Lavoro e previdenza sociale

Procedimento disciplinare nel pubblico impiego: l’istruttoria e l’adozione della sanzione

Il ''patteggiamento disciplinare'' e la determinazione concordata della sanzione

Il procedimento disciplinare si snoda in tre principali fasi: alla “contestazione degli addebiti”, che cristallizza l’ipotesi accusatoria del datore di lavoro, seguono la fase “istruttoria” del procedimento e “l’adozione della sanzione” vera e propria nei confronti del lavoratore.

Sommario

L’audizione del lavoratore e il diritto di difesa nella fase istruttoria 

Alla contestazione degli addebiti, in ossequio al principio del contraddittorio, segue l’audizione del pubblico dipendente interessato dal procedimento, a pena di nullità della sanzione, giacché la convocazione del lavoratore per ascoltarlo a sua difesa è condizione essenziale del corretto esercizio del potere disciplinare. Tale nullità non sarebbe configurabile nel caso in cui il lavoratore sia riuscito ugualmente a dispiegare per iscritto idonee difese, anche alternative all’audizione, manifestando un’adeguata comprensione delle accuse mossegli o addirittura ammettendone la fondatezza (Cass., sez. lav., 6 marzo 2019 n. 6555). Preferibilmente attraverso l’atto di contestazione, il lavoratore deve essere convocato per l’audizione dal titolare dell’azione disciplinare, anche nel caso in cui abbia già prodotto memorie difensive (Cass., sez. lav., 16 gennaio 2018 n. 854) ed altresì qualora sia stato cautelarmente sospeso; con la caduta della “pregiudiziale penale”, inoltre, se sottoposto a misure restrittive, potrà essere sentito presso la sede carceraria, previo accordo tra il direttore della stessa e l’U.P.D. 

Ai sensi dell’art. 55-bis, co. 4, d.lgs. n. 165 del 2001, dopo il d.lgs. n. 75 del 2017, l’audizione dell’incolpato non può avvenire prima di 20 gg., termine dilatorio (Cass., sez. lav., 28 dicembre 2019 n. 28741) comprensivo di festivi e prefestivi, sia per i procedimenti dell’U.P.D., sia per quelli del capo struttura (nel silenzio del CCNL su eventuali termini più contratti per quest’ultimo). Il computo di tale termine a difesa deve avere riguardo al momento in cui il dipendente abbia avuto conoscenza degli addebiti, cioè alla data di ricezione della contestazione-convocazione; sarebbe infatti auspicabile che i due atti coincidessero, al fine di evitare inopportune lungaggini procedimentali.

In difetto di specifiche previsioni normative, l’eventuale espletamento di ulteriori attività istruttorie da parte dell’amministrazione in seguito all’audizione del lavoratore non comporta l’obbligo di disporre convocazioni aggiuntive; la mancata protocollazione di verbali afferenti all’attività istruttoria espletata, inoltre, non genererebbe invalidità né del procedimento, né della sanzione disciplinare (Cass., sez. lav., 9 gennaio 2019 n. 264).

La Suprema Corte ha escluso che la convocazione presso il luogo di lavoro del dipendente, o nelle ore di lavoro, sia tale da rendere eccessivamente difficoltoso il diritto di difesa garantito dal contraddittorio ed ha ammesso, nei casi di grandi distanze tra sedi amministrative, deleghe istruttorie ai dirigenti locali per l’espletamento delle relative attività (Cass. sez. lav., 01 giugno 2012 n. 8845). In ogni caso, per evitare pretestuose eccezioni difensive, il luogo e l’orario della convocazione andranno indicati in maniera precisa e puntuale (data, ora, città, indirizzo, edificio, piano, stanza).

Oltre al diritto di essere sentito personalmente, il dipendente interessato da procedimento disciplinare ha la facoltà di limitarsi a produrre memoria scritta in cui esporre le proprie ragioni, essendo libero circa le modalità di esercizio della propria difesa e, ai sensi del co. 4 cit. art. 55-bis, può farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. A fronte di fatti contestati che possano assumere rilevanza penale, inoltre, potrà far compiere dal proprio legale l’attività investigativa preventiva prevista dall’art. 391-nonies c.p.p.

Sia nel caso in cui il dipendente decida di esercitare le proprie facoltà difensive, sia che decida di non farlo, la sanzione verrà irrogata entro il termine perentorio di 120 gg. dall’avvenuta contestazione degli addebiti.

In base all’art. 55-bis, co. 6, l’ufficio per i procedimenti disciplinari può, nel corso dell’istruttoria e senza convocare ulteriormente il lavoratore, ascoltare altri lavoratori o terzi, svolgere ispezioni e acquisire da altre amministrazioni pubbliche informazioni o documenti rilevanti per la definizione del procedimento, in ossequio ai noti principi li leale collaborazione tra enti. I riscontri istruttori, da recepire poi in motivazione soprattutto nei casi di sanzione espulsiva, dovranno essere accurati specie con riguardo a fattispecie di illecito che si fondano su previsioni legislative o contrattuali poco “tassative” come, ad esempio, il licenziamentoper scarso rendimento” (sulla prova, da parte del datore di lavoro, dello “scarso rendimento” v. Cass., sez. lav., 16 luglio 2013 n. 17371).

L’attività istruttoria, di per sé, non genera sospensione del procedimento disciplinare, né il differimento dei relativi termini. Tuttavia, ove si prospetti l’assenza all’audizione per “grave e oggettivo” impedimento, ferma sempre la possibilità di depositare memorie scritte, il dipendente potrà fare richiesta, soltanto per una volta, di differimento dell’audizione a sua difesa, con proroga del termine per la conclusione del procedimento in misura corrispondente. L’impedimento previsto dalla legge, le cui cause potranno essere allegate e comprovate dal lavoratore, può ravvisarsi nei casi di stati fisici o psichici oggettivamente gravi ed apprezzabili che impediscano una materiale effettuazione del colloquio col datore di lavoro, quali severe e certificate patologie ostative o improcrastinabili esigenze di partecipare a riti funebri o religiosi (in dottrina, D. ANTONUCCI, Il Procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Napoli, 2018).

Ne discende che il datore di lavoro è tenuto a dar seguito a tale richiesta solo quando la stessa risponda ad effettive esigenze di difesa non altrimenti tutelabili e non qualora appaia causata da fini meramente dilatori, equivoci o generici, ovvero emerga che la difesa sia già stata esaustivamente operata mediante giustificazioni scritte non suscettibili, in ragione della loro completezza, ad essere convalidate da ulteriori circostanze, spettando comunque al giudice di merito stabilire concretamente, anche attraverso l’esame del comportamento tenuto dalle parti, nonché in ragione dei principi di correttezza e buona fede, se nella fattispecie considerata si sia dato luogo ad una concreta violazione del diritto di difesa dell’incolpato.

Proprio ai fini di garanzia della pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa, il lavoratore ha pieno accesso agli atti istruttori del procedimento disciplinare, non ai sensi della l. n. 241 del 1990, inapplicabile alla materia lavoristica “privatizzata”, bensì in virtù dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro, che comporterebbero l’obbligo del datore di offrire in visione la documentazione istruttoria, rendendola immediatamente disponibile, ove il lavoratore ne faccia richiesta (Cass., sez. lav., 3 gennaio 2017, n. 50). Ma soprattutto, il diritto di accesso è testualmente garantito dall’art. 55-bis, co. 4, del Testo Unico sul pubblico impiego, senza dimenticare gli indirizzi del Consiglio di Stato (Cons. St. sez. VI, sentenza 2 gennaio 2020, n. 28), confermati dall’Anac, secondo cui il diritto a visionare gli atti del procedimento non costituirebbe mera posizione strumentale all’ottenimento di documenti amministrativi, bensì una diversa “situazione giuridicamente tutelata” come distinto e autonomo diritto soggettivo del dipendente (cfr. Cons. St. 13 luglio 2017 n. 3461); ciò ha portato a ritenere l’accesso “difensivo” prevalente anche sulle garanzie di anonimato del whistleblower, introdotte in sede disciplinare all’art. 54-bis, co. 4. del d.lgs. n. 165 dalla legge anticorruzione del 2012 (Cfr. Nota Anac del 13 ottobre 2015: «quando la contestazione che ha dato origine al procedimento disciplinare si basa unicamente sulla denuncia del dipendente pubblico, colui che è sottoposto al procedimento disciplinare può accedere al nominativo del segnalante, anche in assenza del consenso di quest'ultimo, solo se ciò sia “assolutamente indispensabile” per la propria difesa. Come anche evidenziato nella determinazione 6/2015, l'Autorità è consapevole che l'esatta individuazione dei presupposti che fanno venir meno la riservatezza dell'identità del segnalante sia un fattore cruciale per l'efficacia del sistema di whistleblowing, costituendo uno degli elementi su cui poggiano le garanzie del per il dipendente pubblico». In sintonia con il Provv. 12 aprile 2007, doc. n. 1402759 del Garante della privacy, in cui si chiarisce che in caso di richieste da parte del lavoratore di conoscere i dati personali in base ai quali il datore di lavoro ha formulato la contestazione disciplinare, il datore può soddisfare la richiesta indicando i ruoli, le categorie o gli uffici aziendali dai quali sono pervenute le segnalazioni, senza indicare anche l'identità delle persone fisiche che materialmente le hanno compiute, non sussistendo il diritto del dipendente di accedere a dati personali riferiti a terzi).

L’adozione della sanzione disciplinare: forma scritta, motivazione, efficacia e differimento, pubblicità

Esaurita la fase istruttoria nel rispetto del contraddittorio, l’organo disciplinare avrà acquisito elementi utili per le proprie determinazioni e chiuderà il procedimento o assolvendo l’incolpato, con provvedimento di archiviazione, o comminando la giusta (rectius proporzionata) sanzione entro il termine perentorio di 120 gg. dalla contestazione dell’addebito, salvo i termini “accelerati” previsti per i casi di false attestazioni di presenza in servizio introdotti dal decreto Renzi n. 116 del 2016 e poi estesi anche ai casi di fatti punibili con licenziamento colti in flagranza.

Come chiarito dalla Corte di Cassazione secondo un principio applicabile anche al lavoro pubblico privatizzato, quello indicato all’art. 55-bis, co. 4, del Testo unico sul pubblico impiego, è un termine massimo che non impedisce all’amministrazione di adottare una sanzione disciplinare anche prima che lo stesso sia interamente spirato, qualora il lavoratore abbia esercitato pienamente il proprio diritto di difesa (Cass. SS.UU. 7 maggio 2003 n. 6900).

Si ricorda che il d.lgs. n. 75 del 2017 ha uniformato e semplificato il regime in ordine alla individuazione del dies a quo da cui far decorrere il termine conclusivo del procedimento, computandolo unitariamente a partire dalla data di contestazione dell’addebito: si è in tal modo superata la dualità previgente tra i procedimenti di competenza del capo-struttura e quelli di competenza dell’U.P.D; per quest’ultimo, infatti, la decorrenza del dies quo era fissata in un momento antecedente alla contestazione disciplinare, ossia alla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura che aveva segnalato il fatto.

Entro il termine testualmente perentorio di 120 gg. del dettato vigente, quindi, la sanzione disciplinare andrà adottata e non anche notificata al lavoratore, poiché la (spesso) successiva comunicazione al dipendente del provvedimento punitivo adottato attiene alla sfera della mera efficacia dell’atto sanzionatorio e non alla sua validità (cfr. Cass., sez. lav, 2 marzo 2017, n. 5317).

La comunicazione della sanzione disciplinare all’incolpato, dunque, si colloca al di fuori del procedimento oramai concluso e ha natura di atto recettizio ex art. 1334 c.c.; ne discende che ai fini del rispetto del termine finale del procedimento farà fede, fino a querela di falso, la data in calce alla deliberazione che irroga la sanzione, ovvero la data di protocollazione della stessa, mentre la sanzione disciplinare diverrà efficace, dispiegando, cioè, i suoi effetti esecutivi, dalla data dell’avvenuta comunicazione al dipendente, salvo che l’amministrazione, a causa di esigenze funzionali ed organizzative, non ne differisca l’esecuzione (l’evenienza è stata testualmente prevista, in via di eccezione, all’art. 72, co. 9 del CCNL 2016-2018 dirigenza area Sanità, in www.aranagenzia.it: “Nei casi di sospensione di cui al presente articolo, l’Azienda o Ente, in relazione a documentate esigenze organizzative e funzionali dirette a garantire la continuità assistenziale, può differire, per un massimo di 30 giorni sentito l’interessato, rispetto alla conclusione del procedimento disciplinare, la data di esecuzione della sanzione”). Quest’ultima evenienza pare valevole essenzialmente con riferimento a sanzioni conservative, essendo eticamente riprovevole e «giuridicamente inipotizzabile» il differimento dell’efficacia di un licenziamento disciplinare (in dottrina, V. TENORE).

Nel caso in cui il lavoratore sia stato collocato in sospensione cautelare nel corso del procedimento disciplinare, l’efficacia delle sole sanzioni espulsive viene solitamente fatta operare retroattivamente dalla data di adozione della misura cautelare, salvo il diritto del lavoratore alla conservazione di quanto percepito a titolo di assegno alimentare nel corso della misura cautelativa, trattandosi di assegno assistenziale (Cass., sez. lav., 7 dicembre 2015 n. 24801). La portata retroattiva potrà avere riflessi anche sul trattamento di fine rapporto, che in tal senso andrebbe decurtato, e di quiescenza, che potrebbe essere non ancora maturata alla data di sospensione.

Venendo alla forma della sanzione disciplinare, essa deve essere scritta ad substantiam, a pena di nullità, anche se non sono previste formule sacramentali: una conclusione che, oltre a fondarsi sull’art. 2 della l. n. 604/1966, deriva anche dai generali principi di trasparenza ed imparzialità tipica dell’agere pubblico, sebbene iure privatorum. Per il solo rimprovero verbale la forma scritta diviene opportuna soltanto ad probationem, ai fini di attestare, magari inserendola nel fascicolo d’ufficio, l’effettuata irrogazione per l’eventuale e futura contestazione della recidiva disciplinare.

Secondo diversi indirizzi giurisprudenziali, la formazione della volontà degli organi collegiali rimane distinta dalla relativa manifestazione, così mentre la prima si forma in seno all’organo secondo le proprie regole funzionali, all’esterno esso agisce nella persona del soggetto che lo rappresenta, perciò non si profilerà la necessità che tutte le persone fisiche che compongono l’U.P.D. assumano anche esternamente la paternità dell’atto di irrogazione della sanzione, sottoscrivendolo [cfr. Cass., sez. lav., 8 agosto 2019 n. 21202, in Ced Cassazione. La sentenza rimarca, con riferimento all’U.P.D., che devono essere collegialmente compiute «solo le attività valutative e deliberative vere e proprie (rispetto alle quali sussiste l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il proprio contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale) e non anche quelle preparatorie, istruttorie o strumentali, verificabili a posteriori dall'intero consesso»].

Con la consegna, o anche con il rifiuto da parte del destinatario, la comunicazione della sanzione adottata acquisterà efficacia ex art. 1334 c.c.: una comunicazione che, secondo la Corte di Cassazione, non richiede particolari formule sacramentali in merito alla volontà di recedere dal rapporto di lavoro, né in riferimento alle modalità di trasmissione; non si esige che l’atto sia doverosamente spedito con raccomandata postale al domicilio del lavoratore, né la documentazione per iscritto dell’avvenuta consegna, ben potendo quest’ultima essere comprovata dalla presenza di testimoni. Conseguentemente, sempre secondo tale indirizzo, l’eventuale spedizione dell’atto con cui viene adottato il licenziamento in luogo differente da quello del domicilio del prestatore, non ha l’effetto di trasformare il recesso del rapporto in un atto orale, né genera inefficacia del licenziamento; tuttalpiù, il datore di lavoro non si potrà avvalere della presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., ma la sanzione espulsiva produrrà comunque i suoi effetti dal momento in cui, anche con modalità diverse dalla ricezione in domicilio, il dipendente riesca a venire in possesso dell’atto (Cass., sez. lav., 10 agosto 2016 n. 16903).

Sia con riferimento alla contestazione degli addebiti, che con riferimento all’atto conclusivo del procedimento disciplinare, è stato inoltre chiarito che, qualora la raccomandata postale non sia stata consegnata al lavoratore per sua assenza o assenza dei soggetti abilitati a riceverla presso il domicilio dallo stesso dichiarato al datore di lavoro, la relativa comunicazione si presume conosciuta dall’interessato dalla data in cui viene depositato avviso di giacenza del piego presso gli uffici postali (Cass., sez. lav., 30 luglio 2019 n. 20519). Le stesse conclusioni possono essere tratte in relazione alla non addebitabilità al datore di lavoro della violazione dei canoni di correttezza e buona fede nei casi di mancata ricezione degli atti considerati dovuta ad omessa comunicazione da parte del prestatore di lavoro del cambio di residenza inizialmente dichiarata.

In merito al quesito circa la doverosità o meno della motivazione della sanzione o dell’atto di archiviazione nel procedimento disciplinare, anche in assenza di un esplicito obbligo legislativo (l’art. 55-bis del Testo Unico e l’art. 7 St. Lav. nulla dicono sul punto), sembra configurarsi applicabilità, in virtù del richiamo operato dal secondo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 165 alla normativa privatistica, dell’art. 2, co. 2, della legge n. 604 sui licenziamenti individuali, il quale sancisce l’obbligo di motivazione scritta contestuale alla comunicazione, a pena di inefficacia del licenziamento.

Pertanto, se originariamente l’obbligo di motivazione, pareva assolto dal datore di lavoro pubblico mediante semplice indicazione del fatto che era stato già oggetto di contestazione, richiamato anche per relationem, spettando poi al giudice la valutazione in merito all’idoneità del fatto medesimo a radicare il potere di estinguere il rapporto, successivamente, la Cassazione ha sottolineato come la funzione della motivazione rimanesse quella di consentire al lavoratore di comprendere, in termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue l’onere per il datore di lavoro di specificarne i motivi, anche se non sarebbe tenuto ad esporre analiticamente tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento (Cass., sez. lav., 6 agosto 2020 n. 16795).

Per ragioni di trasparenza e comprensibilità delle scelte datoriali la motivazione della sanzione pare dunque opportuna nel lavoro pubblico “privatizzato”, anche in riferimento a sanzioni conservative, soprattutto al fine di evitare eventuali contenziosi che si possano fondare su sanzioni tautologiche, giacché prive di appropriata motivazione, che imporrebbero comunque al datore di lavoro di dimostrare in giudizio la gravità degli inadempimenti e l’adeguatezza delle sanzioni, fornendo una sorta di motivazione ex post che ben poteva essere presentata contestualmente all’atto di adozione della sanzione. Obblighi di motivazione particolarmente stringenti si sono configurati in merito alle ipotesi di licenziamento, dovendo quella essere «sufficientemente specifica e completa» (Cass., sez. lav., 15 gennaio 2009 n. 834), con emersione di tutti gli elementi a causa dei quali è stato formulato giudizio sulla gravità delle condotte contestate al lavoratore, vagliata in termini di importanza e rilevanza degli inadempimenti e avendo tenuto conto di quanto esposto dall’incolpato a sua giustificazione. Ne discende che la sanzione espulsiva sarà giustificata solo dinanzi ad un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro nei casi di licenziamento per giusta causa.

Ancor più necessaria appare la motivazione di un’archiviazione disciplinare, giacché l’art. 55-sexies, co. 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, configura responsabilità disciplinare dell’organo di disciplina anche con riferimento ad archiviazioni adottate sulla base di «valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza degli illeciti in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare». Non è da trascurare, inoltre, che congruamente ai canoni di buona fede e correttezza nel rapporto di lavoro, la motivazione dell’archiviazione assolve alle esigenze di tutela della posizione del lavoratore all’interno dell’ente, nonché alla tutela del suo buon nome in ambito lavorativo, nelle relazioni coi colleghi o con i terzi che siano potuti venire a conoscenza del procedimento.

Infine, circa la divulgazione in banche dati e siti web di atti o sentenze in materia disciplinare che includano dati sensibili dell’incolpato quali stati di salute, tendenze politiche, sessuali o religiose, in base alla lettura dell’art. 52 del Codice della privacy, si può desumere che sarà di regola il dipendente interessato a presentare all’autorità giudiziaria apposita domanda – fondata su “motivi legittimi” – di schermatura delle proprie generalità, a causa della particolare natura dei dati contenuti o della delicatezza delle vicende che hanno interessato il giudizio (Cass., sez. trib., 7 agosto 2020 n. 16787); qualora invece le sentenze contengano dati di minori, rapporti di famiglia o status personali la schermatura avverrà d’ufficio.

Il c.d. “patteggiamento disciplinare”: la determinazione concordata della sanzione 

Significativa manifestazione del rispetto del contraddittorio in sede disciplinare, ma anche delle esigenze deflattive del contenzioso, è l’applicazione della sanzione su richiesta del lavoratore, o determinazione concordata della sanzione.

Si tratta di una previsione già contenuta in passato all’art. 59, co. 6, del d.lgs. n. 29/1993, poi trasfusa all’art. 55, co. 6 del Testo unico sul pubblico impiego previgente alla riforma “Brunetta”. Nell’attuale dettato del d.lgs. n. 165, l’art. 55, co. 3, conferma la natura facoltativa dell’istituto – che era già stata rimarcata dal Consiglio di Stato (Cons. St., sez. VI, 4 novembre 1990, n. 1717) anche prima della devoluzione dell’intera materia al Giudice del lavoro – non disciplinando la fattispecie in modo diretto e completo, ma rinviando alla contrattazione collettiva e limitandosi a fissare alcuni principi non derogabili.

In particolare, è disposta l’inapplicabilità dell’istituto in procedimenti disciplinari che abbiano ad oggetto condotte per le quali sia prevista la sanzione “non patteggiabile” del licenziamento. Inoltre, pur essendo statuito che sia il contratto collettivo a definire «gli atti della procedura conciliativa che ne determinano l’inizio e la conclusione», questa dovrà comunque essere instaurata e conclusa entro un termine non superiore a 30 gg. dalla contestazione dell’addebito e prima dell’irrogazione della sanzione. Ancora, la “patteggiabilità” rimane limitata alla sola entità della sanzione considerata, la quale non potrà essere di «specie diversa da quella prevista, dalla legge o dal contratto collettivo, per l’infrazione per la quale si procede» e, giacché concordemente determinata, non potrà nemmeno essere soggetta a impugnazione. L’eventuale instaurazione di tale procedura “concordata” concretizza una delle ipotesi di sospensione del procedimento disciplinare, i cui termini, dunque, rimarranno sospesi dalla data dell’apertura della procedura conciliativa e riprenderanno a decorrere in caso di conclusione con esito negativo della stessa.

In ogni caso, il c.d. “patteggiamento disciplinare”, è presentato dall’art. 55, co.3, come una mera «facoltà» della contrattazione collettiva ad introdurre «procedure di conciliazione non obbligatoria» e la natura propriamente negoziale dell’istituto ne concede l’attivabilità sia da parte del datore di lavoro, che da parte del lavoratore, senza, tuttavia, obbligo della P.A. di aderire all’eventuale richiesta promossa dal dipendente e ferma restando la decadenza delle parti dalla possibilità di instaurare ulteriormente la procedura in esame in caso di mancata accettazione della proposta.

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