Tributario

Ne bis in idem in ambito tributario

Un principio di ampio spettro semantico, dal diritto tributario penale a quello tributario amministrativo, e la sua declinazione sia in senso sostanziale che procedurale

Letteralmente tale espressione significa: non due volte per la stessa cosa.

Giuridicamente trattasi del principio processualistico in relazione al quale l’art. 649 c.p.p. sancisce il divieto di un nuovo giudizio per l’imputato assolto o condannato in via definitiva per lo stesso fatto.

Nel contempo il ne bis in idem si configura altresì alla stregua di un principio ad ampio spettro semantico che, in vistosa e diretta auto-contraddizione, è destinato a valere non solo nel campo del diritto tributario penale, ma anche in quello del tributario amministrativo ed ancora ad essere suscettibile di declinazione sia in senso sostanziale che procedurale.

La legge delega per la riforma tributaria n. 111/2023 si richiama a detto principio del ne bis in idem, per prospettarne diversi profili di attuazione.

In particolare l’art. 20 co. 1 lett. a) della legge delega contiene una disposizione che, in tema di razionalizzazione del sistema sanzionatorio tributario amministrativo e penale, si propone di realizzare una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione “ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem”.

Questo è un comparto ancora de iure condendo della riforma.

Al riguardo mi limito quindi alla seguente ricapitolazione dello status quo della vigente normativa, su cui la prospettata riforma si propone di intervenire, per la quale mi atterrò alla maieutica desumibile dalla sentenza n. 43/2018 della Corte Costituzionale.

Nell’ordinamento giuridico nazionale, improntato al sistema del c.d. doppio binario penale e amministrativo, è prevista la possibilità che il c.d. idem factum possa restare soggetto autonomamente e cumulativamente a sanzioni di genere diverso, sia amministrativo che penale, salvo il rispetto del principio di proporzionalità, che vieta risposte complessivamente sproporzionate.

In relazione a tale ipotesi, ossia che uno stesso fatto venga punito sia come reato tributario, sia come illecito amministrativo, l’art 19 del D.Lgs. n. 74/2000 sancisce il principio di specialità per cui si deve (o dovrebbe) applicare soltanto la sanzione speciale. Però questa regola, in base al successivo art. 21, non impedisce che il procedimento amministrativo e il processo tributario siano autonomamente avviati o sospesi in ragione della pendenza dell’altro.

A complicare tale contraddittorio quadro normativo concorre poi la giurisprudenza nazionale che è piuttosto restia a riconoscere la sussistenza delle condizioni di applicabilità di detto principio di specialità fra la fattispecie tributaria e quella penale, inclinando piuttosto a riconoscere il caso della progressione, non solo quando il destinatario della sanzione sia lo stesso, ma anche quando siano diversi (rappresentante e persona giuridica rappresentata).

Condizione di specialità negata pure dall’orientamento a ricostruire il fatto storico presupposto in senso strettamente giuridico anziché in senso naturalistico.

Per altro la giurisprudenza comunitaria ha costantemente affermato che il divieto di procedere nuovamente per un medesimo fatto già giudicato in via definitiva rientri fra le garanzie assicurate dalla Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Inoltre ha affermato che il divieto del ne bis in idem implichi l’ulteriore conseguenza che la definitività dell’esito del procedimento amministrativo valga a precludere l’avvio del processo penale e viceversa.

Non bastasse, ai fini del divieto di restare assoggettato ad una seconda sanzione penale non è affatto rilevante la qualificazione della procedura e della sanzione come penale da parte dell’ordinamento nazionale, essendo invece decisiva la verifica della portata effettivamente afflittiva della misura applicata in concreto.

Più recentemente, la presa d’atto delle difficoltà di coordinamento della pur legittima discrezionalità del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo con il principio del ne bis in idem ha indotto la giurisprudenza europea a mitigare il rigore dei propri assunti precedenti e ad affermare che lo stesso principio non operi in presenza di una close connection fra i due procedimenti, altresì specificando che il criterio eminente per affermare o negare la connessione dei procedimenti è proprio quello relativo al giudizio sull’entità della sanzione complessivamente irrogata.

Quindi spetterà ai giudici nazionali fare in modo che nell’applicazione delle sanzioni il secondo giudice tenga conto di quanto già disposto dal precedente e al legislatore della riforma di adottare meccanismi di coesistenza amministrativa e penale integrata che non comportino un irragionevole aggravio del trattamento sanzionatorio complessivo.

Inoltre merita qui rammentare che nel concetto di misura punitiva rientrano, oltre alle sanzioni detentive e pecuniarie, anche le accessorie interdittive e ablatorie, quali la confisca.

Infine, ad appesantire ulteriormente il carico sanzionatorio conseguente all’illecito tributario concorre pure l’art. 25-quinquiesdecies del D.Lgs n. 231/2001 per il quale anche i reati tributari rientrano fra i reati presupposto della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche.

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Ciò detto a proposito degli aspetti processuali, la riforma risulta invece già de iure condito quanto alla dimensione procedurale del suddetto principio.

Nel sistema delle fonti del diritto la legittimazione di tale altro intervento è da rinvenire nell’art. 4 co. 1 lett. b) della legge delega n. 111/2023 che, in tema di principi e criteri direttivi specifici da seguire per la revisione dello statuto, così si esprime: “valorizzare il principio del legittimo affidamento del contribuente e il principio di certezza del diritto”.

Al riguardo la relazione illustrativa del provvedimento specifica che con detta disposizione si è inteso bilanciare “la tutela dell’interesse erariale con i diritti fondamentali del contribuente nel rispetto del principio di proporzionalità rafforzando la protezione di tali diritti e, nel contempo, la certezza del diritto”.

In ottemperanza, l’art. 1 del D.Lgs n. 219/2023 ha modificato lo statuto del contribuente contenuto nella legge n. 212/2000, ivi introducendo l’art. 9 bis con la seguente rubrica: divieto di ne bis in idem nel procedimento tributario.

Il testo della norma è il seguente: “salvo che specifiche disposizioni prevedano diversamente e ferma l’emendabilità di vizi formali e procedurali, il contribuente ha diritto che l’Amministrazione finanziaria eserciti l’azione accertativa relativamente a ciascun tributo una sola volta per ogni periodo d’imposta”.

La relativa relazione illustrativa specifica in proposito che si è inteso in tal modo recepire l’esigenza “di bilanciamento dell’interesse erariale e dei diritti fondamentali del contribuente”.

Il citato statuto è stato poi implementato di un’ulteriore disposizione, contenuta nell’art 10 ter, rubricato Principio di proporzionalità nel procedimento tributario, che ha inserito detto bilanciamento nel testo normativo di quest’ultima, come segue: “il procedimento tributario bilancia la protezione dell’interesse erariale alla percezione del tributo con la tutela dei diritti fondamentali del contribuente, nel rispetto del principio di proporzionalità”.

Il legislatore della riforma, con le suddette disposizioni, ha quindi voluto positivizzare due principi:

  • il principio di unicità dell’azione accertatrice, per il quale si prevede l’emissione di un solo atto di accertamento per ciascun periodo d’imposta
  • il principio di globalità, per il quale l’accertamento deve avere ad oggetto la totalità del presupposto impositivo integrato dal contribuente in modo tale che la relativa pretesa tributaria risulti formulata in un unico atto e non frammentata in una pluralità di provvedimenti.

Per altro, l’espressa salvezza delle disposizioni che prevedono diversamente, implica la conferma delle vigenti previsioni in tema di accertamento parziale ed accertamento integrativo.

Il primo tipo di accertamento è disciplinato dall’art. 41 bis del DPR n. 600/1973 che legittima la possibilità dell’accertamento di posizioni debitorie aggiuntive che, senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice, si basino sull’acquisizione di elementi dai quali risultino redditi non dichiarati o di maggiore ammontare che non richiedano un ulteriore esercizio valutativo.

L’accertamento integrativo è disciplinato invece dal successivo art. 43 co. 3, il quale prescrive che lo stesso debba fondarsi su elementi nuovi ed ulteriori rispetto a quelli posti a fondamento del primo atto impositivo. Occorre cioè che la nuova pretesa impositiva trovi fondamento in una fonte diversa da quella posta a base dell’accertamento parziale o comunque poggi su dati la cui conoscenza, da parte dell’Ente impositore, sia sopravvenuta all’accertamento.

L’impostazione del rapporto tributario che ne deriva è certamente da apprezzare e si pone in linea con diversi valori costituzionali, quali la tutela della certezza e della stabilità dei rapporti giuridici, il principio di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione, il principio di non aggravamento del procedimento, il principio di proporzionalità e il diritto di difesa.

Si tratta comunque di disposizioni che non recano in effetti alcun elemento di vera novità, ma che si limitano alla mera consacrazione normativa di una logica giuridica che in sede applicativa la giurisprudenza di legittimità aveva già fatto propria, seppure con rilevanti contrasti interpretativi che, allo stato, la disciplina di cui sopra non sembra in grado di superare, atteso il permanere delle difficoltà di coordinamento e contraddittorietà che caratterizzano gli istituti in questione.

In particolare mi riferisco alle questioni interpretative recentemente rimesse alle SS.UU. della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza n. 33665/2023) che, fra l’altro, dovrà pronunciarsi proprio anche in ordine al problema di come il novero degli istituti procedimentali basati sul riesame degli atti si coordini con il ri-affermato principio procedimentale del ne bis in idem.

Problema che, all’apparenza, la riforma de quo lascia invece del tutto irrisolto.

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