Lavoro e previdenza sociale

La disciplina della sicurezza nel rapporto di lavoro: una breve ricostruzione

L'art. 2087 del Codice civile e il D.lgs. n. 81/2008: un rapporto di genus ad speciem

L'art. 2087 del Codice civile e il D.lgs. n. 81/2008: un rapporto di genus ad speciem

Sommario

  1. L’articolo 2087 del codice civile…
  2. Segue. … e il perimetro dell’obbligo di sicurezza
  3. La direttiva europea n. 1989/391 e la sua trasposizione
  4. Il Testo Unico sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro

1. L’articolo 2087 del codice civile…

La prima norma in materia di salute e sicurezza è rappresentata dall’articolo 2087 del codice civile, norma precettiva, che assume e conserva un ruolo centrale nell’ordinamento.

L’art. 2087 c.c. introduce l’obbligo di sicurezza in capo all’imprenditore, la cui importanza viene accentuata dall’entrata in vigore della Carta costituzionale e principalmente dall’art. 32 Cost., che tutela il diritto alla salute, quale fondamentale diritto dell’individuo.

Il diritto alla salute, come diritto assoluto, rientra tra i diritti inviolabili della persona ex art. 2 Cost., la cui protezione va estesa e assicurata anche all’interno dei luoghi di lavoro, manifestando, così, la necessità di un bilanciamento tra due beni di rilevanza fondamentale: lavoro e salute.

Il diritto alla salute come diritto inviolabile si esprime anche nell’art. 2087 c.c., il quale impone l’adozione di tutte le misure di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, al fine di assicurare un’adeguata protezione di un bene di rango costituzionale. L’effettività della tutela della salute, nell’ambito del rapporto di lavoro, presuppone l’esatto adempimento dell’obbligo di sicurezza e la predisposizione di tutti gli strumenti di garanzia idonei a realizzarlo.

La rilettura dell’art. 2087 c.c. alla luce dell’art. 32 Cost. pone la necessità di analizzare gli sviluppi dottrinali e giurisprudenziali relativi alla natura dell’obbligo introdotto dalla norma codicistica.

Una prima linea interpretativa, seppur risalente, ha affermato la natura extracontrattuale della responsabilità derivante dalla norma in esame, facendo leva sulla natura pubblicistica dell’obbligo di sicurezza, poiché volto a tutelare un interesse di carattere generale espresso dall’art. 32 Cost.1

Successivamente la dottrina lavoristica ha riconosciuto la natura contrattuale della norma codicistica, secondo la quale l’obbligo di tutela della sicurezza integra il sinallagma contrattuale del rapporto di lavoro. Il contratto individuale di lavoro, infatti, è integrato ai sensi dell’art. 1374 c.c. dall’art. 2087 c.c.2

Non mancano tuttavia sentenze3 nelle quali si puntualizza che sul datore di lavoro grava sia l’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. ad integrazione delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro e fonte di responsabilità contrattuale, sia il principio di neminem laedere ex art. 2043 c.c., per il quale tutti sono tenuti al dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica e fonte di responsabilità extracontrattuale in caso di violazione. In quest’ultima ipotesi l’onere di allegazione è più gravoso, poiché, oltre alla prova del nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro ed il danno lamentato, sarà necessario dimostrare l’elemento psicologico del dolo e/o della colpa che sorregge la condotta censurata. Inoltre, se la responsabilità di natura contrattuale consente al lavoratore di far valere la prescrizione ordinaria decennale, il danneggiato potrà agire nel termine breve quinquennale.

Ciononostante, l’orientamento pacificamente accolto in dottrina e oggi prevalente è quello relativo alla configurazione contrattuale dell’obbligo generale di sicurezza, la cui violazione si traduce in un inadempimento contrattuale regolato dall’art. 1218 c.c., che espone il datore di lavoro a responsabilità civile per i danni da infortunio o malattia professionale subiti dai lavoratori, con conseguente obbligo risarcitorio, nonché a responsabilità penale in base all’art. 40, co. 2, c.p. laddove non abbia impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire.

L’art. 2087 c.c. non fonda un’ipotesi di responsabilità oggettiva, sicché il lavoratore, che lamenti di aver subito un danno a causa dell’attività lavorativa svolta, ha l’onere di provare l’esistenza del danno e il nesso di causalità tra l’attività e l’evento lesivo, mentre il datore di lavoro dovrà dimostrare che l’evento dannoso derivi da causa a lui non imputabile e di aver adempiuto all’obbligo di sicurezza, adottando tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno medesimo. Il richiedente deve, quindi, allegare e provare il danno patito, potendo lamentare sia danni patrimoniali per la riduzione della capacità lavorativa specifica sia danni non patrimoniali.

La responsabilità per il danno subito dal lavoratore sussiste non solo quando il datore di lavoro omette di adottare le misure di prevenzione, ma anche quando omette di controllare e vigilare sulla corretta attuazione delle stesse da parte del lavoratore. Egli, infatti, è responsabile anche quando l’infortunio è ascrivibile a imperizia, negligenza e imprudenza del lavoratore.

Il datore di lavoro è esonerato da responsabilità nelle ipotesi in cui il lavoratore abbia assunto un comportamento abnorme, arbitrario ed imprevedibile, del tutto estraneo all’attività lavorativa espletata e alle direttive ricevute, idoneo ad interrompere il nesso causale tra condotta datoriale ed evento lesivo e ad assurgere a causa unica ed autonoma del fatto dannoso.

2. Segue. … e il perimetro dell’obbligo di sicurezza

L’art. 2087 c.c. è una norma generale che individua i beni oggetto di tutela - l’integrità fisica e la personalità morale - e stabilisce i criteri di estensione dell’obbligazione, senza specificare i limiti entro cui fissare il comportamento del datore di lavoro per garantire la sicurezza dei suoi dipendenti.

La norma prevede una tutela che si traduce in un meccanismo riparatorio per affermare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro che non osservi le prescrizioni in essa contenute.

Il quadro normativo introdotto dall’art. 2087 c.c. viene, dunque, rafforzato dalla legislazione prevenzionistica degli anni ’50 mediante misure cd. “oggettive” di tutela della salute, nonché, successivamente, dall’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori, che attribuisce rilevanza alla tutela collettiva. La legislazione tecnica degli anni ’50 pone le fondamenta per la creazione di un sistema prevenzionistico organico, in grado di superare la logica risarcitoria deducibile dal sistema assicurativo degli infortuni.

L’obiettivo viene perseguito mediante l’introduzione di una serie di disposizioni normative con cui fissare gli obblighi dei datori di lavoro dei vari settori produttivi e gli strumenti di sicurezza da attuare negli ambienti di lavoro, senza, però, considerare i singoli fattori di rischio, concernenti, prevalentemente, la persona del lavoratore.

La forza espansiva della norma, che fonda un obbligo di elevata intensità e rigore, induce il datore di lavoro ad osservare tutte le precauzioni che risultano necessarie sulla base dei tre criteri generali in essa indicati: particolarità del lavoro, intesa come complesso di rischi e nocività che determinano la pericolosità dell’ambiente di lavoro; esperienza, intesa come conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa; tecnica, intesa come progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato e che deve cioè conoscere per definizione.

L’art 2087 c.c. non tipizza i comportamenti del datore del lavoro. Pur in assenza di specifiche indicazioni di prevenzione, il datore di lavoro deve predisporre le misure di sicurezza che, entro i confini tracciati dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, meglio rispondono alle conoscenze tecniche del tempo, in ossequio alla “funzione di adeguamento permanente dell’ordinamento alla realtà socio-economica sottostante”4. L’obbligo di continuo aggiornamento impegna il responsabile della sicurezza a rapportarsi alle nuove conoscenze messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico, realizzando il criterio della massima sicurezza tecnologica, che trova riferimento anche a livello sovranazionale con l’intervento della Corte di Giustizia Europea5, secondo la quale la valutazione dei rischi professionali deve essere effettuata in funzione del progressivo sviluppo e delle condizioni e delle ricerche scientifiche.

Quest’ultima considerazione necessariamente obbliga a volgere una particolare attenzione alle problematiche emerse in dottrina e giurisprudenza circa il contenuto del dovere di sicurezza in relazione al suo limite massimo.

Sono stati, infatti, sviluppati due diversi orientamenti: quello della massima sicurezza tecnologicamente possibile, che descrive un contenuto aperto dell’obbligo di sicurezza, poiché non prevede limiti nell’adozione delle misure di prevenzione suggerite dalla scienza, se non quello della conoscenza e fattibilità tecnologica, e quello della massima sicurezza ragionevolmente praticabile, che ha una portata più limitata, dato che impone un bilanciamento tra le esigenze di sicurezza e le esigenze economiche e organizzative dell’azienda.

La Corte costituzionale6 dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 1, del d.lgs. 277/19917 sollevata sotto il profilo della violazione dei principi di riserva di legge in materia penale e di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. Secondo la Corte, in particolare, verrebbe posto a carico del datore di lavoro un obbligo non del tutto generico e indeterminato, perché “là dove parla di misure concretamente attuabili, il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standards di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive”.

Ciò che dunque rileva “non è se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standards di produzione industriale, o specificamente prescritta”.

La soluzione accolta dalla Corte costituzionale fa riferimento a ciò che è generalmente acquisito e praticato sul piano delle misure tecniche, organizzative e procedurali nei diversi settori produttivi. Si tratta di una conclusione che risponde al principio della “massima sicurezza ragionevolmente praticabile”.

La giurisprudenza successiva e la prevalente dottrina legano il principio della massima sicurezza tecnologica alla c.d. best available technology, secondo la quale il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure tecnologicamente più avanzate disponibili sul mercato, indipendentemente dalla loro diffusione e applicazione nel settore produttivo di appartenenza. L’interpretazione maggioritaria è dunque ispirata al principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, che implica l’adozione delle misure e delle cautele preventive suggerite dalla tecnica e dalla scienza più evolute, a prescindere da ogni valutazione sulla concreta fattibilità e sul costo economico.

Infine, va chiarita la capacità della norma di estendere la tutela della sicurezza, prestando attenzione alla persona del lavoratore nella sua complessità.

La sua formulazione, infatti, non è limitata alla tutela dell’integrità fisica del lavoratore, ma include nel suo ambito operativo anche la personalità morale dello stesso, aprendo la strada all’evoluzione di rischi e patologie inerenti alla sfera psico-fisica. L’obiettivo è quello di censurare i comportamenti vessatori e le molestie sul luogo di lavoro parallelamente alla trasformazione della nozione di ambiente di lavoro, non più inteso solo come luogo fisico di esecuzione della prestazione, ma anche come spazio in cui l’esercizio dei poteri datoriali tenga conto del pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, libertà e dignità.

il Lavoro nella giurisprudenza, di Autori AA. VV., Ed. IPSOA, Periodico. Mensile di dottrina e giurisprudenza di legittimità e di merito in materia di rapporto di lavoro privato e pubblico, previdenza, sicurezza sul lavoro e processo del lavoro.
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3. La direttiva europea n. 1989/391 e la sua trasposizione

La direttiva quadro 89/391/CEE adottata dal Consiglio il 12 giugno 1989 si muove in una prospettiva di progresso e costituisce un intervento di fondamentale rilievo nella creazione di un nuovo modello di gestione e organizzazione della sicurezza. Rappresenta il passaggio da una logica risarcitoria ad un intervento di tipo preventivo, destinato ad eliminare e/o ridurre i rischi sui luoghi di lavoro.

Tale trasformazione trova la sua ragion d’essere nelle innovazioni e nei programmi d’azione realizzati a livello sovranazionale a partire dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, per poi arrivare ad un significativo punto di svolta attraverso l’introduzione della direttiva quadro, che costituisce l’architrave del sistema di protezione, il cui scopo è quello di attuare misure volte al miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori durante il lavoro.

La direttiva viene concepita sulla base di due importanti considerazioni: l’una, riguarda la necessità di sviluppo dell’informazione, del dialogo e della partecipazione equilibrata tra i datori di lavoro e i lavoratori e/o loro rappresentanti; l’altra, concerne la consapevolezza che il miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori durante il lavoro, rappresenti un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico.

Infatti, la direttiva costituisce il punto nodale del cambiamento: inaugura la filosofia partecipata della prevenzione, attenta alle relazioni tra il lavoratore, l’ambiente di lavoro e i fattori di rischio.

Questo nuovo approccio culturale si basa su tre principi chiave: il datore di lavoro è il responsabile della sicurezza in azienda, affiancato da soggetti/strutture tecniche competenti; i lavoratori devono essere informati, formati ed avere una rappresentanza adeguata; in ogni impresa devono essere identificati, valutati e controllati i rischi.

La direttiva, trovando applicazione in tutti i settori d’attività, pubblici e privati, promuove un modello di intervento incentrato sulla programmazione e sulla pianificazione della prevenzione, mediante una consultazione costante con i lavoratori, maggiormente coinvolti nelle dinamiche aziendali. Il favor nei confronti di un modello inclusivo è confermato dal preambolo della direttiva, nel quale si evince l’importanza di un contributo, mediante una “partecipazione equilibrata”, all’adozione delle misure fondamentali.

All’intervento eurounitario è attribuibile il merito di aver inaugurato una logica di prevenzione dai rischi, diretta a impedire il verificarsi o il diffondersi di eventi potenzialmente dannosi. La direttiva detta una serie di principi generali di segno innovativo, la cui prerogativa è la considerazione della tutela della salute dei lavoratori come un momento integrato nell’organizzazione dell’attività produttiva, in una logica di continuo miglioramento. Questo legame si esprime nell’obbligo del datore di lavoro di individuare i rischi professionali e conseguentemente enucleare le misure di garanzia più opportune.

I principi coniati dalla direttiva vengono tradotti a livello nazionale in un disegno giuridico innovativo, che cambia la normativa preesistente.

La trasposizione viene realizzata mediante il decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, il quale non abroga la disciplina degli anni ’50, ma ne restringe la genericità attraverso nuovi obblighi e l’istituzione di nuovi soggetti volti ad incrementare l’osservanza del debito di sicurezza. Il decreto delinea un modello di relazioni aziendali di tipo partecipativo, nel quale si ravvisa l’assegnazione di un ruolo attivo ai lavoratori e la programmazione delle attività di prevenzione e protezione, attenta alle specifiche esigenze e ai rischi insiti nei singoli contesti lavorativi. Il cambiamento incide sull’organizzazione e sulla gestione dei processi produttivi, sull’informazione dei lavoratori, sulla valutazione dei rischi, sulla presenza di figure specifiche e specialistiche, come il servizio di prevenzione e protezione, il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Il d.lgs. 626/1994, successivamente modificato e integrato da altri decreti, arricchisce il quadro normativo italiano in materia di sicurezza, ma non opera un’organizzazione sistematica dell’intera disciplina, aprendo delle lacune che trovano razionalizzazione negli interventi che seguono.

4. Il Testo Unico sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro

La mancata organicità della normativa prevista dal d.lgs. n. 626 del 1994 ha reso necessario un intervento di riordino della disciplina antinfortunistica, assai complessa per la sovrapposizione di diverse normative nel tempo e per la difficoltà del loro coordinamento. La riforma prende avvio con la legge 3 agosto 2007 n. 123 con la quale il Parlamento ha conferito al Governo la delega per l’emanazione di un testo di legge innovativo, che ha visto la luce con l’approvazione definitiva del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, corretto ed integrato dal successivo d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106.

Prima di analizzare il Testo Unico del 2008, punto cardine del coordinamento richiesto, è necessario prendere in considerazione la portata innovativa della legge delega e le finalità da essa perseguite.

Pur non costituendo una novità, il punto di forza di tale intervento è la realizzazione di un’unificazione della materia della sicurezza, dato il fallimento del tentativo compiuto con la legge delega 29 luglio 2003, n. 229, che prevedeva uno schema di testo unico.

L’art. 1 della legge 123/2007, in primo luogo, detta al comma 1 i “principi fondamentali” ed al comma 2 i “principi e i criteri direttivi” per il riordino della disciplina vigente, nel rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali, tramite l’adozione di uno o più decreti legislativi, che, ai sensi del comma 3, non possono prevedere un “abbassamento dei livelli di protezione, di sicurezza e di tutela o una riduzione dei diritti e delle prerogative dei lavoratori e delle loro rappresentanze”.

La riforma dovrà essere applicata a “tutti i settori di attività e a tutte le tipologie di rischio” e a “tutti i lavoratori, autonomi e subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati”, con la possibilità di una regolazione selettiva e differenziata a seconda delle caratteristiche del lavoro e della persona ad esso addetta.

In secondo luogo, contiene disposizioni volte a modificare alcuni istituti previsti dal d.lgs. 626/1994 ed altre destinate al suo completamento, ad esempio le misure per il contrasto del lavoro irregolare o per il coordinamento delle attività di vigilanza.

Altro obiettivo prioritario è la semplificazione degli adempimenti formali, con particolare riguardo alle piccole, medie e micro imprese; la rivisitazione e la riformulazione dell’apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, per la violazione delle norme previste nei decreti di attuazione; il potenziamento delle funzioni degli organismi paritetici e la partecipazione delle parti sociali al sistema informativo. La legge persegue un disegno ambizioso di riforma complessiva della materia, anche in base a previsioni innovative e con la volontà di realizzare un’operazione di razionalizzazione e coordinamento dell’intera normativa sul territorio nazionale, mediante indirizzi generali uniformi e la promozione dello scambio di informazioni.

Il Testo Unico del 2008 rispecchia i principi e gli obiettivi sanciti nella legge delega 123/2007 e segue una logica di prevenzione, che si affianca al sistema codicistico basato sul binomio responsabilità-danno.

Il disegno regolativo si muove lungo un percorso di omogenizzazione, razionalizzazione ed unificazione, destinato ad eliminare la pluralità di fonti sussistenti e confermato dall’art. 304 d.lgs. 81/2008, che dispone l’abrogazione delle principali normative preesistenti e di qualsiasi altra disposizione legislativa o regolamentare incompatibile con il presente decreto.

Il coordinamento della massa di disposizioni legislative, che hanno reso incerta l’applicazione puntuale delle misure di sicurezza, è la chiave per implementare la tutela prevenzionistica e l’applicazione di politiche efficaci.

Il decreto si colloca al centro del sistema legislativo, pur se in connessione con l’art. 2087 c.c. il cui carattere ampio e generico dà luogo ad un rapporto di genus ad speciem con la disciplina contenuta nel Testo unico. Il legame tra norma generale e norme speciali realizza un “sistema circolare”: la prima offre un inquadramento e una connotazione dell’obbligo di sicurezza, che viene a sua volta arricchito da specificazioni ad opera delle norme speciali.

Pertanto, la norma codicistica impone l’adozione sia di misure tipiche, stabilite espressamente dalla disciplina speciale ed individuate in concreto mediante una lettura integrata dei tre parametri – particolarità, esperienza, tecnica - sia di misure “innominate”, ossia quelle che, “ancorché non espressamente imposte dalla legge o da altra fonte equiparata, siano suggerite da conoscenze sperimentali o tecniche ovvero dagli standard di sicurezza normalmente osservati”8.

Conseguentemente il datore di lavoro non può mai sottrarsi al soddisfacimento dell’obbligo di sicurezza adducendo l’assenza di norme, in quanto l’art. 2087 c.c. assume la duplice valenza di apertura e di chiusura9 del sistema di sicurezza, poiché da un lato non tipizza e non esaurisce i comportamenti del datore di lavoro, consentendo alla legislazione prevenzionistica tecnica di operare, mentre dall’altro colma eventuali vuoti non coperti da previsioni di dettaglio.

Si delinea un sistema di promozione della salute nei luoghi di lavoro e di valorizzazione della prevenzione, che trova espressione nell’art. 2, co. 1, lett. n), d.lgs. 81/2008, che la enuncia definendola come “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”. Si tratta, quindi, di tutte quelle azioni che sono programmate e realizzate con la finalità di eliminare o ridurre la probabilità che un evento indesiderato accada.

Un efficace sistema preventivo è la base su cui costruire l’intero impianto di sicurezza aziendale, anticipando il potenziale sviluppo di un pericolo e riducendo la necessità di ricorrere a misure di protezione.

Il Testo Unico, relativo a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio, realizza un sistema di tutela legato al momento organizzativo aziendale, tramite la collaborazione di una pluralità di soggetti istituzionali, orientato al contenimento al minimo di tutti i rischi inerenti all’attività lavorativa. Il modello di organizzazione e gestione reso necessario dall’art. 30 d.lgs. 81/2008 assicura una pianificazione idonea all’adempimento di tutti gli obblighi giuridici. Ne deriva una struttura organizzativa ispirata alla ripartizione soggettiva, mediante l’attribuzione di obblighi in capo al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti e in minima parte ai lavoratori.

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1. Natullo, Ambiente di lavoro e tutela della salute, Giappichelli, 2020, pp. 10-12.

7. Art. 41, comma 1, d.lgs. 15 agosto 1991 n. 277: “il datore di lavoro riduce al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall’esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamene attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte”.

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