativa.

In altri termini, nella misura in cui il comune le consentiva di procedere all’interramento dei cavi, la stessa società poteva dirsi in buona fede (sebbene non in senso precontrattuale) circa la funzionalizzazione di quell’attività alla successiva edificabilità dell’area, ritenendo fondato l’autovincolo del comune (attraverso l’adozione della variante al piano di lottizzazione) a “considerare” l’area, anche in futuro, edificabile.

Il comune dall’attività della società traeva un incontrovertibile beneficio, a cui era correlato l’impoverimento della stessa.

Peraltro, per orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, il depauperato che agisca contro la p.a. con l’azione di ingiustificato arricchimento deve solo provare il fatto oggettivo dell’arricchimento.

Nel caso di specie, non trovava neppure applicazione l’art. 23 del d.l. 66/1989, secondo cui la prestazione del privato verso la p.a. (senza preventivo impegno di spesa) può essere soddisfatta dall’ente solo previo riconoscimento della legittimità del predetto impegno.

In questo caso, il privato (la società) aveva realizzato l’opera di interramento dei cavi in una logica lato sensu compensatoria, aspettandosi il ripristino della destinazione edificatoria dell’area di sua proprietà (quindi una spesa vera e propria, da parte dell’ente, non c’era stata).

Nel caso di specie, a chi scrive pare che, a certe condizioni (che si espliciteranno innanzi), possano ricorrere le esigenze equitative alla base dell’azione di ingiustificato arricchimento: cioè la necessità di reintegrare la società dello spostamento patrimoniale ingiustificato.

La stessa possibilità di proporre una domanda in via subordinata implica che la parte dubiti essa stessa della piena fondatezza di quella proposta in via principale; se si ragionasse diversamente, si dovrebbe giungere alla conclusione che, in caso di arricchimento senza causa, non si dovrebbe mai proporre l’azione ipotizzata come alternativa in via principale, dovendosi sempre e solo agire direttamente per l’ingiustificato arricchimento, salvo lasciare al giudice il compito di individuare l’eventuale difetto di sussidiarietà dell’unica azione proposta.

Per questa ragione, a parere di chi scrive, proprio la tesi criticata dall’ordinanza della Cassazione meriterebbe di essere rimeditata, sia pure in una prospettiva più rigorosa, in modo da renderla compatibile con la stessa ordinanza n. 5222/2023.

Ci si riferisce alla tesi propugnata dalla pronuncia del Giudice di Legittimità n. 4620/2012, secondo cui l’azione di arricchimento sarebbe ammissibile in difetto di azioni tipiche e se quelle fondate su clausola generale (come la responsabilità aquiliana) non siano fondate nel merito.

Ma occorre fare una precisazione metodologica importante al riguardo: l’azione fondata su clausola generale, che consentirebbe di azionare l’ingiustificato arricchimento, non dovrebbe essere infondata, nel senso che la parte non ne ha provato o non è stata in grado di provarne i presupposti (sebbene fosse astrattamente configurabile), ma infondata, nel senso che non sussistevano affatto i presupposti per proporla né in astratto né in concreto.

Perciò, se l’azione principale fondata su clausola generale, pur proposta, non doveva esserlo (per difetto dei presupposti legittimanti), l’azione di arricchimento proposta in via subordinata, ricorrendone le condizioni, dovrebbe poter essere scrutinata, al fine di non consentire indebite locupletazioni da parte di chi abbia tratto vantaggio da un facere altrui, incoraggiato da condotte concludenti e oggettivamente valutabili, e in assenza di un titolo valido allo spostamento patrimoniale.

Ora, alla luce di questo indirizzo del Giudice di Legittimità del 2012, letto in sinergia con l’ordinanza n. 5222/2023 della Cassazione, se sussistevano i presupposti per la responsabilità precontrattuale, ma la società non è riuscita “a provarli o a provare il danno”, nella misura in cui ha più allegato che provato in sede processuale, allora ha perso l’azione sussidiaria di ingiustificato arricchimento, per difetto di corredo probatorio in sede processuale.

Se, invece, la società non poteva provare tutti i presupposti della ricorrenza dell’azione di responsabilità precontrattuale, “non per carenza probatoria” da parte sua, ma perché questi difettavano in concreto (il ragionevole affidamento sull’operato della p.a., il dolo o la colpa di questa, la sussistenza di un danno, il nesso causale tra condotta scorretta e danno, l’assenza di colpa in capo alla società stessa - sussistente, ad esempio, per sua interpretazione errata della legge urbanistica-), allora bisognerebbe riconsiderare la questione.

Se la società, in definitiva, non poteva ragionevolmente confidare sul futuro mutamento di destinazione dell’area (in quanto riservata all’attività discrezionale dell’ente); se, sulla base delle disposizioni della legge urbanistica, poteva rendersi conto che la convenzione di lottizzazione risultava revocata e che la posa in opera dei cavi era avvenuta su terreno ancora agricolo, non poteva ritenersi esente da colpa: il suo affidamento, per quanto giustificato da “promesse” del comune (non provabili o difficili da provare) sul cambio di destinazione dell’area, poteva ritenersi irragionevole, facendo venire meno uno dei presupposti per invocare la responsabilità precontrattuale.

Ciò non toglie che la società avesse ottemperato alla variante (non impugnata) al piano di lottizzazione (per quanto non più efficace), operando l’interramento dei cavi, arricchendo il comune, che ne aveva consentito la posa in opera.

Nella sentenza Santex, l’Usl aveva assicurato che non avrebbe tenuto conto della clausola escludente, qui il comune rilasciava variante a piano attuativo (ed eventuale permesso) per la realizzazione dei cavi di interramento, evidentemente nella prospettiva di considerare, anche in futuro, effettivamente edificatoria l’area o così volendo lasciar intendere.

Era proprio sulla base dei titoli legittimanti (per quanto astrattamente illegittimi o invalidi) che la società aveva realizzato gli interventi di interramento dei cavi dell’alta tensione nel proprio terreno.

La sentenza Santex ci ha dimostrato che un’applicazione formalistica delle regole processuali può risolversi in un vulnus al principio di effettività della tutela.

Per tale ragione, credo che il concetto di sussidiarietà dell’azione di ingiustificato arricchimento vada letta in senso sostanziale e tale da garantire, ove possibile, l’effettività della tutela.

In caso contrario, si assisterebbe a un paradosso: l’aver negato il più satisfattorio risarcimento potrebbe impedire che si riconosca l’ingiustificato arricchimento, solo perché l’attore ha subordinato un’azione all’altra, sebbene la prima fosse stata proposta più per la preoccupazione di difendere in maniera piena l’attore che per la concreta sussistenza degli effettivi presupposti per proporla.

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