Lavoro e previdenza sociale

Mobbing: la guida completa

Gli elementi costitutivi, i danni risarcibili, gli strumenti per difendersi

Per “mobbing” si intende un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Pur in assenza di una legge appositamente dedicata a tale pericoloso fenomeno, diversi sono gli strumenti di tutela offerti dall’ordinamento.

Sommario

1. Che cos’è il mobbing?
2. Mobbing orizzontale e mobbing verticale
3. Mobbing: gli elementi costitutivi
4. Mobbing: la normativa di riferimento
5. Mobbing: può costituire reato?
6. Il risarcimento dei danni
7. Mobbing: quali danni possono essere risarciti?
8. Mobbing: gli strumenti per difendersi
9. Come dimostrare di essere vittima di mobbing?
10. Mobbing e straining: le differenze
11. Breve rassegna giurisprudenziale (paragrafo a cura della redazione)

1. Che cos’è il mobbing?

Il termine “mobbing” (dall’inglese “to mob”, verbo che significa “aggredire, attaccare”) è ormai da diverso tempo entrato nel linguaggio non solo giuridico, ma anche comune, per indicare un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Inizialmente descritto e studiato da sociologi e psicologi, il fenomeno del mobbing ha in seguito trovato rilievo anche nelle aule di tribunale. In assenza di una apposita normativa, la giurisprudenza ha definito il mobbing come una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Le condotte in grado di integrare il fenomeno del mobbing possono essere le più diverse: il lavoratore che ne è vittima potrebbe ritrovarsi ad essere isolato all’interno dell’ambiente lavorativo, venendo ad esempio relegato in una sede o in una postazione particolarmente scomoda o venendo escluso da riunioni, progetti, comunicazioni aziendali, corsi di aggiornamento e altre attività; potrebbe divenire bersaglio di battute, pettegolezzi, insulti e comportamenti ostili di vario genere, così come ritrovarsi al centro di una vera e propria campagna diffamatoria portata avanti nei suoi riguardi; potrebbe vedersi improvvisamente sottrarre mansioni sino a quel momento ricoperte oppure essere assegnato a mansioni inferiori e dequalificanti, o ancora, all’opposto, trovarsi a dover gestire da solo carichi di lavoro intollerabili; potrebbe trovarsi esposto a più intense ed assillanti forme di controllo da parte del datore di lavoro, ad esempio durante lo svolgimento delle proprie attività o in occasione di assenze per malattia; potrebbe vedersi privare di determinati benefit aziendali sino a quel momento goduti o vedersi rifiutare sistematicamente permessi, ferie ed altre richieste; nei casi più estremi, potrebbe essere licenziato senza alcuna motivazione; talvolta, potrebbe addirittura divenire bersaglio di violenze sul piano fisico o di aggressioni alla sfera sessuale.

Come si può percepire dai numerosi esempi appena riportati, tra le condotte riconducibili alla nozione di mobbing figurano sia comportamenti senz’altro illeciti (talora perseguibili anche sul piano penale), sia atti che isolatamente considerati risultano di per sé leciti ed anzi costituiscono spesso espressione degli ordinari poteri di direzione, controllo e disciplina spettanti al datore di lavoro. Ad unificare tali condotte, attribuendo loro natura complessivamente illecita, sono l’intento vessatorio che anima il persecutore (definito anche “mobber”) ed il carattere sistematico dell’azione, portata avanti in maniera mirata e prolungata nel tempo al fine di colpire una persona sgradita, temuta oppure non più ritenuta utile: così come le forme di aggressione, anche le motivazioni alla base del fenomeno sono evidentemente molteplici, sfaccettate e variabili da un caso all’altro.

2. Mobbing orizzontale e mobbing verticale

In base ai soggetti coinvolti e alla loro posizione nella gerarchia dell’azienda o dell’ufficio, è possibile individuare le seguenti tipologie di mobbing:

  • mobbing verticale, quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti collocati a diversi livelli della scala gerarchica, dovendosi poi ulteriormente distinguere tra:
    • mobbing discendente, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono posti in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima (queste ipotesi vengono identificate anche con il termine “bossing”);
    • mobbing ascendente, quando viceversa è un lavoratore di livello più basso ad attaccare un soggetto a lui sovraordinato;
  • mobbing orizzontale, quando la condotta mobbizzante è posta in essere da uno o più colleghi posti allo stesso livello della persona che ne è bersaglio.

3. Mobbing: gli elementi costitutivi

Come chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.

4. Mobbing: la normativa di riferimento

Nell’ordinamento italiano non esiste una disciplina specificamente dedicata al fenomeno del mobbing: ciononostante, sono diverse le norme che – tutelando la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori – consentono di attribuire rilievo alle condotte vessatorie che si sono in precedenza descritte.

A livello costituzionale è possibile richiamare:

  • l’art. 2 Cost., che afferma il valore centrale e primario della persona umana, sia come individuo che come membro della società;
  • l’art. 3 Cost., che sancisce il principio di uguaglianza tra i cittadini e vieta ingiustificate discriminazioni tra di essi, attribuendo alla Repubblica il compito di attivarsi per l’effettiva realizzazione di tale obiettivo;
  • l’art. 4 Cost., secondo cui la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto;
  • l’art. 32 Cost., che individua la salute come fondamentale diritto dell’individuo e come interesse della collettività;
  • l’art. 35 Cost., in base al quale la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni;
  • l’art. 41 Cost.,, secondo cui l’iniziativa economica privata, pur libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

A livello di legge ordinaria, vengono in rilievo le seguenti norme del codice civile:

  • l’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che, secondo le particolarità dell’attività svolta, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro;
  • l’art. 2103 c.c., che disciplina la prestazione dell’attività lavorativa da parte del lavoratore, individuando le ipotesi e le modalità con cui può procedersi ad un mutamento delle mansioni originariamente attribuite;
  • gli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali esigono che le parti di ogni rapporto contrattuale agiscano comportandosi reciprocamente secondo correttezza e buona fede;
  • l’art. 2043 c.c., che sancisce il generale principio del neminem laedere, in base al quale cioè qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno;
  • l’art. 2049 c.c., che chiama il datore di lavoro a rispondere dei danni cagionati dal fatto illecito commesso dal proprio dipendente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.

La figura del lavoratore trova inoltre tutela anche in altre fonti:

  • la L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il cui art. 15, in particolare, sancisce la nullità di patti o atti diretti a realizzare forme di discriminazione sul luogo di lavoro;
  • il D.Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), i cui artt. 25 e seguenti sono specificamente dedicati al contrasto delle discriminazioni nei luoghi di lavoro;
  • il D.Lgs. 81/2008 (Testo unico per la sicurezza sul lavoro), il cui art. 28 impone di considerare tra i rischi per la salute dei lavoratori anche quelli derivanti da condizioni di stress lavoro-correlato.

5. Mobbing: può costituire reato?

Non esiste nella legislazione vigente uno specifico reato di mobbing. Tuttavia, considerata la varietà di forme che le condotte persecutorie possono assumere nei casi concreti, alcuni dei comportamenti posti in essere dal mobber potrebbero talvolta integrare fattispecie criminose previste dal codice penale a tutela dell’incolumità individuale, dell’onore, della libertà personale e morale, ecc. .

Sono quindi stati ipotizzati e talvolta effettivamente riconosciuti dalla giurisprudenza i seguenti reati:

  • maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), a condizione però che le condotte vessatorie si siano verificate all’interno di contesti lavorativi di dimensioni così ridotte da far ritenere che tra le parti coinvolte effettivamente sussistesse un rapporto di tipo para-familiare: un rapporto caratterizzato cioè da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (il pensiero va a piccole imprese o esercizi commerciali a conduzione familiare, ma anche a studi professionali od uffici di modeste dimensioni nell’ambito dei quali possono in concreto verificarsi le condizioni appena evidenziate);
  • violenza privata (art. 610 c.p.), allorché la condotta vessatoria abbia avuto per effetto quello di costringere la vittima ad un determinato comportamento (ad esempio accettare svantaggiosi mutamenti delle proprie condizioni di lavoro);
  • minaccia (art. 612 c.p.), allorché il mobber arrivi a prospettare alla vittima il pericolo di future ed ingiuste conseguenze dannose;
  • lesioni personali dolose o colpose (rispettivamente artt. 582 e 590 c.p.), nel caso in cui la condotta aggressiva arrivi a ledere l’integrità psicofisica del lavoratore che ne è vittima (in ipotesi di mobbing orizzontale, ad esempio, il reato doloso dovrà essere contestato al collega di lavoro che abbia materialmente posto in essere la violenza da cui è scaturita la lesione; la fattispecie colposa potrà invece essere addebitata al datore di lavoro che non abbia adeguatamente vigilato sulle condizioni di lavoro e sulla salute dei dipendenti, a meno che non sussistano elementi per configurare un suo concorso – anche solo di tipo morale – nel reato doloso posto in essere da altro soggetto);
  • violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), nei casi in cui la condotta vessatoria assuma forme in grado di rientrare nell’ampia nozione di atti sessuali elaborata dalla giurisprudenza (dovendosi in essa ricomprendere anche azioni quali baci, abbracci, palpeggiamenti e più in generale ogni atto comunque coinvolgente la corporeità della persona offesa, posto in essere con la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo della sfera sessuale di una persona non consenziente);
  • molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.), fattispecie più lieve in grado di applicarsi a casi in cui la condotta mobbizzante abbia assunto contorni più sfumati e meno gravi rispetto alle altre ipotesi sin qui descritte;
  • abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), configurabile nel settore del pubblico impiego allorché le condotte vessatorie siano poste in essere da soggetti muniti della qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

6. Il risarcimento dei danni

Il lavoratore vittima di mobbing ha diritto al risarcimento dei danni subiti. Le modalità per ottenere il risarcimento variano a seconda del tipo di responsabilità che il danneggiato intende far valere in giudizio: le condotte mobbizzanti possono infatti dar luogo a profili di responsabilità contrattuale od extracontrattuale, con tutte le differenze di disciplina che ne derivano.

6.1 Responsabilità contrattuale

Si parla di responsabilità contrattuale nei casi in cui il danneggiato lamenta l’inadempimento di una obbligazione preesistente, qualunque ne sia la fonte. Nel caso del mobbing, ad essere inadempiuta è un’obbligazione che trova la propria fonte direttamente nella legge, e cioè in quell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore – e più in generale al datore di lavoro – di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

È dunque inadempiente rispetto all’obbligazione di tutela imposta dall’art. 2087 c.c. sia il datore di lavoro che in prima persona ponga in essere atti vessatori nei confronti del proprio dipendente, sia il datore di lavoro che non abbia adeguatamente vigilato, prevenuto ed eventualmente represso condotte mobbizzanti realizzate da suoi sottoposti nei riguardi di un altro lavoratore.

Nel far valere la responsabilità contrattuale del proprio datore di lavoro, il lavoratore vittima di mobbing dovrà indicare e provare i comportamenti vessatori subiti, tali da rendere “nocivo” l’ambiente di lavoro, dando altresì prova del danno patito e del nesso causale fra tale danno e le condotte mobbizzanti rese possibili dall’inadempimento degli obblighi di protezione incombenti sul datore di lavoro. Per andare esente da responsabilità, quest’ultimo dovrà invece – secondo lo schema previsto dall’art. 1218 c.c. – dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute psicofisica del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili (in questi termini si è espressa, ad esempio, Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 2038/2013).

Uno dei vantaggi per chi intraprende un’azione di responsabilità contrattuale è il non dover dar prova dell’atteggiamento psicologico (dolo o colpa) di colui che, col suo inadempimento, ha provocato il danno: poiché infatti in ambito contrattuale l’ordinamento presume la colpa della parte rivelatasi inadempiente, toccherà a quest’ultima riuscire eventualmente a dimostrare che l’inadempimento si è verificato per ragioni a lei non rimproverabili.

Tale agevolazione probatoria si scontra però con il fatto che – come si è visto in precedenza – uno degli elementi costitutivi del mobbing è proprio il dolo del mobber: è infatti l’intento persecutorio l’elemento unificante in grado di ricomprendere le singole condotte di mobbing all’interno di una più ampia sequenza vessatoria. Sotto questo profilo, al fine di non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, la giurisprudenza ha quindi chiarito che egli può limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta complessivamente posta in essere, rilevabile, anche in via presuntiva, dalle caratteristiche oggettive della stessa, quali la monodirezionalità, la pretestuosità e la permanenza nel tempo dei comportamenti vessatori.

Fornire piena prova del dolo (non solo nelle ipotesi di “bossing”, ma anche nei casi in cui il datore di lavoro abbia omesso di prevenire e di attivarsi a fronte di condotte di mobbing orizzontale tra colleghi) può peraltro rivelarsi estremamente utile perché consente di chiedere ed ottenere l’integrale ristoro dei danni patiti, superando così la soglia posta dall’art. 1225 c.c., che altrimenti limiterebbe il risarcimento ai soli danni il cui verificarsi poteva essere previsto dal datore di lavoro al momento in cui era sorta l’obbligazione di protezione rimasta inadempiuta (dovendosi per contro escludere, in ipotesi di sola colpa, la risarcibilità dei danni imprevedibili).

L’azione di responsabilità contrattuale è soggetta ad un termine di prescrizione di dieci anni.

6.2 Responsabilità extracontrattuale

Ricorre un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale allorché un soggetto danneggia ingiustamente un altro soggetto al quale non era in precedenza legato da un vincolo obbligatorio. Con riferimento al mobbing, è quanto accade quando la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, purché diversi dal datore di lavoro, sul quale solo gravano gli obblighi di protezione esaminati nel paragrafo precedente.

Nell’intraprendere un’azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dunque dar prova di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c., e cioè il fatto dannoso, il danno patito ed il nesso causale tra fatto e danno, nonché, sul piano psicologico, l’atteggiamento doloso del danneggiante.

Oltre che nei diretti confronti del proprio persecutore, il lavoratore vittima di mobbing potrà contemporaneamente agire anche nei confronti del proprio datore di lavoro facendo valere – sempre sul piano extracontrattuale – la responsabilità indiretta che l’art. 2049 c.c. ricollega al fatto illecito commesso dal dipendente. Si tratta di una ulteriore possibilità di azione, che si affianca alla già vista responsabilità a titolo contrattuale del datore di lavoro che non abbia adeguatamente tutelato l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro a lui sottoposti.

A fronte di un termine di prescrizione di cinque anni, sensibilmente più breve di quello previsto per le ipotesi di responsabilità contrattuale, la disciplina della responsabilità extracontrattuale consente di invocare il risarcimento di tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta illecita, a prescindere dalla possibilità per il danneggiante di prevederli o meno.  

7. Mobbing: quali danni possono essere risarciti?

Considerata la varietà di forme che le condotte vessatorie possono in concreto assumere, molteplici e diversi sono gli effetti negativi – e quindi i danni – che possono verificarsi a carico del lavoratore che ne è vittima: a seconda delle circostanze, il pregiudizio può colpire sia la sfera patrimoniale che quella non patrimoniale del soggetto bersaglio delle condotte mobbizzanti.

Sotto il profilo patrimoniale, potrà ad esempio chiedersi il risarcimento sia dei costi affrontati dalla vittima in conseguenza delle condotte vessatorie (ad esempio per spese mediche o farmaceutiche sostenute a fronte delle lesioni psicofisiche derivanti dal mobbing), sia dei mancati guadagni che il lavoratore avrebbe ottenuto se non fosse stato illegittimamente assegnato a mansioni inferiori o se non gli fossero stati ingiustificatamente preclusi opportunità professionali e avanzamenti di carriera.

Sotto il profilo non patrimoniale, invece, potranno trovare ristoro tutti quei pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti fondamentali protetti dalla Costituzione. Richiamando qui le categorie usate dalla giurisprudenza per descrivere cosa debba ricomprendersi nell’area del danno non patrimoniale e tralasciando il complesso dibattito giuridico al riguardo, potranno dunque essere oggetto di risarcimento il danno biologico (cioè quello derivante da patologie fisiche o psichiche riportate dal lavoratore, clinicamente accertate), il danno morale (consistente nella sofferenza e nel dolore patiti dal danneggiato) e il danno esistenziale (derivante dallo sconvolgimento delle abitudini di vita, delle relazioni e delle altre attività umane nell’ambito delle quali la persona trova la propria più completa realizzazione).

8. Mobbing: gli strumenti per difendersi

Oltre al risarcimento del danno, il lavoratore vittima di mobbing ha a disposizione anche altri strumenti di tutela con i quali cercare di arginare le condotte vessatorie. Ciascuno di tali rimedi ha effetti diversi, dovendosi quindi preventivamente valutare, in relazione alla specificità ed alla gravità della situazione, quale obiettivo si intende raggiungere; nel compiere tali valutazioni, oltre a consultare un legale, potrebbe essere opportuno rivolgersi ad alcuni organi deputati alla tutela dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro (ad esempio il responsabile dei lavoratori per la sicurezza, c.d. “R.L.S.”, oppure il comitato unico di garanzia, c.d. “C.U.G.”, istituito presso ogni pubblica amministrazione datrice di lavoro).

Tenuto conto dell’obbligo di protezione dell’incolumità dei lavoratori che, come si è visto, l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro, una prima possibilità è percorrere la strada dell’azione di adempimento, al fine di costringere il datore di lavoro ad adottare adeguate misure di contrasto e prevenzione rispetto alle condotte mobbizzanti realizzate da altri lavoratori sottoposti alla sua autorità. Considerato che in alcune situazioni il protrarsi delle condotte vessatorie potrebbe verosimilmente determinare un pregiudizio imminente ed irreparabile a carico del lavoratore che ne è vittima, l’azione in esame ben potrebbe essere introdotta anche in via cautelare, con ricorso ex art. 700 c.p.c. volto ad ottenere dal giudice un provvedimento d’urgenza.

L’inadempimento dell’obbligo di protezione incombente sul datore di lavoro potrebbe peraltro, in base all’art. 1460 c.c., consentire al lavoratore di rifiutare l’esecuzione della propria prestazione lavorativa sino a che non siano adottate misure in grado di arginare il fenomeno dannoso, facendo valere la c.d. eccezione di inadempimento: un rimedio dall’impatto senz’altro più marcato rispetto al precedente, che potrebbe però determinare un nuovo fronte di conflitto con il datore di lavoro che ritenga ingiustificato il rifiuto opposto dal lavoratore.

Rimedio più radicale è infine quello delle dimissioni per giusta causa, con le quali il lavoratore vittima di mobbing pone definitivamente fine ad un rapporto di lavoro per lui ormai divenuto insostenibile. Alle dimissioni per giusta causa consegue per il lavoratore il diritto di percepire un’indennità sostitutiva del preavviso, cioè una somma pari alla retribuzione che sarebbe spettata al dimissionario se avesse lavorato per l’intero periodo di tempo individuato come preavviso dal contratto collettivo in ipotesi di normali dimissioni volontarie. In presenza di tutti i requisiti previsti dalla legge, il lavoratore dimissionario perché vittima di mobbing potrà inoltre accedere all’indennità di disoccupazione (NASpI).

9. Come dimostrare di essere vittima di mobbing?

Per dimostrare di essere vittima di mobbing, il lavoratore dovrà riuscire a provare la sussistenza dei singoli elementi costitutivi del fenomeno: la serie di atti aggressivi, discriminatori e vessatori subiti, la loro sistematica ripetizione nel tempo, i danni riportati a seguito di tali comportamenti ed il nesso di causalità tra le condotte lamentate ed i pregiudizi subiti.

Particolarmente gravoso potrebbe risultare l’onere della prova con riguardo all’intento persecutorio che caratterizza e accomuna all’interno di un’unica e sistematica strategia persecutoria i singoli episodi di vessazione posti in essere dal datore di lavoro o da altri colleghi. Questo perché – come si è già avuto modo di osservare in precedenza – il fenomeno del mobbing può verificarsi, oltre che attraverso condotte senz’altro illecite (si pensi, sul piano civile, al demansionamento del dipendente oppure, sul piano penale, alle minacce o violenze rivolte all’indirizzo di un lavoratore), anche attraverso comportamenti di per sé neutri (ad esempio non rivolgere la parola ad un collega, ignorando ogni sua richiesta di collaborazione o aiuto) o addirittura del tutto legittimi se considerati di per sé (ad esempio il rifiuto di un permesso da parte del datore di lavoro o l’invio di una visita fiscale in occasione di un’assenza per malattia del dipendente).

Il lavoratore vittima di mobbing dovrà quindi in particolar modo dimostrare che le condotte poste in essere nei suoi confronti non rientrano nell’esercizio dei normali poteri di organizzazione e controllo delle attività riconosciuti al datore di lavoro, né si limitano a semplici e tutto sommato fisiologici episodi di conflittualità sul luogo di lavoro, ma integrano al contrario una vera e propria strategia persecutoria finalizzata a porre il soggetto che ne è bersaglio in uno stato di grave e profondo disagio.

Prova di tutti gli elementi richiesti potrà esser data sia in via documentale (producendo ad esempio certificazioni mediche attestanti le patologie riportate dal lavoratore a seguito delle condotte mobbizzanti), sia in via testimoniale (chiamando a deporre colleghi di lavoro o altre persone che abbiano potuto assistere ad alcuni degli episodi di mobbing). Acquisita la prova delle condotte vessatorie, la sussistenza di determinate poste di danno (in particolare alcune tipologie di danno non patrimoniale tradizionalmente indicate come danno morale e come danno esistenziale) potrà essere desunta dal giudice anche in via presuntiva, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto dedotto alla sua attenzione. 

10. Mobbing e straining: le differenze

Come più volte sottolineato, una delle caratteristiche del mobbing è la sistematicità delle condotte persecutorie, poste in essere e ripetute per un ampio lasso di tempo. La scienza medica e in alcuni casi anche la giurisprudenza hanno però riconosciuto la possibilità che anche singoli episodi di vessazione possano determinare effetti lesivi, tali da giustificare una pretesa risarcitoria.

Questa forma attenuata di mobbing è stata identificata con il termine “straining” (dall’inglese “to strain”, nel significato di “affaticare, sforzare”), dovendosi osservare come anche singoli episodi di conflittualità sul posto di lavoro possano – in presenza di determinati livelli di gravità, di una particolare frustrazione personale o professionale e di altre circostanze del caso concreto – avere efficacia “stressogena” e provocare quindi un’effettiva lesione della salute e del benessere del lavoratore (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 3291/2016). 

11. Breve rassegna giurisprudenziale (paragrafo a cura della redazione)

Segnaliamo qui di seguito alcune recenti pronunce giurisprudenziali in tema di mobbing:

  • Cassazione penale, Sez. V, sentenza 5 aprile 2022, n. 12827: ha chiarito che integra il delitto di atti persecutori (c.d. stalking) la condotta di "mobbing" del datore di lavoro che ponga in essere di reiterati comportamenti ostili verso i dipendenti, preordinati alla loro mortificazione, tali da determinare uno stato di ansia e di paura, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p.
  • Corte d’Appello di Firenze, sentenza 12 aprile 2022, n. 116: il collegio toscano ha precisato che integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, eventualmente anche leciti) diretti alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica)
  • Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 23 giugno 2020, n. 12364: i Supremi giudici hanno affermato che grava sul lavoratore l’onere di provare tutti gli elementi di fatto della condotta vessatoria e persecutoria lamentata ed il nesso causale tra questa e la lesione all’integrità psico-fisica patita
  • Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 4 dicembre 2020, n. 27913: integra gli estremi del mobbing il rivolgere accuse infondate, con termini offensivi, a una collega; in questi casi il datore di lavoro è tenuto a risarcire il danno per non aver garantito la serenità del dipendente dagli atteggiamenti vessatori dei suoi dipendenti
  • Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza 11 luglio 2022, n. 21865: la Suprema Corte ha chiarito che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio del datore medesimo
  • Consiglio di stato con sentenza 9 febbraio 2022, n. 952: chiamati a pronunciarsi in una vicenda riguardante il rapporto di pubblico impiego, i Giudici di Palazzo Spada hanno ribadito quali sono i presupposti per l’integrazione della fattispecie. La  configurabilità del mobbing presuppone l'esistenza di plurimi elementi - la cui prova compete al prestatore di lavoro -, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l'emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima. Grava sul soggetto che afferma di essere stato vittima di mobbing l’onere di provare la condotta illecita, ossia l’azione volutamente persecutoria da parte della Pubblica Amministrazione.
  • Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 febbraio 2018, n. 3977: non viola l'art. 112 c.p.c. il giudice che abbia utilizzato "la nozione medico-legale dello straining anzichè quella del mobbing" perchè lo straining altro non è se non "una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie.." azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c.
  • Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 14 maggio 2020, n. 8948: La Corte ha affermato che l’Inail indennizza anche la malattia causata dalla condotta vessatoria del datore di lavoro. La tutela assicurativa da parte dell'Inail si applica infatti anche al mobbing, ovvero ad ogni forma di tecnopatia di natura fisica o psichica, che sia conseguenza dell’attività lavorativa svolta, anche nel caso in cui essa non sia inserita tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo il lavoratore, in tale caso, provare solo l’esistenza del nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia.
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